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LA NOSTRA NOTIZIA – SERGIO DALLA VAL

Conferenza webinar di SERGIO DALLA VAL, psicanalista, cifrante, brainworker. Martedì 19 settembre 2023 - Libreria Il secondo rinascimento, Bologna.

"La fake news è l'arma con cui il potere si legittima, perché è l'idea della corretta relazione e della cosa giusta, dunque serve al canone dell'Unico. Che ognuno "si faccia delle idee", che rientrino nell'idea di relazione e nell'idea della cosa è essenziale per il tiranno, che esige che ci siano sudditi pronti alla pena e alla penitenza. La notizia che non rientri nella fake news è quella che non viene dalle nostre idee, dal nostro punto di vista, dalla nostra cultura sociale. Questa notizia si attiene alla piega delle cose che dicendosi si fanno, è la notizia del malinteso, non dell'intesa, dell'anomalia, non dell'uguaglianza, della differenza e della varietà pragmatica, anziché dell'unità ideale". (Sergio Dalla Val)

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DI UN ENTUSIASMO SENZA L’IDEA DI CONOSCENZA

In ogni tempo i saggissimi hanno giudicato la vita allo stesso modo: essa non vale niente… Sempre e ovunque si è udito dalla loro bocca lo stesso accento – un accento pieno di dubbi, di melanconia, di stanchezza della vita, un accento pieno di opposizione alla vita”. Così scrive nel 1888 Friedrich Nietzsche nel libro Crepuscolo degli idoli. E prosegue annotando che è impossibile, per chi vive, giudicare la vita. La vita vale, la vita non vale? E cosa vale? Vale la pena, la fatica, la candela? In effetti, come potere pensare, giudicare, valutare la vita senza farne una rappresentazione o un’idea, senza assoggettarla all’arbitrio dell’idea, cioè limitarla, appiattirla, sottoporla al pregiudizio?

La vita potrebbe essere giudicata solo partendo dalla vita ideale, per cui la vita sarebbe annullata dall’idea della vita, anzi la vita verrebbe guidata dall’idea del nulla. L’idea della vita è l’idea della cosa: idea dell’oggetto e della causa, del tempo e dell’Altro. “Questa è la cosa, la cosa che conta, la cosa che vale, la cosa in sé e per sé”. Vi è chi si dà pena nel tentativo di stabilire l’oggettività o di fissare la causalità, di gestire il tempo o di controllare l’Altro? Questa idea della cosa trae la vita nell’alternativa tra bene e male, che diventa alternativa alla vita, sorretta dall’idea di morte. L’idea della vita è l’idea della morte, e la paura della morte è la paura della vita.

La cifrematica, la scienza della parola, constata che chi parte dall’idea della cosa confronta la vita con il suo spettro, costruisce una realtà spettrale, una realtà basata sul giudizio di sé e sul proprio ghénos familiare e sociale. Tolti, idealmente, l’oggetto e la causa, il tempo e l’Altro, accade che il dire, il fare, lo scrivere vengano sottoposti al detto, al fatto, allo scritto di riferimento, al riferimento ideale. E quale miglior riferimento di quello dell’idea del proprio ghénos ideale e sociale? Quale canone morale migliore della famiglia presunta d’origine, che è la famiglia ideale, rispetto a cui la propria famiglia, la famiglia storica, diventa positiva o negativa, redenta o dannata? L’idea di alternativa, per esempio rispetto alla propria famiglia, alla propria ricerca, alla propria impresa è debitrice dell’idea della cosa, del giudizio morale su di essa dettato dall’ideologia familiare e sociale, dunque dall’idea di origine o iniziale.

La realtà spettrale, tentando di sostituirsi alla realtà della cosa, all’oggetto e alla causa, al tempo e all’Altro, tenta di eliminarli: è la realtà della morte. Questo ghénos ideale che nutre la realtà spettrale, questa idea di famiglia di origine o iniziale dovrebbe negare la famiglia come mito e come traccia, da cui procede il dispositivo del gerundio della vita. Della famiglia non abbiamo idea, per questo è mito e traccia. In questa famiglia come modo dell’apertura, famiglia che è impossibile qualificare ristretta o allargata, tradizionale o alternativa, non c’è conoscenza, tanto meno del bene e del male. La famiglia in cui c’è conoscenza è tragica, toglie qualsiasi occasione di dispositivo tra i familiari. Solo in assenza di conoscenza, nella famiglia come traccia e non come linea, non c’è una lingua unica, che si nutre della lingua dei litiganti, né il dialogo, che si nutre del conflitto. La famiglia come traccia, come apertura vanifica l’idea sulle relazioni, buone o cattive, tra i familiari, che sarebbero la causa di ogni guerra di famiglia.

L’idea di relazione doppia l’idea della cosa. Sottoposta all’idea di relazione, ogni cosa può divenire relativa, dunque essere confrontata, paragonata, parificata, omologata. Così impera l’idea di uguale. Dell’idea di uguale è tributaria la spettralità, nei suoi due aspetti, la fascinazione verso lo spettro o l’affrontamento contro lo spettro, che risentono della relazione ideale. La fascinazione e l’affrontamento spettrali, cioè dipendenti dall’idea di ghénos, dall’idea di uguale sociale e famigliare, negano l’identificazione, l’instaurazione dell’oggetto e della causa della parola, condizione intangibile e inderogabile di ciascuna esperienza. L’identificazione è virtù dell’oggetto e della causa, come l’audacia, come lo sdegno, come l’entusiasmo. Virtù dell’oggetto, non del soggetto, essa non dipende né costituisce un’identità perché non procede da un’idea di sé ma dall’apertura, dalla traccia: per questo non rientra in un sistema, non favorisce l’unione, non offre supporto alle masse e alle comunità di spirito. L’identificazione non consente l’uguaglianza, che vorrebbe negarla, fissarla, parteciparla: ma in questo modo la prova di realtà e di verità si muterebbero nella ricerca di obiettività e nella ricerca delle cause, cioè nell’obiettivismo e nel causalismo che trasformano la vita in una realtà penale e penitenziaria.

“Lo spettro è un oggetto che ritorna sul soggetto”, scrive Armando Verdiglione nel libro Il gerundio della vita. Analisi e clinica(Spirali, 2022, eBook). In nome del sé ideale, dell’idea di sé, ognuno è limitato e difettoso, si autoaccusa e si autocritica e considera ciascuna annotazione, ciascun apporto come accusa e come critica, attribuendo i suoi spettri alla realtà, che così viene annullata dalla sua soggettività, sempre mancante rispetto alla conoscenza di sé, all’idea di sé. L’identificazione non consente questa conoscenza spettrale, impedisce il ritorno dell’oggetto sul soggetto perché non conosce il suo oggetto e la sua causa, per questo non può considerarli buoni, come nell’euforia, o cattivi, come nella disforia, per questo non supporta la mania e la malinconia che la filosofia e la psichiatria, da Platone a Charcot, considerano patologie soggettive del presunto rapporto con l’oggetto. Segnatamente, il filosofo e lo psichiatra avrebbero con l’oggetto un rapporto corretto, basato sulla ragione, dettato dall’idea di bene, mentre l’artista o il folle sarebbero vittime di un rapporto scorretto, basato sulla passione, cioè sul venir meno della ragione, per delirio o per errore, dunque orientato al male. Come scriveva il filosofo Christian Thomasius nell’Introduzione alla dottrina della ragione (1691): “Come questa ragione, in quanto è l’essenza primaria dell’uomo, è indiscutibilmente un bene, così la sua privazione, che si chiama follia o delirio, o la sua diminuzione, ovvero l’idiozia, l’errore, la sragione ecc., è un male. E ciò che rafforza e conserva la ragione è bene, ciò che la indebolisce o la diminuisce è male”.

Ma, nel 1781, nella Critica della ragion pura, Immanuel Kant compie un passo ulteriore definendo come “mancato rispetto dei limiti della ragione” il fanatismo, che viene poi contrapposto all’entusiasmo: “Il primo crede di sentire una comunione immediata, straordinaria con una più alta natura, mentre il secondo indica la condizione di un animo eccitato oltre la misura conveniente, ora mediante massime della virtù patriottica, ora dell’amicizia, ora della religione, senza che vi abbia a che fare un’immaginaria comunione spirituale”. Nel primo caso si tratta di un errore conoscitivo, di una credenza, nel secondo di un’esaltazione, di un affetto, seppur riscattato da un’idea di bene, come scrive altrove: “L’idea di bene congiunta con un affetto si dice entusiasmo”. Ma, poiché per Kant l’affetto “non può meritare in alcun modo la benevolenza della ragione”, per riabilitare l’entusiasmo deve considerarlo “esteticamente”, e allora “l’entusiasmo è sublime, perché è una tensione delle forze psichiche prodotte da idee, le quali danno all’animo uno slancio di gran lunga più potente e durevole dell’impulso che deriva da rappresentazioni sensibili”.

Sospeso tra l’idea di male in Thomasius e l’idea di bene in Kant, l’entusiasmo come virtù dell’oggetto dell’identificazione viene, idealmente, cancellato. Ma con questa cancellazione l’entusiasmo viene sottoposto all’idea di possessione, secondo l’etimo enthéos, composto di en (in) e theós (dio) per cui enthousiázein sarebbe “essere posseduto dalla divinità” e relegato alla divinazione e alla mantica. Pervaso dall’entusiasmo è il poeta che declama versi nello Ione e nel Fedro di Platone, invasa dallo pnėuma enthousiastikón è la Pizia dell’Oracolo di Delfi secondo La geografia di Strabone. Risuona della parola delle Muse il poeta, viene penetrata (di qui lo sdegno morale di San Giovanni Crisostomo) dal soffio del dio la Pizia, ed entrambi resteranno il prototipo del soggetto della manìa (da màinomai, essere agitato, pazzo), mania poetica e mania femminile. Anche la Pizia, come il poeta, non detiene la conoscenza, ma anche per lei quest’ultima proviene come virtù ideale, proviene dall’idea di dio. Nel momento in cui ha a che fare con questa idealità, ha a che fare con la conoscenza, e in virtù di questa conoscenza basata sull’entusiasmo spirituale, la Pizia può divinare, in modo spettrale, l’avvenire e il divenire.

Alla possessione, che pure considera sacra perché proviene da un dio, Platone contrappone il principio di padronanza, virtù del filosofo, con la sua conoscenza razionale, a fin di bene, decretando la condanna della poesia come pericolosa e inadatta all’educazione del cittadino. Ma la conoscenza platonica non nega la mantica, ne è una variante. La cancellazione dell’entusiasmo lo relega nelle dottrine misteriche, con il loro tentativo di padroneggiare la mania, il furore, il fanatismo (che deriva da fanum, tempio, e che Cicerone usa per primo per indicare coloro che “avevano la pretesa di parlare in nome di Dio”). Chi più del fanatico accampa una corretta idea dell’oggetto e della causa? Chi più del fanatico tenta il monopolio dell’entusiasmo chiamandolo fanatismo altrui? L’accusa di possessione, di mania, di fanatismo, ovvero l’esorcismo dell’entusiasmo è una modalità spettrale, un’attribuzione dei propri spettri all’Altro. Nell’accusa di fanatismo, l’entusiasmo acquisirebbe un accento religioso, fideistico. Ma l’entusiasmo non è un prodotto della fede, la fede trova la sua condizione nell’entusiasmo: la fede è l’idea impossibile dell’oggetto e della causa assoluti e indisponibili nella parola, oggetto e causa di cui l’entusiasmo e l’identificazione sono virtù. Vanamente l’invidia, il cui colmo è l’invidia di sé, tenta di cancellare l’identificazione: ne sortisce il rancore nella sua forma più insidiosa, magari sotto la coltre di un formale rispetto, di una conforme adesione in assenza di lealtà. Il rancore in tutta la sua sordità. Senza l’entusiasmo l’idea di morte dilaga, perché nulla ha valore, tutto è negato dal confronto con l’ideale, nel presupposto della conoscenza.

Senza l’identificazione, nessuna vendita e nessuna impresa e ognuno si assegna i confini che siano conformi alle sue idee, che pensa di potere correggere. Ma l’idea è incorreggibile dal soggetto, che la ignora e che ne viene travolto: questa è la fede non religiosa, l’operazione costruttiva, l’operazione non spirituale. Mentre lo spiritualismo religioso, anche quello laico o quello personale, è legame sociale, è l’idea che guida la relazione, in nome della relazione ideale, innanzi a cui ognuno si sente mancante. Ma nessun dio può stare in luogo dell’oggetto e della causa nella parola, che sono insituabili, che non hanno luogo. Come stupirsi se, con la tentata spiritualizzazione dell’entusiasmo, il romantico “sentimento oceanico” comporta il dilagare della malinconia, l’apparente venir meno della tensione e della direzione, il sentirsi bloccato dall’idea di fine del tempo e di fine di ogni cosa? L’entusiasmo come proprietà dell’oggetto e della causa non è la lotta del soggetto per un oggetto e per una causa, che vengono meno solo quando emerge la loro realtà spettrale, cioè dettata dal ghénos familiare e sociale.

L’entusiasmo è la condizione della tensione linguistica, dunque intellettuale, e del dispositivo di forza che la ricerca e l’impresa di ciascuno esigono. Questa tensione non affatica, non diventa pesante perché non deve sostenere l’entusiasmo, ma trova nell’entusiasmo, nell’identificazione come virtù dell’oggetto e della causa la sua condizione e la sua garanzia. A questa tensione senza páthos non si approssima l’impulso di cui parla Kant, ma la pulsione di Sigmund Freud, la forza di Leonardo da Vinci e la virtù di Niccolò Machiavelli.

La tensione è un’istanza costante, instancabile, indelebile. L’opposizione alla vita non riesce, nonostante l’invidia. Non si cancellano l’entusiasmo e la forza, l’esperienza e il dispositivo: dicendo, facendo, scrivendo, il gerundio in atto non ci affida al peso dell’arbitrio del pensiero, delle proprie idealità. Sentire la pressione? Sentire lo stress? Anche tentare di ridurre la sensazione a sentimento non vale a patologizzare la tensione, la tendenza irrefrenabile delle cose in direzione della qualità, del valore. Questa è la rivoluzione cifrematica. Questo è il valore della vita che i filosofi mancano, anche secondo Giacomo Leopardi, che nello Zibaldone scrive: “Ragione e vita sono due cose incompatibili”, e più oltre aggiunge: “La salvaguardia delle libertà delle nazioni non è la filosofia né la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo”.

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COME REDIGERE LA REALTÀ

Qual è il modo del fare, dell’impresa, della riuscita? Come fare? In qualche modo? In modo interessante? A modo proprio? In modo personale? In modo diretto? In modo sacrificale? In modo facile? O suaviter in modo, come dicevano i gesuiti e come direbbe oggi Richard Thaler con la sua “spinta gentile”? Est modus in rebus, dicevano i latini, ma il modo non è la maniera, l’usanza, il protocollo dell’azione. Non serve alla modellistica professionale o confessionale, dunque sociale. Quali sono i modi dell’atto? Cosi Armando Verdiglione incomincia la lettera del 19 novembre nel libro Il vento e l’orizzonte. Il dispositivo cifrematico, di prossima pubblicazione: “Il modo della mia vita è il modo della parola: non è il modo che io penso, non è il modo che io voglio per ciò che io penso, non è il modo comune, non è il modo conforme all’arbitrio del pensiero, non è il modo rispondente alle mie convinzioni, non è il modo convenzionale, non è il modo che dipende dalla conoscenza”. Ma allora di cosa si tratta nel modo della parola?

Il dialogo, due persone che parlano, può sembrare il modo della parola. Ma di che due si tratta nel dialogo e nella sua variante, il monologo? Di certo, non il due come apertura, come contraddizione, come ironia: dialogo e monologo dovrebbero definire l’interlocuzione come sistema, come macchina e tecnica per (non) comunicare, ripartendola tra chi domanda e chi risponde. Questa è la relazione sociale, ideale, in cui chi domanda deve domandare correttamente e chi risponde deve rispondere correttamente. Ma, allora, può accadere che chi dovrebbe rispondere correttamente avanzi la pretesa che chi domanda domandi correttamente: sorge così la dittatura dello schiavo di Menone, del parlante natìo di Noam Chomsky, della vittima sacrificale, del figlio ideale. Essi vogliono la correttezza della domanda, vogliono essere domandati correttamente, per sentirsi a proprio agio, rispettati, riconosciuti, amati, ma correttamente, ovvero come vogliono loro. Questi modi del monologo e del dialogo sono i modi della correttezza, della linea retta che deve fare circolo: questa correttezza sociale è la base della comunità ideale, per questo si avvale del politicamente corretto, dunque della cancel culture. Come potrebbe instaurarsi il modo della parola in questa comunicazione circolare, spirituale, mortifera, nullista?

Il modo della parola non è quello del dialogo, imperniato sulla domanda d’amore e sulla dialettica del riconoscimento, è il modo della domanda di cifra, domanda di qualità. È il modo della pulsione, della tensione in direzione del valore, non della buona relazione. È il modo della domanda indispensabile per l’impresa e per la nostra vita perché non aspetta l’offerta, la richiesta, la proposta. Il modo della riuscita non aspetta che ci venga offerto, proposto, richiesto qualcosa. Questa domanda dissipa il rapporto mercenario: non perché non punta al profitto o al guadagno, che sono indispensabili per la riuscita, ma perché la domanda che va in direzione della qualità è domanda di cifra, di valore, non è domanda di Altro o dell’Altro, domanda sempre richiesta per essere sempre elusa, o sempre rifiutata per essere sempre eseguita.

Oltre al modo della pulsione, il modo della parola esige il modo delle funzioni. Nell’aritmetica della parola, che non sottostà ai canoni algebrici e geometrici, non c’è dipendenza funzionale, né convertibilità tra relazione e funzione, il cui modello sarebbe illustrato dalla “funzione di padre” e dalla “funzione di figlio”. Nella parola, pater e filius sono indici delle funzioni, non consentono che le funzioni divengano relazioni familiari. Neque filius sine pater? Ut pater ita filius? Il filius è indice della funzione di uno, ma non è uno dei fratelli, non è l’uno che supporta il principio d’identità. Parlando, l’uno è funzione perché non è uno, non è identico a sé. Il filius è indice di questa differenza, che trae al frater come alter filius. Ma l’alterfilius è il figlio che differisce da sé, non è il filiussottoposto all’idea di relazione, il filius in relazione con il frater, il filius che si rapporta con il frater, che si confronta con il frater. Questo confronto sarebbe intersoggettivo, dunque fratricida: solo se venisse tolto, idealmente, il frater, la differenza da sé del filius, potremmo erigere, idealmente, il soggetto. Per questo motivo il confronto con il frater è sempre spettrale: concerne l’idea di sé, la propria soggettività, e comporta l’idea di uguale, perché è basato sull’idea di relazione. Infatti, per confrontare A con B, devo metterli in relazione, e la messa in relazione è già la relazione sociale, che imperversa nelle aziende, nelle scuole, tra i consulenti. L’idea di relazione che regge il confronto è l’idea di uguale: confronto tra chi è più uguale (idea algebrica della relazione) e chi è meno uguale (idea geometrica di relazione), che diventa tra chi è più e chi è meno. Tra chi è più buono, cioè chi è il migliore, e il meno buono, chi è il peggiore, tra chi è più grande, il maggiore, e chi è più piccolo, il minore. Per questo la guerra per chi è più e per chi è meno è fratricida, è la guerra di famiglia, quella che Niccolò Machiavelli chiamava la “guerra bestiale”. La guerra di chi ha, chi è, chi fa di più e di chi ha, chi è, chi fa di meno, la guerra del più e del meno. La guerra di famiglia è spettrale, è basata sull’idea di uguale, idea genealogica, in cui importa la linea, o archeologica, in cui importa il frammento. Per riprendere la frase iniziale di Armando Verdiglione, è “il modo rispondente alle proprie convinzioni, e il modo convenzionale”, è l’arbitrio dell’idea, tanto più arbitrio dell’idea dell’Altro quanto più è creduta propria.

Altra cosa dalla guerra secondo il modo della parola, che è la guerra intellettuale, la guerra “civile”, ovvero in direzione del capitale della civiltà della vita, la guerra come proprietà dell’industria della parola, la guerra senza nemico. Nessuna relazione tra A e B, nessuna relazione tra il filius e l’alterfilius, che procedono dal due, dall’alleanza come modo dell’apertura, ma non sono due, tanto meno due parenti, due colleghi, due complici, due interlocutori. L’esperienza cifrematica indica che l’arbitrio dell’idea, in particolare dell’idea di relazione, è il fantasma materno, fantasma di padronanza: solo rappresentandoci la relazione possiamo tentare di padroneggiare la parola attraverso l’idea di sistema e l’idea di uguale. La realtà diviene spettrale se è conforme al fantasma materno, che sorregge immaginazioni e credenze: attenendosi al fantasma materno, lo spettro sta in luogo della cosa, cioè in luogo della causa e dell’oggetto, in luogo del sé, in luogo del tempo e dell’Altro. Tu immagini che questa sia la causa? Tu credi che questo sia il tempo? No, questo è il tuo spettro, dato dal tuo fantasma materno. Per esempio, basta leggere le motivazioni delle sentenze nei processi contro Armando Verdiglione per cogliere come i magistrati siano dominati dall’arbitrio dell’idea di aver trovato in lui un diavolo, che falsifica tutto, come il diavolo di Cartesio. Loro, che hanno negato, distorto, alterato ogni aspetto e ogni prodotto della realtà dell’esperienza del Movimento cifrematico, trovano in Verdiglione il loro spettro, quello che avrebbe falsificato tutto. Il modo del fantasma materno è il modo spettrale, trasforma la realtà in una realtà spettrale, negativa, mortifera, negando la realtà effettuale, che si attiene al modo della parola, alla modernità.

Il modo della realtà non è il modo della corretta idea della cosa. L’effettività e l’effettualità della realtà risaltano con la prova di realtà. La prova entra nella nostra partita, nella partita del gerundio della nostra vita: la realtà si prova quando la realtà si scrive, riesce, si qualifica. Questa è la realtà della nostra esperienza, della nostra impresa: ciascun giorno occorre che noi troviamo il modo della realtà della nostra vita. Noi troviamo il modo della realtà della parola: questa la nostra modernità. Facendo, noi ignoriamo la realtà spettrale della guerra di famiglia, che non ha presa nella realtà della parola. La nostra rivista interpella gli imprenditori, gli artisti, i dissidenti, i giovani e le donne che si trovano in un rischio e in una scommessa assoluta affinché testimonino del loro modo della vita. Noi narriamo, facciamo scriviamo perché nel nostro processo linguistico narrativo ciascuno trova il modo della parola, dell’atto di parola, non dell’impossibile passaggio all’azione.

Noi proseguiamo con il modo della fede, che procede dal modo dall’apertura, non con la fede in noi stessi, che ci porta alla guerra contro il nostro spettro. Il modo della fede, anche della fiducia, che non è un’aspettativa soggettiva, ma è una proprietà narrativa, è il modo dell’operare costruttivo, del pensiero libero, libero di operare per la scrittura. Come potrebbero scriversi l’esperienza, la memoria come ricerca e come impresa senza la fiducia, senza il modo di operare dell’idea che non sappiamo di avere, del pensiero che non conosciamo? Per restare libero, il pensiero non può divenire pensiero della relazione, essere il buon pensiero o il cattivo pensiero. Chi sta all’arbitrio del buon pensiero si studia, si cruccia, si fa soggetto algebrico: è chi pensa al tribunale, abolendo il tempo, affidandosi alla sommarietà, anticipando la pena. Chi sta all’arbitrio del cattivo pensiero si colloca nel regime penitenziario, si fa soggetto geometrico: è chi pensa al carcere, fermando il tempo, affidandosi alla frammentarietà, anticipando la fine. Sono due modalità che si frappongono contro il modo della parola: sono due modalità della volontà ideale nella sua realizzazione, sono due modalità dell’egualitarismo, in ossequio al nullismo ideale.

Noi dimoriamo nella parola. Noi troviamo il modo, in virtù della difficoltà assoluta e della semplicità assoluta, noi troviamo il modo della parola: è il modo altro, il modo nuovo, e non sarà mai lo stesso modo, non sarà mai il modo uguale, non sarà mai il modo identico, simile, opposto, analogo. Nell’atto, noi siamo sicuri: siamo sicuri del modo, il modo non mancherà, noi non mancheremo il modo. Nell’atto, noi redigiamo la realtà: è il nostro compito, è il nostro contributo alla modernità.

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LA CIVILTÀ DELLA VITA

In un libro best seller della fine dello scorso millennio, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale (Garzanti), il politologo Samuel Huntington scrive: “Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. In questo saggio, Huntington ritiene che le fonti dei conflitti non saranno più le differenti ideologie o economie statali, ma le ostilità e i dissidi tra le civiltà che si spartiscono il pianeta. Per lui non c’è più la civiltà, ma ci sono nove civiltà, e quella occidentale è solo una tra queste nove.

L’idea di una pluralità di civiltà nega la civiltà, riducendola a quella che Thomas Mann e Julius Evola chiamavano Kultur, ovvero all’appartenenza a sistemi culturali, religiosi, etnici, a comunità ideali che sarebbero unite da lingua, tradizioni, origini. Mentre Evola scrive, nel saggio del 1941 La dottrina aria di lotta e di vittoria: “Le forze delle origini creano imperi mondiali e recano all’uomo la ‘pace vittoriosa’”, Huntington ritiene che la cultura debba rispondere a una richiesta d’identità: “Statisti e studiosi non possono ignorare tali antiche verità: per tutti i popoli intenti a ricercare un’identità e a reinventarsi un vincolo di appartenenza etnica, l’individuazione di un nemico costituisce un elemento essenziale, e i focolai di inimicizia potenzialmente più pericolosi scoppiano sempre lungo le linee di faglia tra le principali culture del mondo”.

Lo scontro di civiltà ipotizzato da Huntington è uno scontro di inciviltà, che trovano la loro identità sull’idea di nemico. Nemico sarebbe colui che mette a rischio questa identità, questa etnia, questa appartenenza. La Kultur è un legame spirituale, animistico, è la civiltà dell’epoca. Lo dimostra Vladimir Putin già nel 2007 con il suo intervento a Monaco, con la teoria del Russkij Mir: il “mondo russo” comprende non solo il territorio russo, ma tutti gli slavi di lingua e costumi russi in qualsiasi paese si trovino; ogni invasione è ammessa in nome di questa comunità ideale, di questa idea identitaria e unificante, perché deve tutelare l’identità russa, l’anima russa, in qualunque nazione si trovi, anche in minoranza, come in Ucraina. Scriveva già nel marzo 2014, nel n. 58 della nostra rivista, il poeta e drammaturgo ucraino Anatolij Krym, a proposito dell’invasione dell’Ucraina: “L’intervento di truppe russe con la scusa pretestuosa di ‘difendere i diritti della popolazione russofona’ ricorda un cattivo teatro dell’assurdo. Vi immaginate che un bel giorno sbarchi in Sicilia l’esercito ucraino per difendere i diritti dei connazionali che lavorano nell’isola, e pretenda che alla lingua ucraina venga conferito lo status di seconda lingua nazionale accanto all’italiano? Ridicolo? Eppure gli ucraini che lavorano in Italia sono più numerosi dei russi in Crimea, i quali, a proposito, sono arrivati là dopo la deportazione dei tatari di Crimea voluta da Stalin”.

La civiltà come Kultur è comunitaria, è ideale. È tanatofagica, si nutre della morte, perché basata sulla battaglia contro il nemico e sul suo annullamento attraverso la sua assimilazione. È la civiltà ideale, la civiltà dell’Unico, che tollera l’ultima guerra contro la vita, che assorbe e contempla il pluralismo, il multilateralismo, la multipolarità. La civiltà ideale si realizza attraverso la comunione cannibalica, è basata sulla condivisione della morte e della pena, della morte come pena. A ognuno la sua morte, a ognuno la sua pena. E la tanatofagia poggia sull’autofagia: la civiltà come Kultur non si fonda tanto sull’uccisione e sulla consumazione del cadavere del padre, come credeva Sigmund Freud, quanto sull’odium sui, sulla mortificazione, sulla negazione di sé e dell’Altro, che comporta la negazione della storia e della modernità, della memoria e dell’attuale. Dal “meglio non essere nato” di Edipo al “sono un puro nulla” di Maometto: così, mangiarsi, sacrificarsi, assumersi, consumarsi sono le pratiche della purificazione e della radicalizzazione richieste dalla civiltà spirituale, cioè convenzionale, di cui materialismo e positivismo sono varianti e valgono come riferimento per i totalitarismi.

Non a caso un testo fondatore dello spiritualismo orientale, La Bhagavadgita, è imperniato sulla necessità civile della guerra di famiglia, in cui la vittoria è l’ultima pena, in cui l’uccisione è un gesto sacro, sorretto dalla divinità e fondante l’ordine sociale puro. E non diversamente accade per lo spirito della Russia di Putin, della Cina di Xi Jinping, dell’Iran di Khomeyni, della Corea di Kim Jong-un. Putinismo, comunismo, islamismo sono varianti della guerra di famiglia, guerra fratricida promossa dall’invidia della libertà della vita e della parola, invidia religiosa in cui l’odio contro i fratelli e le nazioni è un aspetto dell’odiumsui. La “grande guerra santa” di cui parla Maometto è, secondo Evola, “la lotta dell’uomo contro i nemici che porta in se stesso”, la lotta spirituale. L’odium sui nasce dall’idea di origine e dall’idea di padronanza, che spazzano via, idealmente, il sé, il tempo e l’Altro. In questo modo, il proprio itinerario va purificato, risulta preso nel giudizio positivo-negativo, giusto-sbagliato, innocente-colpevole: se viene, idealmente, tolto il tempo, con il suo giudizio impenale, ogni cosa si degrada, si corrompe, e il viaggio viene ritenuto finito o finibile, deciso o decidibile, costantemente sottoponibile al giudizio di condanna e di pena, dunque all’idea della morte o del nulla. Idea iniziatica, perché, come proclama La Bhagavadgita nove secoli prima del Corano: “Ucciso, avrai il paradiso”.

Il tempo che finisce – perché l’odiumsui compie l’estrema purificazione, fino alla proprio annullamento – non lascia Altro. Nient’Altro da dire, da fare, da scrivere. E, “tolto l’Altro, la madre uccide”, scrive Armando Verdiglione. Per questo la civiltà tanatofila, la civiltà basata sull’odio di sé e dunque dell’Altro, è spirituale, è la Kultur del matricidio, della madre che uccide, della morte e dell’annullamento della materia, di cui la morte del padre, quella del mito fondante per Freud, è solo un aspetto.

L’oligarchia, che poggia sul matricidio la sua idea di dominium e d’imperium, è la barbarie, la civiltà tanatofila. Questa barbarie non è il limite o l’antitesi della civiltà, che non entra nell’alternativa con la barbarie. La barbarie è l’ideologia dell’ultima guerra, dell’ultima morte, l’ideologia della fine del tempo e della fine di ogni cosa. La provincia Europa, fra l’islamicamente corretto, il cinesemente corretto e la cancel culture, affonda nell’odio di sé. Chi più odia la civiltà della parola più viene accolto dalla provincia Europa. E chi più accoglie, condividendo l’odio con chi invade e con chi occupa, partecipa al potere dell’uguale, sottomettendosi al vincitore. L’idea di uguale, che segue l’idea del nulla, l’idea di padronanza sulle cose, è idea di imperium, è idea di sistema, di comunità linguistica e sociale, dunque idea spirituale che sostiene il partito di spirito, il partito penalpopulista, il partito che si accoda alla Russia, alla Cina, all’Islam nella guerra contro la vita, la modernità, il rinascimento della parola e la sua industria.

Ma ben altra guerra è in atto: è la guerra della vita, la guerra della parola, la guerra senza nemico e senza fine, di cui parla Paolo Vandin nel suo articolo. È la guerra intellettuale, è la politica del tempo e dell’Altro, che non ha bisogno di mercenari, di coloro che credono che tutto si compensi e si ricompensi, si finalizzi e finisca: sono mercenari, per esempio, i politici e gli imprenditori che per un voto o per un affare svendono la loro e l’altrui libertà. Il mercenario, come il dittatore di cui è al servizio, non combatte e non rischia, è suddito di sé e dell’Altro, è sacrificans sacrificatum, da carnefice si fa vittima, pretendendo così di giustificare ogni suo arbitrio. Per questo avvalla la nobile menzogna e le fake news di chi è preso nell’odium sui, dunque è preso in una realtà costituita secondo i propri spettri, le rappresentazioni dei propri limiti, delle proprie paure, delle proprie pene. La guerra della vita, lotta e battaglia, è guerra di civiltà, non tra le civiltà, non oppone tra loro le civiltà, cioè le diverse rappresentazioni della comunità tanatofila. La civiltà della parola non è configurata dalla Kultur dei sudditi, è costituita dai cives, dai cittadini, esige la città della parola libera, dell’invenzione e dell’arte, della finanza e della scienza. Civitas è la città del tempo e dell’Altro, non l’urbs, non il dominium e l’imperium sul territorio contro il tempo e contro l’Altro.

Nonostante le dittature e le democrature, sulla parola non può fondarsi nessun impero perché la lingua non è legame sociale, non è il supporto delle comunità, non si presta a nessuna padronanza, non consente la conferma delle proprie convinzioni: come scriveva il filosofo Giovanni Vailati: “La posizione nella quale viene a trovarsi ogni persona che aspiri, sia pure in grado minimo, a sentire e a pensare in modo originale, e a dare espressione a quello che sente e pensa, si potrebbe paragonare a quella di un artista davanti a un blocco di marmo che egli sappia essere solcato internamente da numerose profonde venature, non aventi alcun rapporto con la forma che egli intende di fare assumere ad esso, e atte anzi a far seguire ai suoi colpi di scalpello degli effetti impreveduti, e non sempre compatibili con quelli che egli ha in vista” (Giovanni Vailati, Il linguaggio come ostacolo all’eliminazione di contrasti illusori, in Scritti filosofici, Laterza). Come dire meglio che gli effetti dell’atto di parola sono imprevedibili, dissipano ogni punto di vista?

Come indicano i processi contro Armando Verdiglione, che poggiano sul “punto di vista” dei marescialli anziché sulle prove, il punto di vista è cieco e sordo innanzi alla realtà effettuale, vede il proprio spettro, è sorretto dalla paura e dall’invidia della vita. La paura e l’invidia della vita sono convertibili e prescrivono la coscienza della pena. Ognuno è sospettato di pena, per questo deve essere pronto alla colpa e all’espiazione. Il sospetto di pena è il sospetto improntato alla paura e all’invidia della vita: è il sospetto contro il principio della vita e la sua civiltà, è il sospetto contro l’arte e la cultura, la scienza e la finanza, contro la vita civile. Come indicano le testimonianze degli imprenditori in questo numero, la riuscita di ciascuno non sta nel confermare il proprio punto di vista, ma nel contribuire, fosse pure con un granello, alla civiltà e al suo valore. L’impresa indica che nulla è già dato, fatto, scritto, e la civiltà che si dà per acquisita si perde. Come nota nel suo testo Bruno Conti, nessuna impresa senza l’esperienza di parola e la sua scrittura, un’esperienza senza l’eroismo e senza il sacrificio richiesti dalla “grande guerra santa”. La civiltà della scrittura dell’esperienza, che esige i dispositivi di parola e il processo linguistico narrativo, è la civiltà della vita, perché l’esperienza vanifica l’alternativa tra fatti e parole e l’alternanza tra azione e inazione, tra radicalismo e purismo. L’esperienza non può limitarsi al pacifismo, dissipa la civiltà della morte come via verso forme di vita superiori: la sua guerra non è iniziatica, non cerca l’uomo nuovo, è lotta e battaglia, con la missione di restituire il testo della civiltà della vita e di fare capitale della nostra vita.

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UNA VITA SENZA PARI

Protezione, tutela, difesa: queste tre parole sono le più associate alla differenza e alla varietà, considerate sempre in pericolo o a rischio. Per esempio, “rischio” di sfruttamento o di emarginazione per le differenze sociali, “pericolo” di estinzione per le varietà di specie animali.
Ecco allora la parola d’ordine, sorta negli Stati Uniti e rilanciata nel pianeta dai movimenti Mee tooe Black lives matter: stay woke, o semplicemente woke. Occorre stare svegli, vigilare, “acquisire consapevolezza”, dunque stare dalla parte giusta, e non lasciare impunita nessuna presunta discriminazione sociale, razziale, sessuale, di genere, nessuna offesa all’ambiente e alla natura, ma anche alla propria comunità, alla propria persona, addirittura alla propria suscettibilità. Questa radicalizzazione del politicamente corretto è divenuta sempre più “un approccio aggressivo e performativo alla politica progressista che può solo peggiorare le cose” come ha dichiarato l’attivista Chloé Valdary. Mentre il filosofo Bernard-Henri Lévy, nella “Régle du Jeu” del 15 marzo scorso, ha scritto: “il pensiero sveglio è uno stratagemma della ragione biopolitica”, è “una nuova illustrazione della sporca mancanza di cultura dei pensieri secondari che stanno devastando i campus americani e, ora, quelli francesi”.
Non sfugge a Bernard-Henri Lévy che quelle che sembrano tesi a sostegno delle differenze e delle minoranze sono in realtà violente affermazioni delle identità e delle soggettività. Quello che il sociologo Theodor Adorno chiamava “l’insaziabile principio di identità” sta divenendo, secondo la formulazione del politologo Alain-Gerard Slama, nel suo libro La regressione democratica(Spirali), “la dittatura delle minoranze”. Quando la differenza e la varietà sono personalizzate – quando la differenza diviene diversità e la variazione diventa variabile – e dunque devono essere tutelate e protette, diventano identità, magari collettive, come le community, ma pur sempre identità: identità di genere, di razza, di specie, sempre da difendere, fino a giungere, come scrive Paolo Vandin in questo numero, al razzismo dell’antirazzismo, al sessismo dell’antisessismo, al fascismo dell’antifascismo.
Non è questa la vita differente e varia, che non può essere sottoposta a nuovi identitarismi, sovranismi, protezionismi.
Ma è illusorio pensare che questi pregiudizi contro la differenza e la varietà si dissolvano se viene mantenuta l’idea di uguale, su cui essi si fondano.
L’idea di uguale non è mai stata messa in questione dal discorso occidentale e dalla sua variante orientale, che anzi l’hanno propugnata, con Aristotele e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, con la umma coranica e il comunismo cinese. Questo uguale sembra scalfito dalle diversità interne, dai livelli gerarchici, dalla dialettica e dalle sue sintesi, che in realtà lo confermano: nell’uguale c’è posto per l’universo e per il diverso, per il più uguale e per il meno uguale, per il maggiore e per il minore, per le opposizioni e per le polarità e per i loro gradi intermedi, come in ogni sistema debitore dell’idea di uguale.
L’idea di uguale sta alla base della relazione di uguaglianza, che nel 1557 il matematico gallese Robert Recorde propose di scrivere inserendo due segmenti paralleli tra due elementi da considerare uguali, inventando così il segno uguale, per cui A=A. Il segno uguale sancirebbe l’identità di sé a sé: A=A, ovvero A sarebbe identico a sé. Il principio di uguaglianza serve per fondare il principio d’identità: A=A, ovvero A è A, uno è uno, una rosa è una rosa, ogni elemento è uguale a sé.
Questo postulato del discorso occidentale elude la differenza e la varietà, perché esige che la differenza sia tra due cose (se A è A, sono già due A), dunque che ognuna resti identica a sé, che sia “ogni-una”, che sia sottoposta all’idea di unità.
L’idea di unità comporta che l’uno differisca da un altro uno, restando identico a sé. Quest’uno che non differisce è la base dell’indifferenza generalizzata, che nessun movimento woke può contrastare, perché, come l’indifferenza, ha radici nell’identità e nell’unità. L’indifferenza in materia di umanità, l’indifferenza rispetto al diritto dell’Altro e alla ragione dell’Altro, è sostenuta dall’affermazione dell’identità propria e della propria comunità, comunità unita dall’uguaglianza delle identità che la compongono. L’indifferenza esige che la differenza sia sottomessa al principio di unità, dunque al principio di uguale: la differenza sta tra uno e uno, è diversificazione legittimata cioè codificata, moralizzata cioè regolamentata, motivata cioè corretta. Sono ammesse rose di tanti colori, purché ogni rosa sia una rosa: questo l’imperativo della botanica sociale, dell’orto degli indifferenti, in cui ogni cosa deve essere riportata all’unità e l’unità deve moltiplicarsi, sotto l’idea di uguale sociale, in un sistema di relazioni interdipendenti.
“La sporca mancanza di cultura”, di cui parlava Lévy, è questa indifferenza.
Se non è intesa come folklore, localismo, identità (Kultur), la cultura non può prescindere dalla differenza: in quanto invenzione, la cultura dissipa l’idea di uguale e di identico, non è uni-versale, non segue il verso dell’unità. L’invenzione viene dall’inidentità delle cose, quando, contando e raccontando, per una svista o una cantonata, l’uno risulta non identico a sé, differisce da sé, e una rosa non è una rosa. Questa la trovata, una questione scientifica, cioè questione di divisione da sé (cfr. il latino scio, divido), non una scoperta, con cui una comunità condivide una conoscenza (cum-scio) nascosta dal velo di Maya. Se una rosa non è una rosa, se l’uno non è uno, il sapere non è da rivelare preservandone l’identità, ma è effetto di questa differenza, è il pleonasmo dell’insaputo, la ricchezza di questa trovata incessante.
Se l’uno è uguale a uno, se le cose procedono dall’idea di uguaglianza, l’idea di morte regna sovrana. Cosa potrebbe rendere uguale ogni uno, ogni uomo? Cosa sarebbe il minimo comune denominatore degli umani? La morte, come precisa la filosofia aristotelica. Il suo sillogismo pretende che tutti gli umani siano mortali, dunque sottopone gli uomini alla funzione di morte, la funzione umana.
Questa funzione di morte ha ognuno, e ogni cosa, come sua variabile: l’uomo, dio, il popolo, l’arte, il pianeta terra. La variabile cambia, ma la funzione di morte resta.
Così, non c’è variazione che non diventi variabile della funzione di morte: sotto l’egida dell’uguaglianza, le cose possono variare, ma sono gradi diversi rispetto alla funzione di morte. Il miglioramento, il cambiamento, la mutazione, la gradualità, il più e il meno, la maggioranza e la minoranza non rendono la vita varia, sono la riduzione, impossibile, della variazione a variabile, come variabile dell’uno mortale, dell’uno identico a sé. Se la vita è sottoposta alla funzione di uguale come funzione di morte, in assenza della varietà e della differenza strutturali, non resta che l’annotazione di Tancredi nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
La diversità non è la differenza, il cambiamento non è la varietà della vita: diversità e cambiamento propongono gradi diversi della funzione di morte. La vita non procede dall’idea di uguaglianza attribuita all’unità, non è un sistema; ciascuno vive perché, parlando, l’uno è preso in una funzione e in una variazione, differisce e varia, non è uguale a sé, non è unitario, non è indifferente né invariante. Nel suo riferimento ideale l’uguaglianza è sempre mancante e difettosa: chi si pensa identico a sé non può che pensarsi mancante e difettoso, compresso e depresso: così oscilla tra il più e il meno, cerca di cambiare e non cambia mai, fino a sentirsi vittima, di altri o di sé. Parlando, la funzione di uno non è funzione di morte, è differenza e varietà che non hanno bisogno di protezione, tutela e difesa, perché non vengono meno, non sono in pericolo, perché l’uno non è suscettibile, non si fa vittima, non è minoranza, non è l’androgino mancato. Con l’uno che differisce da sé, la parola non ha più bisogno di woke o di spirito guida.
Sotto l’idea di uguale, ogni cosa deve essere ridotta all’uno, tutto si fa uno o l’uno si fa tutto, nell’unificazione del molteplice e nella moltiplicazione dell’uno.
Tutto deve essere ricondotto all’unità e poi quest’uno deve frammentarsi, fino all’annullamento. Questa procedura unificante – procedura di riduzione all’uno, che dovrebbe applicarsi nella famiglia, nell’impresa, nella politica – diventa una procedura della pena, perché è una procedura sotto l’egida della funzione di morte, dunque una procedura della mortificazione quotidiana, della pena di morte, della morte come pena. Che ne è della parola libera, della ricerca libera, dell’impresa libera in questa società penofila, cioè mortifera? Dalla Cina alla Russia, dalla Turchia all’Iran, i regimi planetari, ma anche la provincia Italia, si appellano all’idea di uguaglianza e dunque di unità per tentare di negare la differenza e la varietà, cercando di impedire la parola e l’impresa libere per potere statalizzarle, monopolizzarle, annullarle. Solo la ricerca e l’impresa libere, infatti, garantiscono la varietà e la differenza pragmatiche, perché, come indicano le testimonianze degli imprenditori in questo numero, l’impresa non può prescindere, nella sua esperienza in ciascun giorno, dalla differenza e dalla varietà, basi dell’invenzione e dell’arte indispensabili per la riuscita. In questo senso, la ricerca e il fare, nell’impresa, sono il baluardo e l’humus non ideologico o ecologico della differenza e della varietà. La vita differente e varia è la vita della ricerca e dell’impresa, del fare e della scrittura, della poesia e della politica senza l’idea di uguale. Solo per un regime totalitario una rosa è una rosa.
Un modo per negare la differenza e la varietà è pensare che, postulato l’uguale e l’identico, tutto possa differire e variare, in un continuo cambiamento: cambiare vita, interessi, lavoro, partner, sesso, con un perenne mutamento, per una vita a “geometria variabile”, in un’incessante mutazione che, come indicano l’esoterismo e il taoismo, procede dal principio dell’immutabile, dal sistema. Intendendo la lingua come sistema, il linguista Ferdinand de Saussure può scrivere: “Nella lingua non ci sono se non differenze”.
Nell’ambito del sistema, dell’idea di uguale, la funzione di morte esige l’obbligo di differenziarsi e di diversificarsi: tutto si relativizza, diventa intercambiabile, fino all’evaporazione, alla spiritualizzazione.
Così, la differenza e la varietà diventano ideali, come se dalla parola potessero essere tolti il corpo, l’ostacolo, la materia, in un’alchimia del nulla.
Eppure, “chi mai potrà osservare l’imperativo della mutazione? Nessuno è in grado di conoscere la sua variante nel processo della parola”, scrive Armando Verdiglione nel libro Il gusto dell’onestà.
L’idea di uguale e di unità è un fantasma di padronanza. È l’idea di potere padroneggiare la materia della parola, l’idea che la parola esiga una materia inerte che la supporti, per consentire la significazione, la corrispondenza del dire con la cosa, intesa come Cosa (das Ding) concettuale, ontologica, contrapposta ai fenomeni, agli oggetti, alle parole. Ma, nonostante la filosofia di Immanuel Kant e di Martin Heidegger o la teoria psicanalitica di Jacques Lacan, la cosa non è il vuoto che fonda l’essere né il reale imperscrutabile.
Nella parola, la cosa è la stessità, è la proprietà linguistica della struttura, che ogni dottrina politica è impegnata a convertire nell’unità. La stessa cosa, la cosa stessa: ciascuna cosa trova nella stessità della cosa quanto risulta particolare e specifico.
Come abolire la stessità dall’esperienza, dalla ricerca e dall’impresa? Chi può padroneggiarla? La cosa, in quanto la stessa cosa e la cosa stessa, è proprietà dell’esperienza, quindi della struttura, è proprietà della ricerca e dell’industria. La stessità della cosa è l’itinerario, da cui è impossibile prescindere, che è proprio di ciascuno; in questo senso, è il narcisismo della vita, della vita senza più bisogno di mutamenti o mutazione.
“Stesso”, in greco autόs, da cui autismo, la stessa cosa, e automatismo, la cosa stessa. L’autismo non è patologico, insiste sulla stessa cosa, verte sull’intoglibilità dell’ostacolo, dell’oggetto nella parola. L’automatismo non è magico o ipnotico, insiste sulla cosa stessa, rileva che nell’atto di parola il tempo è infinito e eterno, senza linea e senza circolarità.
Ma questa stessità non è l’identità, non dipende dall’idea di uguale o di unità, che mira a esorcizzare la stessità, perché questa idea non può tollerare l’oggetto e il tempo, i quali non ammettono l’indifferenza e l’invariante. Per questo la stessità non si oppone alla differenza e alla varietà, che la esigono: differenza e varietà non possono dipendere dall’idea di uno, dalla riduzione di tutto all’uno, all’idea di relazione (l’idea di uguale è idea di relazione), al sistema delle relazioni.
La differenza e la varietà non sono relazionali, non dipendono dal paragone, non sono differenza e varietà rispetto a qualcosa o qualcuno, non dipendono da qualcosa o qualcuno. Solo così sono differenza e varietà assolute, non relative, perché non riducibili all’unità e all’uguaglianza, dunque non sono sottoposte alla pena, alla morte come pena, alla funzione di morte come funzione di uguaglianza tra gli umani. La vita differente e varia è la vita non penale e non penitenziaria, è la vita senza più bisogno di tutela e protezione, è la vita senza pari. La vita in cui una rosa non è una rosa.

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NON TOGLIAMO IL DISTURBO

Il disturbo dell’umore, il disturbo del sonno, il disturbo del pensiero, il disturbo del comportamento, il disturbo dell’apprendimento, il disturbo della memoria, il disturbo del linguaggio, il disturbo dell’attenzione, il disturbo alimentare.
Nulla di più condiviso, di più studiato e di più comune del disturbo: ognuno ha il suo disturbo. In questa accezione, disturbo equivale a disordine, cioè viene inteso come un limite dell’ordine sociale, dell’ordine relazionale, dell’ordine del sistema. Ma, prima di tutto, di quel sistema chiamato personalità, per cui nei trattati di psichiatria e di psicologia fa la parte del leone il termine “disturbo della personalità”. Questo disordine può essere inteso come disturbo in relazione a qualcosa: rispetto a un determinato ambiente, rispetto allo stare insieme, rispetto a un modo corrente di parlare, ci sono i “social disorders” e i “mental disorders”, i disturbi sociali e i disturbi mentali.
In questo modo il disturbo sarebbe quel che limita l’economia del discorso, per cui occorre che ci sia chi è deputato a mantenere questa economia e a gestire questo disturbo. Ogni soggetto può essere disturbato, tutti sono sospetti di disturbo. In particolare, il cognitivismo deve compiere l’economia del disturbo e chiama questa economia “trattamento”.
Trattamento come economia del disturbo.
Oggi tocca al Covid-19 essere presentato come disturbo totale e planetario. La gestione politica di questo virus lo volge in disturbo sociale da contrastare con misure di salute pubblica e con un trattamento sanitario obbligante e obbligatorio, in modo che ognuno si senta disturbato a fin di bene. Si senta disturbato nei propri diritti, nella propria libertà, nei propri rituali, che in realtà sono libertà obbligate, sono rituali sociali, a riprova che ciascuna volontà presunta propria che verrebbe disturbata è in realtà volontà dell’Altro.
Questo disturbo soggettivo fa parte del cerimoniale: ognuno deve sentirsi disturbato perché questa sarebbe la via per prodursi come soggetto, per supportare il cerimoniale dell’androgino, dell’unità, dell’uguaglianza, del sistema.
In questo cerimoniale, ognuno ha il compito di divenire androgino e, compiuto il cerimoniale, di prodursi come dáimon, attratto dal nulla ideale, fino a dissolversi, fino a togliere se stesso come disturbo, fino a togliere il disturbo. È un processo di annullamento, la ballata del soggetto disturbato. Non a caso, Verdiglione scrive, nel libro Una vita di cifrematica, di prossima pubblicazione: “Nulla mi disturba, nulla mi lascia desolato. Io non punto a produrmi come dáimon una volta cessato il cerimoniale, non cerco consolazione, non inseguo la dissolvenza”.
Questa formulazione, “nulla mi disturba”, non promuove l’imperturbabilità, sia nell’accezione dell’atarassia stoica sia in quella dello shantih o dell’ananda buddisti. Indica come l’esperienza nelle aziende, nella scuola, nelle istituzioni, nelle famiglie, esiga che s’instauri questo teorema: non c’è più disturbo soggettivo. Innanzi al disturbo soggettivo c’è chi reagisce secondo la modalità dell’azione, e c’è chi reagisce secondo la modalità dell’inazione, anche nei termini dello stare fermi o del passo indietro, della quiescenza o del pensionamento.
In questi casi il disturbo è funzionale all’iniziazione, proprio per divenire androgino attraverso lo spiritus rector, la funzione correttiva, e poi per entrare, con la dissoluzione, a far parte del nulla ideale, della società ideale, la società conformista, la società in nome del nulla.
La società ideale è la società conformista, la società dell’uguale sociale, dell’ideale uguale e dell’uguale ideale, società inclusiva e società esclusiva, quindi società segregativa.
In questa società ideale, retta dai suoi cerimoniali e dai suoi algoritmi, l’esperienza e le sue proprietà – la ricerca e il fare – non sono ammesse, sono intese come fastidio e disordine, cioè come rappresentazioni del disturbo, perché l’esperienza non si basa sull’uguale, esige l’ineguale. Il numero 76 (dicembre 2017) della “Città del secondo rinascimento” s’intitola L’anomalo: il termine greco per dire ineguale è proprio anomalos.
L’iniziazione cerca l’eguale, è il percorso del soggetto dal meno uguale al più uguale, finché, raggiunto idealmente l’uguale, non può che dissolversi. Dissoluzione dello stato, dell’uomo, del pianeta.
L’idea d’iniziazione considera l’esperienza come la somma delle conoscenze, dei fatti, dei ricordi da condividere per divenire esperto, colui che conosce il sapere condiviso in modo mistico. La condivisione è mistica. Occorreva il rinascimento, con Leonardo da Vinci e Niccolò Machiavelli, per introdurre una nozione non mistica, non spirituale di esperienza: l’esperienza originaria, in atto, mai conosciuta prima, mai avvenuta prima, senza rimando al passato o al futuro. Esperienza della parola originaria, non del discorso dell’Altro.
Scrive Leonardo nel Codice Atlantico: “Le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza che dall’altrui parola”.
Mentre Machiavelli nelle prime righe del Principe parla di una combinazione tra “lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique”: esperienza come modernità, la modernità come modo dell’esperienza, come esperienza in atto, per acquisire la lezione delle cose antiche. Da allora, il libro o la storia non sono più un riferimento, non valgono come base del fondamentalismo.
La cifrematica, la scienza della parola, indica come la lettura avvenga alla luce dell’attuale, anziché essere un modo per intendere l’attuale. La lettura non conferma l’ordine del discorso, genealogico o archeologico che sia. Dislessia: la lettura non riesce a compiere la decodifica del testo? La lettura è impedita da un disturbo della memoria verbale? La memoria come reminiscenza platonica o come rimemorazione fenomenologica fa fiasco: in quanto esperienza in atto, la memoria non serve più a ricucire la presunta dicotomia celeste/terrestre, passato/presente, latente/patente, inconscio/conscio. L’atto è arbitrario, non mnemonico, se la memoria è memoria in atto.
Il disturbo e la lacuna della memoria sono patologici solo se la memoria è ideale.
In altri termini, la memoria è negata soltanto nell’idea di memoria. L’idea di memoria non è la memoria, è la memoria ideale, senza l’esperienza; è la punta dell’economia della memoria, della sua funzionalizzazione. La memoria ideale è funzionale alla correzione della struttura del linguaggio: essa deve correggere, sotto l’idea di uguale, il disturbo del linguaggio come disordine o disfunzione, come un presunto difetto di un’ideale facoltà metaforica o metonimica. Sigmund Freud aveva aperto una breccia dimostrando, con il libro Come intendere le afasie, l’impossibilità di localizzare questo cosiddetto disturbo del linguaggio nel cervello, ma il linguista Roman Jakobson, nel libro Saggi di linguistica generale, parla di due tipi di afasia, una come disturbo della similarità, l’altra come disturbo della contiguità, considerando deficit della facoltà metaforica la prima e deficit della facoltà metonimica la seconda. In questo modo, che dipende dall’idea di uguale, è aperta la via per la patologizzazione del linguaggio e della memoria, per la riduzione del disturbo a incapacità, a deficit, a mancato accesso.
E, lungo questa traccia, Jacques Lacan resta nell’ideologia psichiatrica, considerando stigma del soggetto psicotico l’incapacità di metaforizzare.
Il soggetto disturbato? La memoria disturbata? La questione dell’Alzheimer è questione linguistica. La memoria, nel suo esercizio intellettuale, è disturbo, poiché si attiene all’esperienza della parola originaria, e non a un riferimento ideale. La metafora, la metonimia, la catacresi sono proprietà della struttura della sintassi, della frase, del pragma, sono usi linguistici non finalizzati alla significazione, non sono espedienti per un uso ideale della lingua. In questa accezione, il disturbo è proprietà della struttura dell’atto di parola, e dunque della struttura della vita, che non può essere ricondotta all’uguale sociale o grammaticale.
La struttura della parola come struttura della vita è struttura della storia e struttura del fare, della ricerca e dell’impresa come disturbo, che troppo spesso viene inteso come fastidio o disordine dagli apparati ideologici, religiosi, giudiziari.
Ma poiché la struttura della vita è il disturbo originario, non già il disturbo dell’ordine sociale, l’atto, segnatamente l’atto di parola, non ha da divenire e non diverrà mai supporto dell’ordine o dell’alternativa all’ordine. Le cose si dicono, dicendosi si fanno e facendosi si scrivono: questo è il disturbo come proprietà della struttura della parola cui nessun apparato può porre rimedio e che nessun apparato può usare come rimedio. Noi non disturbiamo e non turbiamo. Non disturbiamo l’ordine costituito, non lo combattiamo. Noi non siamo disturbati.
Il disturbo è proprietà strutturale originaria, esige il processo di scrittura e di qualificazione, non l’esorcismo.
L’esperienza originaria è l’esperienza della parola, è la memoria in atto, la memoria nel suo disturbo strutturale, la memoria nel suo sbaglio di conto, nella sua svista, nel suo errore di calcolo. Che la memoria nel suo gesto narrativo sia disturbo la indica come esperienza della parola. Mentre l’esperienza senza la parola sarebbe l’esperienza cruciale, il punto di passaggio, la forca caudina, l’altare di Agni, l’esperienza presa nel discorso dell’Altro come discorso del nulla.
In quanto originaria, la nostra esperienza è narrativa, è intessuta di sogno e di dimenticanza. È esperienza narcisistica, cioè è viaggio narrativo. Il narcisismo non è l’insieme delle esperienze del soggetto, è il viaggio senza iniziazione, con i suoi cifremi, cioè le proprietà del viaggio: in questo viaggio della memoria non pesa nessun ricordo, nessun precetto misterico. La memoria come disturbo non pesa. A ciascuna esperienza la sua lingua.
La lingua dell’esperienza come disturbo, la lingua come l’esperienza in cui il disturbo non è assunto né criminalizzato è la lingua dell’anomalia, la lingua del conto, del racconto, la lingua del progetto e del programma. Questa lingua disturba la pianificazione, disturba la comodità, al punto che un esercito di specialisti è pronto per appianarne le difficoltà, le improprietà, gli inciampi. Invano. L’imperativo “non disturbare” è ideale, la memoria non sottostà a nessun imperativo.
“Io dico”, “io scrivo”, “io viaggio”, o anche “io non dico”, “io non scrivo”, “io non viaggio” sono enunciazioni, non sono cogiti, non sono sistematiche di pensiero che fondano la soggettività normale o patologica. Sono asterischi, sono disturbi che non evitano di volgersi in disdicenza, (la Versagung freudiana, maltradotta con “frustrazione”), in discrittura (che viene chiamata disgrafia), in dislettura (che viene ridotta a dislessia). Questo dis non è negazione della presunta normalità, è strutturale.
Questi disturbi strutturali dell’atto di parola sono i disturbi del ritmo, sono i disturbi essenziali al ritmo: disturbi linguistici, pulsionali, nella loro intensità, nella loro esigenza narrativa. Senza i disturbi, il viaggio è il viaggio di ritorno.
La mitologia psichiatrica non tollera i disturbi perché non tollera il ritmo e non tollera il dispositivo del viaggio. Viene imposto così l’imperativo della memoria, per evitare lo sbaglio, l’equivoco, la sbadataggine, la cantonata. Ma l’imperativo della memoria non riesce a cancellare la memoria come esperienza in atto, la memoria del viaggio.
In quanto strutturale al dispositivo del viaggio, il disturbo, nella sua narrazione, si scrive e giunge all’approdo, che non è il télos (la finalità, la circolarità), ma l’approdo alla qualità, al valore, al capitale intellettuale. Rivolgendosi alla qualità, il disturbo è rivoluzionario, è la struttura del viaggio, del percorso e del cammino. Per il disturbo, l’esperienza è rivoluzionaria, la memoria è rivoluzionaria. La rivoluzione è pulsionale, non sociale.
Contro questa rivoluzione della parola, l’umanesimo e la sua variante, il transumanesimo, propongono la mnemomacchina e la mnemoteccnica. Ma, in quanto si rivolge al valore, al capitale, il disturbo è strutturale, dunque è costituito dalla tecnica come arte e insegnamento e dalla macchina come invenzione e formazione.
Arte e invenzione della memoria, che si combinano nell’industria come struttura, con la sua impresa, la sua poesia, la sua politica. Per questo l’arte e l’invenzione, la tecnica e la macchina non sono tollerate, in nome dell’uguale sociale, dagli arcaismi del sindacalismo e dell’ambientalismo: in virtù dell’arte e dell’invenzione, della tecnica e della macchina, il disturbo si scrive, si qualifica e si cifra. Nessuna riuscita senza questa scrittura della memoria come scrittura dell’esperienza, che, in quanto scrittura dell’attuale (non del presente), è scrittura dell’avvenire. La ricerca è proprietà della memoria come sintassi e come frase, l’impresa è proprietà della memoria come industria. La memoria: la struttura, il disturbo, nel suo principio. A ciascuno la sua industria. Il principio della vita è il principio della memoria, principio del disturbo.

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LA MACCHINA COME INVENZIONE, LA TECNICA COME ARTE

Nel 1530, i veneziani Paganino e Alessandro Paganini, padre e figlio, hanno una brillante idea. Sono tipografi, è stata inventata da poco la macchina per stampare e considerando che una moltitudine immensa di islamici è devota al Corano, trasmesso oralmente, pensano di stamparlo. La tiratura è altissima, ma non c’è nessuna vendita: nel 1538 tutte le copie vengono messe al rogo e ai Paganini viene tagliata la mano destra. Come scrive Carlo Panella nel libro Fuoco al Corano in onore di Allah, già il califfo ottomano Bayezit II, nel 1483, aveva proibito la stampa di qualsiasi testo in arabo e in turco e tale divieto fu replicato da Selim I, il suo successore, nel 1515, con lo scopo di evitare la diffusione, attraverso mezzi di stampa, della libera lettura. La proibizione di stampare libri, non solo il Corano, fu abolita nel 1727: con 260 anni di ritardo rispetto a Gutenberg, venne avviata la prima tipografia per stampare libri in arabo. Per la stampa meccanica del Corano si dovette aspettare fino al 1923: la lingua di Dio non si poteva affidare al torchio. Dal 1727 al 1839, nell’intero impero ottomano, non sono stati stampati più di 439 libri.
Con quali effetti per la cultura, ma anche per la scienza, la tecnica e l’impresa nei paesi islamici? Secondo aneddoto: nel 1798, nella campagna in Egitto, Napoleone porta con sé antropologi e professori, meccanici e ingegneri. Per ingraziarsi gli egiziani, scrive un proclama in cui afferma che lui è islamico, cristiano ed ebreo. Per tutta risposta, Al Jabarti, filosofo e membro del consiglio imperiale del Cairo, scrive un testo in cui lo condanna, affermando che non si poteva paragonare l’islam alle altre eresie. Ma, secondo il libro di Anthony Padgen, Mondi in guerra, Al Jabarti dovette ammettere che fu molto impressionato da una macchina straordinaria, portata dalle truppe francesi, che vedeva per la prima volta: la carriola! Questi aneddoti costituiscono due esempi dell’intolleranza e dell’ignoranza islamiche nei confronti della macchina e della tecnica. Eppure, i termini macchina e tecnica precedono di molto l’islamismo, vengono dal greco antico mechané e téchne. Omero nell’Iliade parla degli automi costruiti da Efesto.
Dedalo, costruttore e ingegnere, edifica il Labirinto di Cnosso a Creta, plasma sculture con occhi aperti e arti mobili e inventa per sé e per il figlio le ali di cera e di lino. Erone di Alessandria fu soprannominato mechanikòs per il suo talento d’inventore di congegni e strumenti. Mechané era il congegno, era l’attrezzatura teatrale (Euripide la usava per far calare la divinità che faceva concludere la tragedia, da cui la formulazione latina deus ex machina), ma anche la congettura e l’invenzione; era la macchina da guerra, di cui Archimede di Siracusa costruì molti modelli, ma anche il mezzo per ottenere uno scopo, dunque l’espediente e l’astuzia. La téchne era quel sapere che si distingueva dalla conoscenza dottrinale (epistème), era il sapere della pratica, l’arte come esperienza, destrezza, manualità.
Cos’è avvenuto poi in Oriente, tanto da dare adito al tabù della macchina e della tecnica? Nell’oriente bizantino, da Alessandria a Costantinopoli, l’influenza greca è divenuta ripetizione dei classici, erudizione, anche disputa teologica; nei territori occupati dall’islam, dall’Arabia alla Persia fino alla Spagna, si sono sviluppate la matematica, l’astronomia, la medicina, ma non le tecnologie, e soprattutto grazie ad autori non islamici, come documenta Rodney Stark nel saggio La vittoria dell’Occidente. Mancata la nozione di esperienza introdotta dal rinascimento, la ricerca e la scienza non sono giunte alla macchina e alla tecnica, dunque all’impresa e all’industria.
Non è possibile riprendere l’istanza intellettuale sorta in Grecia rispetto alla macchina come invenzione e alla tecnica come arte senza intendere la lezione del rinascimento italiano, ignorato, se non combattuto, dall’islamismo. Jack Goody, per sostenere che esiste anche un rinascimento islamico, nel suo libro Rinascimenti. Uno o molti?, riduce il rinascimento alla ripresa dei classici.
Ma il rinascimento non è la riscoperta del passato, non è l’umanesimo.
Leonardo, proprio perché inventore e artista, non era un umanista: si è attenuto all’esperienza, anziché al principio d’autorità che nega l’invenzione e l’arte, definiva gli umanisti “non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere”. Nel rinascimento la macchina diviene cultura come invenzione e la tecnica diviene arte: con Benvenuto Cellini, straordinario orefice che si cimenta nell’arte della scultura fino a produrre, in modo ingegnoso, lo straordinario Perseo, il rinascimento giunge all’artificio, alla poesia, all’industria.
Non a caso Cellini è anche scrittore di un pregevole Trattato della scultura e della Vita, in cui la biografia assurge a analisi e narrazione dell’epoca.
La questione posta dal rinascimento si enuncia con Niccolò Machiavelli: “L’industria val più che la natura” (Dell’arte della guerra). Nessun naturalismo, nessun innatismo, importa come gli elementi, con la macchina e la tecnica, entrano nella struttura, in latino in struere, da cui endo struere, dunque industria. E, ancora, costruzione, strumento e istruzione. Il rinascimento esige l’industria. L’industria è il registro pragmatico in cui si strutturano la macchina e la tecnica, l’invenzione e l’arte. “La nostra industria è arte industriale”, scrive in questo numero l’imprenditore Diego Zoboli. L’industria non è un apparato, s’instaura quando le cose si combinano in una struttura funzionale e operativa. Si combinano nella parola, dicendo, facendo, scrivendo. Qui s’intersecano la mechané come invenzione e la téchne come articolazione: ne conseguono una formazione e un insegnamento che specificano l’impresa come impresa narrativa.
Sebbene oggi si parli di era post-industriale, l’industria come struttura pragmatica narrativa, struttura che si precisa ricercando e facendo, è solo al debutto.
Anziché lamentare il disfacimento delle famiglie, la crisi delle imprese, l’assenza di valori dei giovani, occorre indagare la struttura e i dispositivi di parola di ciascuna famiglia, di ciascuna impresa, di ciascuna organizzazione pubblica e privata. Questa struttura può essere indagata e intesa nelle sue arti e nelle sue invenzioni da quel servizio intellettuale che chiamiamo brainworking, non può venire significata in patologie da curare da psicomacchine e psicotecniche.
Nonostante possano essere immaginate o credute strumenti di liberazione dalla fatica (le macchine) o dalle malattie (le tecniche), la macchina e la tecnica non consentono l’economia di quel che è creduto negativo, non servono a risparmiare o a misurare il tempo, il fare, l’esperienza presunti segni del male dell’Altro.
Il brainworking, la scienza della parola che esplora e instaura i dispositivi dell’impresa, indica che le proprietà dell’industria come struttura pragmatica sono tre: l’impresa dell’industria, la poesia dell’industria e la politica dell’industria.
Queste proprietà sono temporali, pragmatiche: il tempo dell’impresa, il tempo del fare, della poesia e il tempo della politica. E l’industria comporta l’impresa del tempo, la poesia del tempo, la politica del tempo. L’imprenditore, che procede secondo l’occorrenza, è dunque emulo del tempo, con le sue invenzioni e le sue arti, e si attiene a queste tre proprietà strutturali, non a un presunto spirito del tempo, tanto meno di un fantomatico tempo del Covid.
L’instaurazione del tempo esclude che l’industria possa spiritualizzarsi, che possa esserci lo spirito dell’industria, dunque la mistica dell’industria, che porterebbero all’industria spirituale, ovvero all’industria sociale. Su questa mistica poggia l’idea che l’impresa abbia una sua anima, un suo spirito, nuovo terreno di conquista per ogni curatore d’anime, per ogni consulente psicopompo.
L’impresa è proprietà dell’industria, che per questa proprietà si avvale del calcolo e dell’ingegneria. Il calcolo non è la macchina o la tecnica per la divinazione, non serve per evitare l’errore: già Sigmund Freud ha avvertito che quel che importa nel calcolo è l’errore, che considerava foriero di verità. Quale invenzione non è nata dall’errore? L’impresa fa leva sul calcolo, con la sua invenzione e il suo gioco. Per questo le religioni fondamentaliste non consentono la macchina e la tecnica, dunque osteggiano l’invenzione e l’arte: l’impresa dell’industria poggia sull’errore, mentre il fondamentalismo religioso non ammette l’errore. L’islam non ha consentito la stampa, soprattutto del Corano, perché occorreva esorcizzare il rischio di errore, che la stampa e l’interpretazione non evitano, per cui potrebbero favorire strane fantasmagorie, curiose elucubrazioni, inammissibili eresie.
Anche la stessa scienza esige l’errore di calcolo, si avvia con la svista, addirittura con la cantonata, come prova nel suo libro Cantonate il fisico Mario Livio. Con il pretesto del Covid, il circo dei media e dei social ha svilito la scienza, perché ha chiesto agli scienziati certezze e verità che essi non possono dare, nonostante le loro parate mediatiche: lo scienziato non è un visionario, procede di svista in svista, di cantonata in cantonata, da qui l’arte e l’invenzione.
Questo è importante anche per l’azienda, che negherebbe la sua logica e la sua struttura qualora, per evitare lo sbaglio di conto, la svista, l’errore di calcolo, si affidasse alla statistica, alla divinazione dell’avvenire. Come prevenire l’errore? Seguendo il trend dei dati, interpretati dal miglior indovino. Ma in questo modo l’industria si sottopone alla mantica, cerca il prevedibile, segue il probabile, piuttosto che attenersi al gusto dell’improbabile, che è il gusto della riuscita. Il calcolo non è calcolabile, risalta dall’azzardo ed è dispositivo temporale. L’incontro non vale a evitare l’errore: “L’errore di calcolo è la punta dell’incontro nel silenzio dell’intervallo”, scrive Armando Verdiglione nel suo libro di prossima uscita Una vita di cifrematica.
Altro aspetto dell’impresa come proprietà dell’industria è l’ingegneria: l’ingegneria specifica il calcolo. ll brainworking è questione di dispositivo del calcolo, dunque di dispositivo dell’ingegneria pragmatica. L’ingegno si nutre dell’industria, dunque niente ingegno senza la macchina e la tecnica, senza l’invenzione e l’arte. “Meraviglie dell’arte d’ingegno machinatorica!”, scrive Leonardo (Manoscritto I dell’Institut de France, 57 v). L’ingegno si esercita entro il fare, con la combinazione dell’invenzione e dell’arte, della differenza e della varietà, e trae all’astuzia: “L’astuzia (…) appartiene all’ingegno”, scrive Giacomo Leopardi nei Pensieri, anche se “è usata moltissime volte per supplire alla scarsità di esso ingegno”. Con l’ingegno, l’astuzia risulta pragmatica, propria delle cose che si fanno secondo l’occorrenza, non è l’astuzia della ragione, che persegue, secondo Friedrich Hegel, i propri fini. In “scarsità di esso d’ingegno”.
La macchina e la tecnica trovano la loro utilità nel télos, nel consentire la finalizzazione dell’azione? L’arte è forse variabile, dunque destinata a finire, a vantaggio del trionfo hegeliano dello spirito? L’invenzione e l’arte non si sottopongono alla causa finale, perché l’ingegneria sfata la religione della morte, l’idea di fine del tempo. L’ingegneria s’instaura secondo la contingenza, per cui senza ingegneria l’impresa sarebbe votata all’automaticismo magico e ipnotico, sarebbe determinata dagli algoritmi, si atterrebbe alle mitologie ambientaliste e transumaniste.
Ingegneria del tempo, ingegneria strutturale, ingegneria industriale, ingegneria gestionale, ingegneria civile.
Il genio non è nazionale, non è lo spirito della nazione, lo spirito del popolo. Non c’è lo spirito del tempo, che porterebbe allo spirito della poesia, allo spirito dell’impresa, allo spirito della politica.
Lo spirito del tempo sarebbe lo spirito senza il tempo, per questo trarrebbe con sé l’idea di ritorno, di ghénos ideale, d’illuminazione. Scrive Leonardo da Vinci: “Chi fugge le ombre fugge dalla gloria dell’arte appresso i nobili ingegni, e l’acquista appresso l’ignorante volgo il quale nulla più desidera che bellezza di colori” (Codice urbinate, 406). E altrove annota: “L’Italia si affinisce di boni ingegni”. L’ingegneria, la generosità. L’ingegno trae alla finezza, non ai fini, giunge alla luce dell’intendimento, non all’illuminazione. L’idea senza ritorno e senza ghénos opera alla riuscita, per cui Machiavelli può offrire la lezione dell’impresa industriale: “Ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa” (Ghiribizzi).

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L’AZZARDO, L’INCONTRO, IL CASO

Secondo i recenti dati Istat sulla situazione industriale in Italia, il 90 per cento delle grandi imprese (quelle con oltre 250 addetti) e il 73 per cento delle imprese di dimensione media hanno introdotto o esteso lo smart working o il telelavoro durante la cosiddetta emergenza Covid-19.
Anche le imprese di dimensioni minori hanno fatto ricorso al lavoro agile, attuato nel 37,2 per cento delle piccole imprese e nel 18,3 per cento delle micro imprese. Se consideriamo che nel 2017 l’Italia con il 7 per cento di telelavoro era l’ultima in Europa, c’è chi si compiace di tale svolta, che sembra seguire un trend internazionale: come rileva nel suo intervento in questo numero Diego Zoboli, la società di gestione di investimenti londinese Schroders, aziende come Amazon e Dell Technologies, ma anche amministrazioni pubbliche come The US Department of Agriculture, stanno andando in questa direzione. Ma con il pretesto del coronavirus, sono anche state eliminate le assemblee societarie e associative, le fiere, i congressi scientifici e le conferenze, gli appuntamenti con rappresentanti di commercio, le lezioni universitarie e le mostre: queste occasioni d’incontro sono state sostituite da webinar, conference call, videoconferenze, teledidattica, file di presentazione merci, invii di preventivi.
I fautori di questa svolta ne lodano i presunti vantaggi: diminuzione dei costi, dell’inquinamento, del tempo per recarsi al lavoro. Sostengono che l’incontro possa essere virtuale, la comunicazione diretta, il tempo reale: basta un tasto, ci si vede e ci si sente, sempre connessi, sempre pronti a “scaricare”: mirabilia della tecnologia, che offre l’incontro puro, facile, immediato, in cui tutto si comunica senza spreco. Come se quel che non entra nella cornice di un computer o nel quadrato di un file, quella comunicazione che avviene con la stretta di mano o con un gesto, quel contrasto imprevisto di opinioni nella pausa pranzo di un convegno, quell’enfasi nel mostrare i pregi e i difetti di un prodotto – come nota in questo numero Brando Michelini –, quelle divagazioni superflue che sono il sale di una trattativa non fossero essenziali perché ci sia incontro, non fossero indispensabili perché quel che si dice giunga a tono, propiziando lo scambio.
Sono davvero smart, intelligenti, un lavoro, una produzione, una comunicazione privati di questa ricchezza narrativa? Non è proprio questo risparmio il vero spreco? Quanto è costata alle imprese, alle scuole, alla scienza la proibizione degli incontri, quanti danni irreparabili ha comportato e comporterà per i negozi, i bar, i ristoranti, gli alberghi, dunque per città come Milano, Londra, Parigi l’assenza di studenti, di impiegati e di altri lavoratori pendolari? Dichiarare che siano misure necessarie per contrastare il Covid-19 è una mistificazione. Si è trattato di decisioni prese da governi che, con il pretesto della salute pubblica – il pretesto di ogni tirannide – stanno attuando quella decrescita teorizzata dagli ideologi urkommunisti, in cui si intrecciano mistiche naturaliste (ambientalismo) e tecnocratiche (transumanesimo), per sferrare un attacco all’impresa, alla città, alla cultura e all’arte (cfr. la chiusura dei musei e delle librerie, ma anche la distruzione di statue e di libri perché ritenuti emblemi del razzismo), alla macchina e alla tecnica, alla scienza e alla finanza, allo scambio internazionale e intersettoriale. Un attacco all’occidente, all’Europa, all’ebraismo, al cattolicesimo, al capitalismo, alla globalizzazione, che si fondano su quelle istanze industriali e imprenditoriali, che, come nota Bruno Conti, poggiano sull’incontro pragmatico, intellettuale, narrativo.
Occorreva il rinascimento, con le sue corti e le sue botteghe, con Leonardo da Vinci, Niccolò Machiavelli e Ludovico Ariosto, perché l’incontro incominciasse a trovare un suo statuto. Nella Fisica, Aristotele, con l’esempio del creditore che incontra un suo debitore per caso, mentre va al mercato, faceva dipendere l’incontro dalla tyche, dal caso fortuito, ma causato dall’uomo, anziché dall’automaton, dalla causalità naturale. Ma questa dicotomia mantiene l’incontro nella fatalità, dunque nel fato, nella causalità, nella necessità, nell’Anánke, ponendo il caso prima dell’incontro. È un incontro fuori dalla parola, diretto, nel reale, come lo intenderà, nel 1964, lo psicanalista Jacques Lacan, che tradurrà tyche con “l’incontro del reale […] il reale che sta dietro l’automaton”, dunque “il reale come incontro” (J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Einaudi). Un incontro nel reale, non nel simbolico, incontro sempre mancato, “malvenu”: “la funzione della tyche, del reale come incontro […] – quella del trauma”.
Nonostante Aristotele e Lacan, l’incontro non è il caso fortuito, dunque non è fatale, necessario. Nulla avviene per caso? “Ce n’est pas par hazard”? (“non è per caso che…”?). Invece è proprio par hazard che qualcosa avviene e diviene. Par hazard, per azzardo: il caso non può escludere l’azzardo. L’incontro non è necessario, determinato, prestabilito: questo l’azzardo, nessuna necessità ontologica, nessuna Anánke. L’azzardo non è lo scherzo con la morte: l’azzardo, proprietà dell’incontro, è indispensabile per il calcolo. Il calcolo risalta dall’azzardo, che non si oppone al calcolo, ma impedisce che il calcolo sia probabilistico: introduce il gusto dell’improbabile, il gusto delle cose che riescono. L’azzardo inerisce al racconto: senza azzardo l’incontro è sottoposto al calcolabile, sospeso tra possibile e impossibile, è misurato dalla bilancia e dal bilancio, che negano l’incontro, il suo tono, la sua tensione. L’Anánke rileva del nulla ideale.
L’azzardo, l’incontro: qualcosa accade. Dove? Dove sta l’incontro? Proprio per l’azzardo, l’incontro non è ideale, l’idea dell’incontro è l’idea del luogo dell’incontro. Il luogo ideale dell’incontro è il luogo sociale, ecumenico, il luogo dell’apocalisse, della rivelazione. L’incontro sta nella pienezza delle cose? Sta dove tutto è preparato, quando siamo tutti collegati? Sarebbe l’incontro spiritico, l’incontro nell’unità, magari dei credenti. L’incontro esige la divisione, sta nell’intervallo, è tra, inter, è senza accesso diretto e condiviso. È proprietà del racconto, ovvero proprietà del sogno e della dimenticanza, non del reale.
Cum inter, contra: l’incontro. L’incontro non è ciò che si lascia vedere, ma ciò che si lascia udire. L’intervallo è indispensabile per l’ascolto, e il silenzio dell’intervallo è il silenzio dell’incontro. Togliere l’intervallo comporta la sordità, dunque lo scontro con l’Altro, mentre l’incontro esige l’Altro (anche se non è incontro con l’Altro personificato, che diventerebbe subito amico o nemico), avviene sul terreno non mio e non tuo, ma sul terreno dell’Altro, nella parola. La questione dell’incontro è la questione dell’intervallo, dell’adiacenza, dell’Altro irrappresentabile e insituabile.
Da qui un’altra accezione di solidarietà, senza l’alternativa tra amico e nemico, dunque senza altruismo: la solidarietà è il dispositivo del racconto e dell’accoglienza nella parola. L’incontro è solidale, dalla radice *ser- da cui servus, solus, olos: in solidum, per intero, da olos, intero, integro, da cui “integrazione”.
Le cose si integrano nel racconto, e solido è l’Altro. Ma questa integrazione e questa solidità non dipendono dal sistema delle relazioni, dall’interdipendenza, dall’incontro sotto l’egida dell’unificazione, della comunità sociale. La solidarietà è pragmatica, non ideale, e la via dell’incontro, in quanto via del racconto, è la via pragmatica perché via narrativa. “L’incontro: la soglia dell’industria”, scrive Armando Verdiglione, nel libro La grammatica dello spirito europeo (Spirali).
Nonostante l’epoca offra lo spettacolo del trionfo dei monopolisti, dei doganieri, dei burocrati, dei puristi, dei fondamentalisti, dei penalpopulisti, anche con il coronavirus il pianeta sta incontrando una trasformazione senza precedenti, con dispositivi nuovi, con uno scambio internazionale e intersettoriale tra nord e sud, tra oriente e occidente, che costituisce un secondo rinascimento in atto, il rinascimento della parola e la sua industria. Mai come ora, l’incontro nella parola, l’incontro secondo la funzione di Altro è l’incontro industriale, l’incontro nel fare, come notano gli imprenditori in questo numero. È l’incontro facendo secondo l’occorrenza, nel contingente, non con il reale. Se l’incontro fosse con il reale, sarebbe senza la parola, senza il tempo, sarebbe diretto, ovvero uno scherzo con la morte o uno scherzo con il nulla. Per questo avrebbe bisogno di cauzioni e di precauzioni: tolto il contingente, il tempo del fare, verrebbe meno la divisione, l’intervallo nella parola, base dell’immunità, e l’incontro, inteso come contatto, sarebbe esposto all’influenza e al contagio. Espunto, l’Altro rientrerebbe come nemico, o come virus, da cui il pericolo dell’incontro, e dunque la necessità di prendere le distanze, la necessità del distanziamento sociale. Pararsi contro il nemico, chiudersi, vietarsi la parola, vietarsi l’incontro: la formula “salvare le vite” è la formula che porta a morire di fame, di paura, d’incuria decine di milioni di persone nel pianeta. Qual è la condizione dell’incontro? L’appuntamento, il confronto, l’assoluto. L’incontro trova la sua condizione nel distacco, nella distanza intellettuale. L’esigenza di una presa di distanze, di un distanziamento spaziale, anche telematico (fino ai siti d’incontri, o ai casi di hikikomori) nasce dall’idea che l’incontro possa essere diretto, che sia la presa di contatto, dopo avere abolito l’assoluto e la divisione. Questo incontro senza la parola, per esempio senza il corpo, l’immagine, la materia, sarebbe l’incontro mistico, che realizza la fusione, magari con l’infinito che stia al posto dell’origine o della fine, come vorrebbe lo Zhuangzi, il Libro del maestro Zhuang (369-286 a. C.), il riformatore del taoismo: “risalendo all’origine del mondo io incontro l’infinito; cercandone la fine, incontro ugualmente l’infinito”. In questo caso l’infinito diventa il nome del nulla o della morte.
Non sappiamo quando o con chi ci sarà incontro: se lo sapessimo, lo impediremmo con i nostri pregiudizi, attribuiti all’Altro. L’incontro avviene nel terreno dell’Altro, insituabile e irrappresentabile. L’incontro non sta prima della parola, non posso incontrare per poi cominciare a parlare, per avere qualcosa da dire: sarebbe l’incontro atteso o temuto, l’incontro estatico, l’incontro traumatico, il colpo di fulmine o di grazia. Come scrive in questo numero Mariella Borraccino, l’incontro interviene in un processo narrativo pragmatico, dove le cose si fanno e si scrivono. L’accesso diretto, la comunicazione diretta, l’incontro diretto comporterebbero l’incontro fatale, l’incontro obbligato, incontro necessario, sotto l’idea di morte o l’idea del nulla. Le dottrine misteriche, religiose, sociali, le mitologie, gli apparati legali e morali, gli apparati sociali, le convenzioni, le psicoletterature, sotto il dettame del radicalismo e del purismo, sono imbastiti per evitare l’incontro: per questo sono contro la crescita, l’industria, lo scambio, il profitto, che trovano il loro terreno nell’incontro.
L’immunità esige la narrazione pragmatica, dunque l’industria e l’impresa, non il lockdown o il distanziamento, che economizzano l’incontro sotto l’egida della paura, trovando l’alibi della comodità, del risparmio, per non fare. Sarebbe l’incontro senza il tempo e senza il fare, tra corpi che allora potrebbero essere malati e contagiosi: un incontro mortale, l’incontro come scontro con il nemico, l’incontro con il reale. Così l’uomo, da vir, diviene virus, da isolare, da distanziare, da eliminare. Questi presupposti fantasmatici su cui poggiano l’home working e lo smart working ignorano la distanza nella parola, fomentando la paura, l’esorcismo della morte, che è incompatibile con l’incontro, che non ha nulla di mortifero o di mortale.
L’accesso diretto svuota l’atto e svuota l’incontro: questo lo spreco che teledidattica e banchi scolastici a rotelle, risparmi energetici e sussidi di stato non potranno evitare perché lo producono. L’ideologia dello smart working parte dal presupposto che il lavoro sia stupido, che debba ridursi, addomesticarsi, essere padroneggiato, che debba quanto prima finire, in un assistenzialismo totale e perenne. Secondo l’utopia prima comunista e ora solidarista.
L’incontro con il reale o con l’Anánke, l’incontro immaginato o creduto dalle ideologie occidentali e orientali, è l’incontro con la morte o con il nulla. Per questo il caso che interviene in questo incontro è caso di morte o il caso di nulla. Così i bollettini quotidiani devono contare i casi di morte (di droga, d’incidenti, di coronavirus), una conta secondo algoritmi geometrici o algebrici che dei casi annulla la specificità e la particolarità. E ognuno diviene caso morendo o annullandosi, misticamente, esotericamente. Pertanto, l’incontro avviene tra i superstiti.
Il caso, che non si misura dai contatti sui profili social, che non si tramuta in successo, che non rientra nella dicotomia vita-morte, è il caso di qualità. Non dipende dal fatalismo, che poggia sull’assenza di parola, dunque non è sottoposto alla divinazione, né quella dell’Yijing (Il libro dei mutamenti) né quella della statistica.
Con l’incontro pragmatico, il caso s’instaura perché, tra sogno e dimenticanza, ciò che si fa trova la piega e si scrive. In modo semplice, non facile. Il vero caso è il caso di qualità, il caso intellettuale, il caso di valore, il capitale che nessuna decrescita e nessun distanziamento può abolire. Il fare intelligente è il fare secondo occorrenza, il fare del secondo rinascimento.

Intervento di SERGIO DALLA VAL al Forum LA MACCHINA E LA TECNICA

Giovedì 10 settembre 2020
Laboratorio Aperto EX CENTRALE AEM
Via Buon Pastore 43, Modena

Il Forum è stato organizzato dal dipartimento “Il capitale intellettuale” (Associazione culturale Progetto Emilia Romagna) e dalla rivista “La città del secondo rinascimento” – in collaborazione con il Laboratorio Aperto Modena e con il contributo di Finmasi Group, Gape Due Spa, M.D. Micro Detectors e TEC Eurolab –, per dare un contributo alla trasformazione scientifica, culturale e artistica che migliaia di imprese nel nostro paese hanno urgenza di attuare: eccellenze del made in Italy con un patrimonio intellettuale di dimensioni inestimabili, indipendente dalla loro dimensione economica.
In un momento in cui siamo chiamati a inventare nuovi modi di vivere e di lavorare in ciascun ambito della società, occorre valorizzare tale patrimonio, avvalendosi delle nuove tecnologie, organizzando filiere integrate e dando ai giovani l’opportunità di cimentarsi nel mestiere di imprenditore, prima che migliaia di aziende vengano cedute per mancato passaggio generazionale.
Il Forum è stato l’occasione per ascoltare il racconto – anche attraverso video e immagini – di protagonisti della trasformazione in vari ambiti, che stanno costruendo l’impresa, la casa, la città, la nazione dell’avvenire, grazie alla macchina, alla tecnica, all’invenzione e all’arte, ovvero all’ingegno e all’industria della parola.

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DALL’ANALISI DELL’EPOCA AL TESTO DELLA CIVILTÀ

Nel libro La repubblica, Platone s’interroga se sia meglio che la città venga amministrata dai politici o dai sophòi, ovvero dai filosofi. E scrive che spetta a quest’ultimi, depositari della conoscenza che trae al bene, la guida della città. 2600 anni dopo, nel pieno della pandemia di Covid-19, si è riproposta la questione: al posto dei filosofi, la guida dei destini della nazione è stata delegata ai virologi e ai comitati dei tecnici. Con un’aggiunta: il conflitto si è spostato anche tra i medici, di varie specialità, ciascuno con la sua valutazione, la sua eziologia, la sua ricetta, spesso opposte fra loro. Polmonite interstiziale o coagulazione intramuscolare? Idrossiclorina, iperventilazione o plasma iperimmune? La scienza da sempre procede non per falsificazioni, come scrive l’epistemologo Karl Popper in Congetture e confutazioni, bensì di cantonata in cantonata, come coglie l’astrofisico Mario Livio nel suo libro Cantonate. E sta qui la chance della scienza.
Ma il calderone mediatico è pronto a sostenere ora l’una ora l’altra tesi sul coronavirus come fossero verità rivelate, con un tifo assordante tra gli utenti dei social, ignari di medicina, ma pronti a giurare sulla validità di questa o di quella diagnosi, di questo o di quel farmaco. Al punto che al primo ministro, per correre in soccorso dei suoi esperti, non è restato altro che, anziché a Platone, fare appello a Aristotele e alla sua distinzione tra la dóxa, l’opinione, e la presunta vera scienza, l’epistéme. Appello vano: in barba all’epistéme, ora la presunta volontà popolare si scaglia contro i vaccini e le App per tracciare il virus, prima ancora che gli uni e le altre siano stati sperimentati.
Non a caso: un governo che fa leva sulle paure del virus per imporre, in nome del bene sociale, ricette devastanti per le imprese, le famiglie, le città, come può sorprendersi se queste paure trovano altri oggetti, in direzione opposta agli auspici di una volontà politica che tanto più impazza quanto più è senza autorità, senza capacità, senza direzione? Così, nella provincia Italia, i virologi hanno imperversato con la loro saccenza e la loro spocchiosità, gli avatar della loro conoscenza. E per ogni scienziato sacerdote, funzionale alla classe dominante, la classe dei più uguali, c’è sempre uno scienziato stregone, adatto per la classe dominata, la classe dei meno uguali: alla medicina che si pretenda sacra, ufficiale, si contrapporrà sempre una medicina che si ritenga profana, alternativa. E ciascuna, in una gara di arroganza, proporrà i suoi farmaci, considerando rimedio la propria sostanza e veleno quella altrui; la loro contrapposizione inscenerà la definizione stessa del phármakon greco, che designava sia il veleno sia il rimedio.
La questione è che il phármakon è utile alla volontà di bene, fa sempre bene, sia come veleno sia come rimedio. È funzionale al bene pubblico, dunque alla salute pubblica, ora per costruire distruggendo, ora per distruggere costruendo. Per la volontà di bene non importano le istanze del privato, ma la salute pubblica, che poggia su tre precetti: purificare, punire, risparmiare. La politica senza arte e senza cultura, la politica penalpopulista dettata dalla volontà di bene è la volontà politica come volontà dell’Altro, la volontà del male come pena, fra predazione e redenzione, magari con l’ausilio dei sophòi di turno. Il governo penalpopulista è il più distante dalla libertà della ricerca e dalla libertà dell’impresa, è il più distante dalla salute come istanza di valore della vita, dall’istanza del capitalismo della vita civile.
Il governo, ma anche l’opposizione, che si attenga al bene ideale è penalpopulista perché l’idea di bene è idea di pena. In riferimento al bene ideale tutto è in pena, è messo in pena: per esempio, innanzi al bene ideale, ogni piacere deve mutarsi nella pena. Se tutto è in pena, ognuno è in colpa e in debito. Ciò che è invidiato è sospetto: e la pena deve provare la colpa, e la colpa deve provare il reato. Per questo, chi non sta in pena è sospetto di pena: l’impresa, l’arte, l’invenzione, il profitto sono invidiati, dunque sono sospetti di pena. La volontà di bene è la volontà di pena, è questo il realismo della volontà dell’Altro. E che ci sia sempre chi “deve marcire in carcere”, nonostante il pericolo di morte o il rischio d’epidemia, deve indicare quanto l’idea di pena con il carcere divenga idea penitenziaria. “E quel che ti è concesso è la tua dose di pena”, scrive Armando Verdiglione.
La vita come concessione, la vita messa in pena, la vita come prigione è la vita calunniata, denigrata, degradata rispetto a un luogo puro. La volontà di bene come volontà dell’Altro, la volontà politica, dovrebbe realizzare quel che è idealmente necessario per i sudditi: dovrebbe realizzare la necessità ideale. Il riferimento ideale è il riferimento puro e radicale. Rispetto a questa purezza, la terra, il tempo, l’impresa, la vita intervengono come rottura, come degrado, come corruzione. Per questo non sono tollerati: non è tollerato il tempo, non è tollerata l’impresa, non è tollerata la modernità, il modo dell’esperienza e della sua scrittura.
La volontà politica non è la politica pragmatica, la politica civile. Il fare sottoposto all’imperativo della volontà, dunque all’ideale, è annullato per essere ricreato come fare sottoposto alla concessione, sotto il canone dell’uguale, che è il canone della gerarchia e dell’egemonia.
Il riferimento al luogo puro, al puro, in particolare, sorregge il radicalismo, il determinismo, il positivismo, il primato dell’azione, tanto più determinata quanto più si riferisce all’indeterminazione, tanto più positiva quanto più dipende dalla negatività. Così il virus, la malattia, l’ignoto diventano segni del male, non pongono una questione di salute: innanzi al male, alla corruzione, la politica penalpopulista cerca nel virus il pretesto del suo potere unico, spazzando via il diritto e la ragione civile. Mandato dal dio puro, il Figlio del sole prende il virus e si fa phármakon, muore per rinnovarsi e per salvare il mondo. Come Osiride, Zagreus, Dioniso, Prajapati, Cristo. Questo è il primato della politica, l’autarchia, l’autofagia con cui lo spirito del cerimoniale realizza l’unione mistica del sacrificante e del sacrificato. Questo androgino dà luogo al dàimon, che si dissolve nel precetto ultimo di divenire un puro nulla. Per questo Maometto dice: “Devo divenire un puro nulla”. Questo il nullismo delle dottrine religiose che sono dottrine politiche e sociali. Il dio radicale che muore e si rinnova è mandato dal dio puro, la sua determinazione è funzionale al principio d’indeterminazione che regna nella scienza e al principio d’inazione che domina la politica, princìpi che dissolvono scienza e politica nella purezza iniziatica e misterica.
Con il pretesto del virus, il governo che non agisce per mantenersi puro e che agisce per salvare ha attuato il suo piano antindustriale, antioccidentale, antieuropeo, inintellettuale, illiberale per cui era sorto. Piano contro la scienza, l’arte, la cultura, la poesia, l’impresa. Il tempo dell’emergenza del coronavirus è diventato il tempo economizzato senza la parola.
Il tempo, il fare, l’impresa, il viaggio, l’incontro: tutto bloccato, sospeso, mutato.
La burocrazia anticovid è pesante: viene usata per mantenere il potere e per bloccare, non per favorire, la ripartenza. Prove tecniche di una società utopica di salariati e assistiti, prove tecniche di realizzazione feriale del nulla. E la morte è funzionale e benefica, giustifica la casta e l’anticasta.
Non c’è partita per questa provincia Italia, pronta alle lusinghe del totalitarismo cinese o russo, mentre vanta i loro aiuti e non fa parola di quelli americani o tedeschi. È un’Italia autoreferenziale, senza tempo, chiusa nella dialettica mortifera tra i più uguali e i meno uguali, tra chi assiste e chi è assistito: la dialettica del nulla. Il ricercatore, l’imprenditore, l’artista, lo scrittore non hanno tempo di chiedersi qual è il farmaco giusto o quando finirà la pandemia: è la produzione a decidere della partita, non la coppia unitaria, circolare, significante sacrificato.
Altra è l’Italia la cui partita è la partita del tempo, del fare, dell’impresa.
Il pittore italiano Alfonso Frasnedi, lo scrittore cinese Zhou Qing, gli imprenditori italiani interpellati per questo numero non hanno aspettano il tempo giusto per fare: il tempo non è il tempo per fare, ma il tempo del fare, il tempo della poesia, il tempo dell’impresa. Nessuno ha il tempo, nessuno è il tempo: facendo, interviene il tempo, il tempo pragmatico, il tempo inviso ai salariati e agli assistiti, alla casta dei burocrati e dei sindacati. Il tempo dell’occorrenza, con il suo rischio incalcolabile e la sua scommessa improbabile, anziché la necessità ideale, con la sua pena certa e la sua penitenza eterna.
E c’è chi è in pena per qualsiasi cosa, dal lockdown alle mascherine, dal vaccino alle App traccianti. Il tempo del fare non porta pena perché non è in riferimento all’ideale, all’origine, al centro, al sé, all’Altro, all’Unico, ovvero alle ipostasi del nullismo imperante.
Vi è chi, anche tra gli imprenditori e i commercianti, per paura di rischiare e di scommettere, mantiene anche oggi la chiusura che prima era stata imposta dal governo. Aspetta circostanze migliori, aspetta i contributi, aspetta i doni di morte del penalpopulismo. Aspetta, nutrendosi della morte bianca. Ma vivere senza rischio e senza scommessa è mortificarsi nel perpetuo pericolo di morte, nella penosa speranza di sopravvivenza.
Vivendo, non c’è alternativa alla riuscita.
Nei prossimi mesi e anni, fioriranno in Italia imprese e mestieri nuovi, nuovi dispositivi della vita civile, come non accadeva da molto: fioriranno contro ogni blocco e nonostante la burocrazia. In questo tempo, il tempo del fare, la nostra rivista, e gli imprenditori che vi scrivono, non aspetta né subisce le circostanze, non critica e non subisce la burocrazia: noi analizziamo, noi constatiamo, noi cogliamo gl’indici, gl’indizi, i segnali, gli asterischi del processo linguistico di scrittura della ricerca e dell’impresa, noi cogliamo le proprietà della vita. A noi spetta restituire, con la lettura, oltre l’analisi dell’epoca e oltre l’esperienza, il testo civile, il testo della civiltà della vita.

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IMMUNITÀ E INTERLOCUZIONE

L’epoca della comunicazione totale, diretta, “virale” ha incontrato con il Covid-19 il suo contrappasso: l’influenza incontrollata, il contagio rapidissimo, il virus senza vaccino. E l’esibizione dei contatti nei social è divenuta tabù del contatto, paura di toccare, paura di una stretta di mano. Che ne è del Noli me tangere con cui Cristo, in mezzo alla folla, indica che la parola non si tocca, non si prende? Inebetiti, come tanti Tonio dei Promessi sposi, ai vincenti di ieri non resta che dire: “A chi la tocca la tocca”. E quanti sedicenti comunicatori ci avevano spiegato come padroneggiare l’influenza per vendere, per dirigere l’azienda, per vincere le elezioni? Dove sono ora questi guru? E quanti influencer hanno dispensato consigli mercenari per gli acquisti a seguaci di umam telematiche? Che farsene ora delle loro mise scintillanti e delle loro mete da sogno? E per quanti giorni, mesi, anni plotoni di poliziotti, finanzieri, magistrati hanno inquisito Armando Verdiglione e la sua impresa culturale prima per abuso d’influenza poi per anomali flussi finanziari? A cosa servono le loro manette contro il virus? Il virus non si fa intimidire nemmeno dalle pistole di Xi Jinping, scrive il dissidente cinese Zhou Qing nel suo articolo.
Già nel Martello delle streghe, il manuale degli inquisitori del XV secolo, la comunicazione era diretta, avveniva per contatto: il diavolo agisce per contatto, contamina e infetta. Come il virus. La comunicazione anomala, i flussi di dati non autorizzati sono diabolici; l’intervento inquisitorio ne compie l’economia, è legittimato a ristabilire la distanza di sicurezza, l’equilibrio sociale, i valori della comunità (communio), il giusto bilanciamento del peso (munus). “Abbiamo mangiato l’ultimo cannibale”: la felice comunione è la comunità cannibalica, una volta cacciato (respinto o incluso) l’Altro. Altra cosa l’immunità (immunitas): nonostante tutte le diete e i regimi, non c’è il giusto peso della bilancia e del bilancio, non c’è più punto medio, punto di equilibrio, axis mundi. Questa immunità non è di gregge, è nella parola, in cui il gregge si vanifica: l’immunitas è virtù del tempo e dell’Altro narrando, facendo, scrivendo, quando la comunicazione non è diretta, perché trova nell’interlocuzione il suo dispositivo.
L’interlocuzione non è il dialogo, non esige le relazioni interdipendenti, lo schiavo di Menone, di cui parla Platone, o il parlante natio teorizzato da Noam Chomsky.
La comunicazione diretta di Socrate lo porta alla morte, alla scelta obbligata per stare al suo posto, per raggiungere il fine del dialogo, la ragione e il diritto sull’Altro.
Il dialogo è polemologico perché è contro l’Altro. Nel dialogo una cosa esclude l’altra, la ritarda, la sposta, la frammenta, la negativizza. Platone inventa il dialogo partendo dalle dottrine misteriche, in cui la parola serve all’iniziazione, alla vicinanza impossibile all’Altro o a sé. Eppure, nessuno può iniziarci alla parola, all’atto: come notano gli imprenditori in questo numero, l’interlocuzione non è iniziazione, non c’è iniziazione alla ricerca e all’impresa, alla scrittura dell’arte e dell’invenzione.
L’interlocuzione è la comunicazione senza iniziazione, per questo serba l’immunitas: solo se il tempo finisse, sarebbe possibile l’iniziazione. E secondo l’iniziazione, solo ciò che finisce significa e si comunica.
L’iniziazione mira all’accordo linguistico: la lingua segreta è la lingua perfetta, senza malinteso. Ignora l’interlocutore, che non si compiace delle nostre idee, che non parla la nostra lingua, la lingua che ci conforta, bensì la lingua del disturbo, la lingua disturbante, quella che non è innata, che non rientra nel dialogo, nella comprensione, nell’empatia in cui ognuno dà o prende secondo la volontà dell’Altro come colmo della propria. Lo scambio esige l’interlocuzione, il dispositivo della parola, non il dono del nulla o di morte per fondare soggettività e personalismi, identità e diversità. Per questo l’interlocutore non è il compagno della sfida sociale, della comunità umana, ma l’interlocutore della scommessa di vita, chi non è preso nella paura dell’avvenire.
E il progetto e il programma non si redigono forse nell’interlocuzione, cercando, facendo scrivendo, narrando? L’interlocutore è indispensabile: questione di ascolto, questione di luce. Non è l’Altro, occorre che ciascuno s’instauri come interlocutore, nella disposizione assoluta a ascoltare, a intendere, senza pretendere di comprendere.
In particolare nell’impresa, l’interlocuzione pragmatica, nell’urgenza e nell’occorrenza, tra il tempo e la piega delle cose, sospende la comunicazione diretta, poggia sul silenzio, senza cui è tutto un parlarsi addosso a sé e all’Altro, è tutto un “farsi” Altro, farsi virale.
“Chi sono i miei interlocutori?”, si chiede chi si avvia all’isolamento. L’interlocutore non si cerca, occorre divenire interlocutore, cioè divenire statuto nel dispositivo dell’interlocuzione. Importa non qual è il mio interlocutore, ma qual è il mio statuto nel ritmo della conversazione, della narrazione, della lettura. Questo ritmo è la base dell’immunità: per questo nessuna salute senza l’interlocuzione. Alla sua punta, interlocutore è il lettore, chi restituisce con la lettura il testo della scrittura dell’esperienza, di quel che della memoria si scrive. Senza lo studium inquisitorio, che sostituisce, idealmente, l’interlocuzione con il “rigoroso esame”, con la tortura.
L’interlocuzione è il dispositivo della comunicazione civile, della ragione dell’Altro e del diritto dell’Altro che nessun diritto penale totale può cancellare.

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LO STATO DI SALUTE

Nel libro La Repubblica Platone introduce la distinzione tra “stato sano” e “stato malato, rigonfio di umori malsani”.
Quest’ultimo, secondo lui, è popolato di “gente che non si troverà affatto in città per bisogni necessari”, ovvero che non servirà per uno stato sano: “cacciatori e mimi, musicisti e poeti, impresari e artigiani”.
E poi “molti servitori (diákonoi): pedagoghi, nutrici, governanti, cameriere, barbieri, cuochi e macellai”. Sono servitori in uno stato malsano, in cui non possono mancare “anche i porcari: tutte persone assenti dal nostro primitivo stato, perché là non servivano a nulla, ma in questo qui occorreranno”. Come sorprendersi se “con un tale regime anche i medici saranno molto più necessari di prima”? Comincia così, in nome di un primitivo stato sano, fatto di necessità elementari, naturali, il pregiudizio contro l’arte e la cultura, il commercio e l’impresa, l’istruzione e il governo, la poesia e la cucina.
Fino alla medicina, male necessario: tutti gli aspetti della vita sono segno di degradazione, di malattia, di umori malsani.
La condanna colpisce anche la fantasia, la favola, dunque la parola stessa, che diventa strumento di manipolazione: “dobbiamo sorvegliare gli inventori di favole, accettando delle loro invenzioni ciò che è buono e respingendo ciò che è cattivo. Convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini solo quelle approvate da noi, e a plasmare con le favole gli animi infantili molto più di quanto modellino i corpi con le mani”.
In ossequio a questa lezione platonica, ancor oggi la distinzione tra stato sano e stato malato è alla base dell’idea dello stato di salute pubblica, ovvero della salute di stato, del plagio di stato, che accetta ciò che è buono e respinge ciò che è cattivo.
La salute di stato, con i suoi standard, con le sue discipline, manca lo stato di salute perché lo confonde con lo stare bene, lo volge in bene sociale. Qual è lo stato di salute dei cittadini, delle aziende, dell’economia? È lo stato che si misura con i parametri del bene sociale più in voga, per esempio il risparmio, la sostenibilità, il multiculturalismo, l’inclusione, il welfare.
I parametri del politicamente corretto, i parametri del nulla. Quel che non si attiene al bene sociale, ai valori socialmente riconosciuti non è in salute, e va curato, gestito, trattato. Trattamento sanitario obbligatorio, questione di salvezza, non di salute: occorre che tutti siano salvi, la salute diventa una convezione sociale e la cura un obbligo sociale. Lo stato ha bisogno della salute di tutti, la favola di Menenio Agrippa è la favola della salute pubblica, cioè della pena di tutti per amore dello stato, dello stato di pena. In assenza di arte e cultura, del commercio e dell’impresa, questa la salute: tutti devono stare in pena, occuparsi, preoccuparsi, curarsi, studiarsi, conoscersi, insomma occuparsi di sé come modo supremo di occuparsi dell’Altro.
L’occuparsi dovrebbe prendere il posto del fare, il conoscersi varrebbe a sostituire la ricerca, il misurarsi e il risparmiarsi servirebbero a canonizzare l’impresa. “Come stai?” risulta allora una domanda sul cerimoniale sociale: “Come stai rispettando il tuo stato di pena?”.
Lo stato di salute come stato di pena è uno stato d’inerzia, che sia di quiete o di moto. Ogni cosa, in particolare il tempo, è sottoposta a misurazione e a risparmio, e anche all’idea di ritorno, ovvero all’idea di circolarità o di quadratura. La salute allora è quando tutto circola bene o tutto quadra, ovvero c’è ritorno? La salute è quando il tempo è abolito, per esempio quando si è in vacanza o a riposo o in pensione? Fino a quando l’audacia e il rischio, la ricerca e il fare, il racconto e la scrittura verranno considerati ininfluenti, se non dannosi, per la salute? Lo stato di salute non è lo stato comatoso, lo stato d’inerzia inscenato nella necropoli, nella città senza tempo e senza impresa: lo stato di salute è lo stato del viaggio nel suo approdo al valore, al capitale.
Come considerare lo stress qualcosa di patogeno, come auspicare la distensione se proprio la tensione intellettuale (cui Sigmund Freud alludeva con il termine “pulsione”) indica la direzione di questo viaggio fino all’approdo? Nel viaggio che procede dall’apertura, non dall’unificazione, le cose entrano nella combinazione, non nella condivisione.
Cercando a ogni costo la distensione, il politicamente corretto mira alla condivisione e, procedendo in modo sommario, teme la divisione, dunque è fuori tempo e senza tempo (tempo, dal greco témno, taglio, divido), precludendosi l’avvenire e il divenire. Questa la vera patologia: la fine del tempo, con cui la malattia si fa corruzione da purificare e al posto della salute non resta che l’idea di salvezza. Come nota Carlo Zucchi, il politicamente corretto non intende l’occorrenza e il contingente in cui ciascuno vive perché nega il tempo delle cose puntando al tèlos, pensando che l’approdo sia il fine da raggiungere, dunque che la salute sia la propria realizzazione, la propria completezza. Nulla di più ideale: facendo, ciascuno si imbatte nel pleonasmo, nel superfluo. Il pleonasmo esclude il ritorno, per cui nulla si realizza e si completa, e la partita della salute non si chiude e non finisce.
La partita, la partizione, la divisione, il taglio, il tempo. Il tempo, la tabula dove si scrivono le cose che si fanno. I dispositivi della partita sono dispositivi temporali: la battaglia e la lotta. Nessuna lotta contro il tempo; la lotta attiene al tempo che dispensa l’evento. Lotta per la salute, battaglia per la salute: la salute non è un diritto né una finalità, esige il viaggio di ciascuno, con il progetto e il programma di vita, con i dispositivi di lotta e di battaglia.
Ciascuno, anziché ognuno, sta alla partita e al gioco. Al gioco e all’invenzione, all’arte e alla cultura. Stare, stato: ciascuno come statuto intellettuale nel dispositivo di parola, anziché come categoria, anziché come soggetto.
La partita della salute è la partita di chi accetta la vita, la sua cifra e non si arrende.
È la partita di chi non ha nulla da immolare, all’ombra dell’idea materna, sull’altare della convenzione sociale, per cui la stessa malattia non è una degradazione da cui riscattarsi. È la partita della parola, in cui l’itinerario è senza ritorno e va in direzione della qualità. La direzione della qualità è la tensione intellettuale, l’istanza della qualità è la salute.

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COME APPRODARE ALLA QUALITÀ

Occuparsi, impegnarsi, affaccendarsi, affannarsi: quando? Per cosa? Per chi? Vale la pena? O la candela? “Ho raggiunto le mie mete, i miei obiettivi, non ho più finalità da perseguire: non è meglio fare un passo indietro, o andare in pensione, o cedere l’azienda, magari dopo aver programmato il passaggio generazionale, eletto il successore, venduto al fondo d’investimento?”. Sulle note del fantasma di fine del tempo, la ballata dell’arrivato, del vincitore vinto – di chi sapeva, voleva, poteva, doveva fare e ora non sa, non vuole, non può più nulla – propone la rassegnazione come abito di turno, come divisa del nulla per darsi la pena e la colpa del proprio destino segnato, il destino di morte: approdare alla fine, esaurire la vita è il compito del penitente.
Ulisse non è approdato a Itaca, sarebbe stato un ritorno. Ma il viaggio è senza ritorno: nel viaggio della vita le cose vengono e vanno, non vanno e tornano.
Anche i conti non tornano, non possono evitare lo sbaglio che, nella sintassi, dissipa l’ordine normativo e normale.
Nonostante i suoi conti, Colombo pensava di essere approdato alle Indie, invece si è imbattuto in un continente nuovo.
Siamo arrivati? Abbiamo raggiunto la meta? La meta non è l’approdo, è un pretesto per il viaggio, a volte un abbaglio.
Diversamente dalla meta, l’approdo non si rappresenta, non è un imperativo.
L’approdo è approdo nella narrazione.
Dove vogliamo approdare? L’approdo non è quel che si vuole o non si vuole, cioè il télos, il fine che giustifica il viaggio, che vale la pena.
Finalizzare la nostra ricerca e la nostra impresa comporta sottoporle all’ideale: potremmo toglierle dalla parola per immaginare un approdo ideale, potremmo raggiungerlo, ma non ne saremmo soddisfatti, proprio perché ideale. Questione di piacere l’approdo, dunque mai immaginabile e credibile. Il piacere, se è cercato, manca sempre di qualcosa. Ecco il pathos, la preoccupazione, l’affanno: la ricerca del piacere, che lascia irraggiungibile l’approdo perché lo idealizza nella meta, nel raggiungimento del fine.
Ma non c’è approdo alla riuscita. Le cose riescono quando giungono al compimento, per via di una sintassi non normativa, di una frase non regolamentare, di un fare senza bisogno di motivazione.
Un’altra legge, un’altra etica, un’altra piega della vita: questa la riuscita, in cui la gioia è incontenibile. La riuscita non dipende dalla positività dell’itinerario, non è il successo, il segno della buona performance, dell’economia del male: il successo è una virtù del volontarismo, è il successo della volontà dell’Altro, che sostituisce la predestinazione alla legge, all’etica e alla clinica. Quest’ultima non è la soluzione per la patologia, ma la strategia, la piega delle cose facendo (clinica deriva dal greco klìnein, piegare, tendere) in direzione della qualità. Con il volontarismo e il finalismo, l’approdo alla riuscita sarebbe il completamento, raggiunto da quella sufficienza per cui il fine giustificherebbe i mezzi. Così la legge, l’etica e la clinica diverrebbero canoni per l’azione risolutrice, definitiva, salvifica. Altra cosa l’efficacia, che è del fare in quanto si scrive, in modo narrativo, perché non prescinde dalla lingua di ciascuna esperienza, di ciascuna impresa: la scrittura del fare non può partire dalla clinica, dalla strategia che pretenda di pilotare il fare, ma s’instaura nel suo compimento. Come testimoniano gli imprenditori in questo numero, il viaggio dell’impresa sospende l’indifferenza in materia di riuscita tipica del burocrate e del funzionario, i quali, nel migliore dei casi, si accontentano del successo. La riuscita esige il processo di scrittura della ricerca e del fare, banditi dalla burocrazia, e indica che il processo di scrittura dell’esperienza è giunto al compimento, dunque alla legge, all’etica e alla clinica. Nella ricerca e nell’impresa, la legge, l’etica e la cinica, non naturali e non convenzionali, non divine e non statali, sono della parola, non sulla parola o contro la parola, e esigono che quel che si dice e si fa si scriva, fino al compimento. Le legge, l’etica e la clinica sono compimenti della scrittura dell’impresa, della città, della vita, non il suo completamento, la sua completezza, la sua realizzazione spirituale. Queste sono le finalità cui il viaggio dovrebbe attenersi per giungere alla fine, alla dissoluzione nel nulla.
“Con l’idea di fine nessun approdo, ma la circolarità. Il viaggio va in cerchio, senza direzione. Chi va a vuoto, gira in tondo e piomba nel cerchio”, scrive Armando Verdiglione nel libro La rivoluzione cifrematica. L’approdo è oltre la riuscita: vi è chi riesce, ma non approda da nessuna parte. Qual è la direzione del viaggio? Lungo la ricerca e lungo il fare, mai potremo trovare la direzione, se speriamo o ci ripromettiamo di raggiungere l’approdo, se l’approdo è immaginato o creduto il porto, o il luogo dell’arrivo, dove finalmente tutto sarebbe codificato, deciso, significato. Non c’è l’approdo al simbolo della padronanza (il codificabile), alla lettera dell’affrancamento (il decidibile), alla cifra della comprensione della vita (il significabile): sarebbe mortifero, il luogo dei contropiedi e dei contrappassi, dell’esaurimento e della dissoluzione.
L’approdo non si conosce e non si vuole, ma nessuna meta può evitarlo.
Nell’approdo il simbolo sancisce che la legge non trova codificazione, la lettera certifica che l’etica non consente l’identità e la cifra implica che la clinica giunga al caso di qualità, oltre la riuscita. Nessun Nirvana, nessun cupio dissolvi, nessun ritorno allo stato inanimato di cui parla Sigmund Freud in Oltre il principio di piacere. Divenire caso di qualità prescinde dal pathos, dall’affanno, dalla preoccupazione, altrimenti l’approdo diventa il riposo del guerriero, il placare gli affanni, la calma dopo la tempesta: “finalmente a casa”, “anche oggi ho finito”, così l’impazzimento, il fare quello che si vuole, è servito. E la vita è sospesa, in attesa di rituffarsi nell’infernale il giorno dopo. Altra cosa dalla calma la tranquillità, quando, per via d’audacia e di rischio, non c’è bisogno di pensarsi, dunque d’immaginarsi e di credersi, o di rincorrere un risultato ideale. Mentre il riposo trova il nulla come suo luogo ideale puro, con l’approdo il viaggio non finisce: in particolare, l’approdo alla cifra dissipa l’idea di fine, sancisce che quel che vale è quel che resta, che la battaglia in direzione del valore è infinita e eterna. L’approdo non è la fine, è oltre l’infinito, per questo l’approdo al valore è approdo al piacere e alla felicità, che non valgono mai la pena. E il piacere sperato è il piacere che mai si raggiunge.

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DAL PUBBLICO AL PRIVATO, L’AMMINISTRAZIONE

Nella Scienza nuova, pubblicata nel 1744, pochi mesi dopo la sua morte, Giambattista Vico scrive che al “dominio eminente delle civili potestà, nei pubblici bisogni, deve cedere il dominio sovrano e dispotico che hanno i padri di famiglia de’ loro patrimoni” (4-I-971).
Vico indica in tal modo come in nome dei “pubblici bisogni”, il “dominio sovrano” dei privati sui loro patrimoni deve cedere alle “civili potestà”, al potere pubblico, sottolineando come già nell’antica Roma la dicotomia pubblico-privato si doveva risolvere a vantaggio del pubblico. Del resto già Cicerone nota che la confisca dei beni veniva chiamata publicatio bonorum: quando il bene entrava nella publicatio, veniva sequestrato, confiscato.
Sorge così l’idea del pubblico che confisca il privato, l’idea del pubblico come idea di ingerenza nella famiglia (come nel caso delle adozioni di Bibbiano) e di predazione dell’impresa (come nei sequestri e nei fallimenti attuati nel caso Verdiglione e in tanti altri casi). Idea così diffusa nella nostra epoca e così praticata dalla burocrazia fiscale, politica e giudiziaria, come testimoniano l’intervento di Pascal Salin e di molti imprenditori di questo numero. Questione di cannibalizzazione delle cose, che interviene anche nel giornalismo e nell’editoria penalpopulista, in cui “pubblicare” è sinonimo di “dare in pasto al pubblico”: le cose vanno “condivise”, frammentarizzate, distribuite nella comunità, cioè cannibalizzate. La pubblicazione come forma di cannibalismo sociale, sotto l’idea di parità, di uguale sociale: contro l’anomalia, l’ineguale, sorgerebbe il pubblico, come ciò che accomuna, come ciò che confisca e ciò che viene sottoposto al bene comune.
Non a caso, in conclusione del Concilio vaticano II, Paolo VI consegnò una lettera al mondo filosofico e scientifico nelle mani del filosofo e teologo Jacques Maritain. Nel suo libro La persona e il bene comune (1947) il padre dell’“umanesimo integrale” aveva teorizzato il bene pubblico come bene comune, trasformando il pubblico in luogo del nutrimento spirituale, cioè egualitario.
Il termine publicus interviene nell’antica Roma. La Grecia ignora il pubblico, però giunge all’invenzione del coro, che pure mantiene un accento moralistico, rispettoso del bene comune, nell’idea di dovere amministrare la divulgazione dell’evento, rendendo tragici o stemperando la sua tensione e il suo squarcio. Nell’antica Roma sorge il pubblico, e in particolare la res publica: il pubblico viene accostato alla cosa. Ma la res publica è la cosa a disposizione di tutti, contrapposta alla cosa privata? O non è invece quel che sfugge alla possessione o alla padronanza di ognuno, su cui nessuno può metter mano? Da sempre, invece, la politica, come spettacolo di padronanza, deve mettere le mani sulla repubblica, sulla città, deve far sì che ci sia qualcuno che controlli e gestisca il pubblico, gli enti pubblici, le istituzioni pubbliche.
Ecco che il pubblico diventa sinonimo di padronanza e di gestione delle cose, e “la cosa pubblica” diventa la cosa di tutti, quindi la cosa del popolo, quindi la cosa di chi parla in nome del popolo. Il popolo è il riferimento spirituale, misterico, di ogni purista e fondamentalista, e diviene a sua volta purista e fondamentalista quando gli viene attribuita la sovranità, per negarla.
Res publica: più che la cosa pubblica, il pubblico della cosa. Della cosa nessuno parla, non è popolare: la cosa è nella parola, e il pubblico della cosa non sta a guardare, è indice dell’infinito della parola. La cosa non è personale né collettiva quando, ricercando e facendo, le cose entrano in un ritmo, in un dispositivo.
Mentre il popolo è spirituale, il pubblico della cosa è pragmatico, esige il tempo del fare, infinito e eterno, negato dallo spiritualismo e dalla sua variante, il materialismo. Solo se il tempo finisce le cose possono essere frammentate, cannibalizzate, spiritualizzate, quindi diventare un prodotto finito. Il prodotto finito è un prodotto che nega il pubblico, che si rivolge a un pubblico come consumatore, ancora una volta all’insegna del cannibalismo. E anche la pubblicazione editoriale può essere considerata in questa accezione: pensiamo al pubblico dei lettori, intesi come divoratori di libri, che i libri “se li bevono”, “se li divorano”.
Come se potesse abolirsi l’edizione, che non è la pubblicazione: l’edizione segue il processo intellettuale, segue la via di astrazione lungo cui si costituisce il pubblico.
Inventato nel rinascimento, segnatamente da Niccolò Machiavelli e Ludovico Ariosto, il pubblico esige la differenza e la varietà, l’internazionalismo e l’intersettorialità.
Per questa via è l’humus dell’impresa, della città e dei dispositivi civili. Noi, voi, loro, il pubblico, facendo.
In quanto pragmatico, il pubblico non persegue l’idea di bene e non supporta l’idea di bene pubblico, cui si appella ogni governo burocratico. L’humanitas è il terreno dell’Altro, che non è il terreno dell’intesa, dunque non è il terreno della comunità sociale, fraterna, spirituale: il pubblico è il terreno del malinteso, con cui non c’è più omertà, dunque segreto e mistero. Niente pubblico senza malinteso.
Inconoscibile, il pubblico della parola non è quello della condivisione. Non sono i follower, il pubblico ideale, misterico, muto del botta e risposta, del like-unlike, il pubblico fake che manca la parola originaria. Il malinteso rilascia l’enigma, quindi il teorema: non c’è più condivisione. Il pubblico della parola originaria è la base della riuscita, non del successo. Solo se viene tolto, idealmente, il malinteso, il pubblico è rappresentabile, visibile, contabile. Il pubblico non rappresentabile è ignoto. Non possiamo sapere qual è il nostro pubblico, perché non è numerabile, è quell’humus con cui narrando, facendo, scrivendo il calcolo si imbatte nell’errore indispensabile per l’invenzione e la novità, in direzione della qualità. Le imprese, come ciascuno, incontrano il pubblico nel racconto, intessuto di sogno e di dimenticanza. E il pubblico risulta indice dell’infinito nel racconto. Come sottolinea in questo numero Bruno Conti, il pubblico interviene facendo, dunque nel tempo pragmatico, il tempo proprio del fare. Facendo, il tempo non finisce, e il pubblico ne è l’indice. Come sottoporlo alla statistica, all’amministrazione sociale, all’amministrazione pubblica? Res publica: la cosa è pubblica. Non lo è l’amministrazione, quando pretende di seguire la volontà dell’Altro, ovvero la forma ideale della propria. Il pubblico si annulla dietro la pubblica amministrazione che sia basata sul canone della licenza, anche sociale, che è il canone dell’omertà, per cui nella vita è vietato tutto ciò che non è concesso.
Ma nella testimonianza dei sindaci e degli assessori pubblicati in questo numero, nel loro racconto, si avverte l’istanza, o addirittura l’esperienza, di un’altra amministrazione. Un’amministrazione che non neghi, in modo burocratico, il tempo, il fare, l’impresa, che non si opponga al privato e che non vanifichi il pubblico. Un’amministrazione che poggi sull’infinito del tempo e sull’eternità del tempo, dunque che, non attenendosi al criterio burocratico dell’accettabilità e della rispettabilità, si rivolga al compimento delle cose, anziché impedirlo, e all’approdo delle cose, anziché al prodotto finito. La città del secondo rinascimento (altra cosa dall’umanesimo e dal transumanesimo) esige un’amministrazione che non amministri secondo la concessione, cioè attenendosi al canone della licenza, ma che consenta che l’impresa, l’arte, la scienza giungano a compimento e all’approdo.
Senza più contrapposizione tra pubblico e privato, ciascuna impresa esige l’amministrazione e i suoi dispositivi (contabili, scritturali, finanziari) perché il fare giunga a compiersi e a approdare alla riuscita. Dal pubblico al privato si tesse l’amministrazione che trova la piega in ciascuna cosa e la semplicità per giungere al privato, all’unicum del caso. Evitare l’amministrazione è evitare il caso. Questa la questione amministrativa: come le cose che si fanno si scrivono. L’imprenditore non ha tempo per intrattenersi a criticare le lungaggini dell’amministrazione, a prendersela con gli amministratori, a sottovalutare l’amministrazione della propria impresa.
L’impresa non può incontrare il pubblico senza l’amministrazione: da qui l’importanza delle scritture contabili, dei documenti, dei registri, degli archivi, che non si attengano all’idea che il tempo finisca, ma annunciano il bilancio dell’avvenire.
I dispositivi amministrativi sono indispensabili per la scrittura dell’impresa.
Questa scrittura non è il verbale del fatti, esige il racconto, indispensabile per la riuscita. Per questo il tabù dell’amministrazione, della scrittura del fare, è il tabù della riuscita, sotto l’egida dell’idea di fine. Questo tabù interviene anche quando ci preoccupiamo che le cose, per esempio i soldi o l’amore, finiscano, e ci chiediamo “Che ne sarà di noi?”, “Che ne sarà di questo e di quello?”. Partire dall’idea di fine, è già negare il pubblico, è già considerare le cose al di fuori del loro infinito, è già pensare a salvarsi. Il pubblico è essenziale per la salute, altrimenti abbiamo la salute pubblica, che è la salute contro il pubblico, è la salute confiscata dal pubblico, è la salute governata dal cannibalismo sociale. Questo concetto di salute è un concetto di fine del tempo: è un modo per salvarsi. Questa non è la salute, è la salvezza: come mi salvo dal dolore? come mi salvo dal lutto? come mi salvo dalla malattia? Ognuno si salvi come può. E questa è la negazione del pubblico.
Nessuna città fuori della parola, nessun pubblico fuori della parola. Il pubblico è l’humus nel nostro racconto, nel nostro progetto, nel nostro programma.
Nulla è escluso, rifiutato, proibito da questo humus, che non oppone preclusioni, rifiuti, prevenzioni, precauzioni. Noi, voi, loro: il pubblico, l’humus dell’impresa e della riuscita.

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IL BELLO DEL SUPERFLUO

Nell’epoca della condivisione sociale e della predazione fiscale, del taglio agli investimenti e della caccia allo spreco, dove tutto, dal tempo all’energia, deve essere misurato e risparmiato, il superfluo viene, idealmente, bandito: nulla di troppo, nulla di futile e di frivolo, occorre limitarsi a quel che è strettamente necessario, in base ai criteri di accettabilità e di sostenibilità. Con questi criteri nullificanti, il necessario diventa il minimo necessario: il minimo male necessario, il minimo sacrificio necessario, il minimo spreco necessario. In tal modo, in nome della propria idea di bene, il male, il sacrificio, lo spreco diventano indispensabili per sancire il limite e la frontiera del dire, del fare, della vita stessa. Il principio di necessità, la necessità preventiva, è finalistico, presuppone che le cose siano sottoposte a un fine intrinseco, dunque pre-destinate, e che i mezzi e i modi possano essere prestabiliti: è il principio del terzo escluso, dell’Altro rappresentato, che si avvale dei principi di selezione e di elezione a cui dovrebbero essere sottoposti l’avvenire e il divenire. Con questo rasoio di Occam l’avvenire e il divenire si dissolvono nel presente, perché solo partendo dal presente, dall’idea di presente, possiamo stabilire quel che sarà necessario.
Ma abolire l’avvenire e il divenire è abolire il contingente, il tempo in atto, il tempo pragmatico, che nulla ha a che fare con il presente, con il tempo presunto presente, visibile, osservabile, rappresentabile.
Il tempo contingente è il tempo dell’impresa.
Nell’Urkommunismus di molti ideologi alla moda la critica al superfluo diventa un modo per criminalizzare l’impresa, rea di non limitarsi a produrre beni per soddisfare i bisogni presunti naturali perché tesa a inventare nuovi bisogni, per produrre e vendere beni presunti non necessari.
Bisogni superflui? Beni superflui? L’invenzione e l’arte indicano che quel che è superfluo, quel che non è solito, usuale, conosciuto, risulta necessario, non se ne può fare a meno. Come stabilire quel che è superfluo? Ciascuno può constatare che è il fare con il tempo a decidere del superfluo: nell’atto (e nell’attuale) nessuno sa quel che è superfluo, quel che sembrava superfluo in un determinato momento, con il tempo può risultare indispensabile. La necessità del superfluo esige il tempo pragmatico: facendo, s’intende che quel che sembrava superfluo (nel senso di inutile) diviene necessario, e un’altra accezione di superfluo s’impone.
Ciascuno ignora l’avvenire e il divenire: per questo è impossibile evitare il superfluo, e il vero spreco sta nell’impegnarsi in questo evitamento, in questo risparmio, sottoponendo il fare a previsioni e a finalismo.
Anziché la scommessa sul divenire e sull’avvenire, allora importa la convenienza: conviene la ricerca? Conviene l’arte? Conviene finanziare i viaggi spaziali? Conviene la TAV? Conviene sostenere Radio Radicale? Per l’immobilismo, ciascuna cosa, anche l’impresa, deve giustificarsi socialmente e sostanzialmente, redimere la propria produzione e il proprio profitto (come fossero una colpa), assumendo una funzione etica e un ruolo sociale (che diventano una pena). L’ideologia della convenienza è ideologia della colpa e della pena, mira a trasformare la necessità come esigenza e occorrenza pragmatiche in principio di necessità, ovvero principio di sottomissione alla presunta mancanza e al finalismo. Il principio di necessità è il principio di ragione sufficiente, poggia sull’idea di salvezza, come nota Antonella Silvestrini nel suo articolo in questo numero. La necessità senza principio, la necessità che interviene facendo, è pragmatica.
Il superfluo che non si sottopone al principio di necessità è proprietà pragmatica, proprietà del fare e del tempo che interviene facendo. Facendo: il gerundio. Come vivere? Facendo. Chi vive non è il vivente, lo zôon della dottrina misterica, è il ciascuno: ciascuno, facendo, vive di superfluo, non di eternità. L’eternità, promessa misterica, è l’assenza di tempo, di superfluo, per questo non ciascuno, ma ognuno muore d’eternità, che abita nel cerchio, nel ritorno, nel finito.
Il concetto di finito è intollerante rispetto al superfluo, al fluire infinito del tempo: postulando che il tempo passi e scorra, deve misurarlo e risparmiarlo, ha orrore del futile e del frivolo che si combinano nel superfluo, nel tempo libero, in assenza di causalismo e finalismo, da convenienza e accettabilità.
Quando il flusso del tempo non si può più misurare e non si può più risparmiare, la sua fluenza è superfluenza, da cui il superfluo e la sua necessità: necessità dei flussi di cassa, dei flussi finanziari, di cui ogni fiscalismo, ovvero la burocratura, ha orrore tanto da tenerli sotto giudizio, cioè sotto critica (critica; dal greco krino, giudico). Ma se il giudizio è dettato dal tabù del tempo, se vuole sottoporre il fare all’idea di bene, la critica diventa sociale, diventa critica del superfluo, critica del lusso, critica dell’infinito del tempo, critica del fare, critica dell’industria, critica dell’intellettualità.
Quando non basta più la criminalizzazione ideologica, questa critica si avvale del tribunale, come nel caso di molti imprenditori e di un intellettuale imprenditore, Armando Verdiglione, accusato prima di “eccesso di influenza”, poi di “ingenti flussi di cassa”. I flussi, la fluenza, l’influenza, la superfluenza, il superfluo. La denuncia del frivolo, da sempre criminalizzato da chi si attiene al principio del risparmio, imperversa dai tempi di Lutero: troppo lusso, troppa arte, troppo spreco a Roma per i principi tedeschi, allora come ora.
“Ovunque è presente qualcosa di frivolo, lì è presente il profondo”, scrive Osho Rajneesh. Ma il frivolo non rimanda a una profondità iniziatica e misterica. La burocratura fiscale, in nome di una presunta profondità, mira a colpire o a monopolizzare il superfluo, il futile e il frivolo, e dunque il lusso; in tal modo esclude, idealmente, il fare, il tempo, l’Altro. Per questo risulta devastante per l’impresa, la città e la vita civile. “La prima necessità dell’uomo è il superfluo”, scrive Albert Einstein.
L’Altro non può escludersi né includersi: questa tolleranza dell’Altro non si commisura al principio di ragione sufficiente, esige il superfluo per non diventare circolare, assimilante, asfissiante, parificante e purificante, come nella città necropolitana.
Il bello del superfluo, secondo l’occorrenza, è il bello della differenza e della varietà, invise a ogni regime, ma imprescindibili per la vita civile. Nessuna riuscita pragmatica senza il superfluo: parlando, l’avvenire e il divenire sono dinanzi, senza risparmiabilità né misurabilità.

N. 84 - Giu. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO

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L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LA GENETICA DELLA VITA

Calmate il vostro cuore; purificate la vostra anima; liberatevi della vostra intelligenza”. Questo precetto tratto dallo Zhuangzi è uno dei tanti esempi della diffidenza nei confronti dell’intelligenza che pervade il pensiero orientale. L’autore, il maestro Zhuang (369-286 a.C.), riformatore del taoismo cinese, prosegue: “Correggete il vostro corpo e unificate i vostri sguardi, l’armonia celeste scenderà in voi; frenate la vostra intelligenza e rettificate il vostro atteggiamento, lo spirito trascendente vi visiterà.
La virtù vi abbellirà; il Tao abiterà in voi”. Per il taoismo, l’intelligenza impedisce la Via perché viene opposta all’intuizione, alla spontaneità, all’armonia con la natura. Come è scritto nel trattato Huainanzi, il libro del maestro Huainan (139 a.C.), soltanto “colui che segue l’ordine naturale fluisce nella corrente del Tao”.
Il pregiudizio contro l’intelligenza è condiviso anche nel discorso occidentale, e non solo da filosofi affascinati dall’orientalismo come Arthur Schopenhauer, che scrive: “Più intelligenza avrai, più soffrirai”. “Ci vuole qualcosa di più che l’intelligenza per agire in modo intelligente”, annota lo scrittore Fëdor Dostoevskij, mentre il filosofo Henri Bergson sostiene: “Ci sono cose che l’intelligenza è capace di cercare, ma che, da sola, non troverà mai”.
Da oriente a occidente l’intelligenza fa soffrire, è limitata e limitante, si oppone all’ordine naturale, allo spirito e alla virtù: questa intolleranza dell’intelligenza discende da un’ideologia mistica, che considera l’intelligenza troppo umana, come il corpo, come la parola, come la scrittura. Allo stesso modo viene considerato il libro nel romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451: il libro disturba, fa riflettere, fa soffrire, si oppone a un’umanità burocratizzata, robotizzata, un’umanità pura e radicale, pronta all’armonia celeste, al regno dell’utopia.
“I tre quarti delle malattie delle persone intelligenti provengono dalla loro intelligenza”, scrive Marcel Proust nel romanzo All’ombra delle fanciulle in fiore. Ma se l’intelligenza è la fonte della malattia, estirparla è la cura ideale. Così il campo è libero per l’inintellettualità positivista o spiritualista, per il cacciatore di teste e per lo strizzacervelli: non a caso, l’inventore della lobotomia, lo psichiatra portoghese Antonio Moniz, dell’Università di Lisbona, ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1949.
Il pregiudizio contro l’intelligenza è un pregiudizio contro la parola, l’artificio, l’intellettualità. Anche l’introduzione della formulazione “intelligenza artificiale”, ad opera di John McCarthy in un convegno del 1956, immagina un’intelligenza senza l’uomo, prodotta dalla tecnologia, dunque illimitata, presunta opposta a un’intelligenza dell’uomo, prodotta dalla natura, limitata. Questa contrapposizione postula la dicotomia uomo-macchina per poi ricomporla in un androgino tecnologico. Così nella nostra epoca il transumanesimo promette l’upload della mente, o la robotizzazione degli arti, o la rinascita dopo l’ibernazione (criogenetica), perché solo così l’uomo può divenire iperumano, spirituale e dunque divinizzato. Come in ogni mistica, l’uomo nuovo esige la morte dell’uomo: muori per non morire, per divenire eterno. In questo modo l’intelligenza artificiale diventa intelligenza iniziatica, intelligenza per l’accesso, intelligenza sociale.
Questa intelligenza sarebbe artificiale in quanto sorta dall’idea di sistema, segnatamente dai sistemi intelligenti: sistemi basati sul calcolo binario, sull’alternativa tra il sì e il no, per un’intelligenza che si sviluppi da sé, senza bisogno dell’uomo. I sistemi intelligenti sono i sistemi contro l’intelligenza, poggiano sull’algebra e sugli algoritmi, su una logica oppositiva, che esclude il terzo, di cui la logica fuzzy è una variante. Con le sue opposizioni, il sistema è unitario, procede dall’uno e ritorna all’uno, in modo circolare, espungendo il due e l’Altro, l’apertura e l’adiacenza che sono indispensabili per l’intelligenza.
L’intelligenza è data dalla memoria o dall’esperienza? Incrementare la capacità di memoria della macchina può portarla all’intelligenza? E un sistema esperto, un sistema che impara dall’esperienza, può divenire intelligente? Nel sistema la memoria è la capacità di ordinare e di richiamare dati, e l’esperienza è l’accumulo e la ricombinazione di conoscenza.
Ma in questa accezione di memoria e di esperienza, così contrapposte, tutto è dato e pronto per essere padroneggiato: non c’è posto per l’invenzione e per l’arte, per il sogno e la dimenticanza, per la poesia e la scrittura. “Sistema intelligente” è un ossimoro: solo in assenza dell’idea di sistema l’intelligenza è artificiale, è arte, prescinde dall’alternativa uomo-macchina, naturale-artificiale. Senza l’idea di iniziazione, cioè di una memoria come reminiscenza e di un’esperienza come pratica accessibile, l’intelligenza non abbisogna del segreto, in questa accezione è artificiale. Questa intelligenza non iniziatica non cerca complicità né intesa, è “arte del malinteso”, come la definisce Armando Verdiglione. Un’arte poetica, pragmatica, non una facoltà soggettiva, per questo non può risultare una sofferenza o una malattia. Non serve a governare i sentimenti o a trarre profitto dalle emozioni: l’intelligenza poetica, pragmatica (dal greco poiéin, fare) non è l’intelligenza emotiva, che nega l’intelligenza perché basata sulla competenza, sul dominio di sé e delle motivazioni.
L’intelligenza emotiva, iniziatica e mistica, è l’altra faccia della sottomissione dell’intelligenza all’ontologia, per potere sottoporla a un quoziente. Invano: l’intelligenza interviene facendo, secondo l’occorrenza, esige il tempo in atto, il taglio, la divisione che solo se si algebrizza diviene quoziente.
La memoria e l’esperienza non si oppongono: la cifrematica constata che la memoria è l’esperienza in atto, l’esperienza come ricerca e come impresa. Questa memoria è incancellabile, non ha disturbi, è il disturbo stesso. La memoria è disturbo, intollerabile perché, enunciandosi e scrivendosi, è memoria dell’avvenire, non del passato. L’avvenire non è ciò che viene dopo: la memoria dell’avvenire è memoria in atto, l’avvenire è in atto.
Scrive Tacito negli Annales: “Tanto è degna di scherno la cecità di coloro che credono si possa spegnere con un atto di prepotenza anche la memoria dei posteri.
In realtà, la condanna accresce il prestigio dei nobili ingegni”.
La memoria, l’intelligenza, la nobiltà d’ingegno. L’intelligenza esige l’ingegneria, arte e invenzione del fare, proprietà dell’industria, come indicano le interviste agli imprenditori in questo numero. L’ingegneria: nulla è più pragmatico dell’astrazione, che non dipende dall’algebra o dalla geometria, che non può ridursi a deduzione o induzione, non è un procedimento. La procedura per astrazione esige, facendo, il racconto, il calcolo, l’azzardo, non i dati, le sintesi, gli standard che devono esorcizzarli e – al servizio della paura dell’invenzione, dell’arte, della novità – non tollerano l’Altro e l’adiacenza.
Facendo, nessuna contrapposizione tra ingegneria e poesia, che esigono il racconto. L’ingegno è virtù del fare, virtù poetica: facendo, l’ingegno, che nutre l’industria, la struttura in cui l’Altro funziona e varia, e da cui non può essere escluso. La genialità conferma la supremazia della stirpe? L’ingegneria non esorcizza l’anomalia, la esige lungo una genetica non selettiva né elettiva, una genetica della vita e non della razza.
La genetica della parola. Questa genetica non combatte l’anomalia: quale vita, quale industria, quale città se trionfasse l’eguale sociale, ovvero se venisse abolita l’anomalia? La genetica del secondo rinascimento non toglie la genitalità dalla generazione: la genitalità secondo questa genetica, secondo la logica particolare a ciascuno, non ha più bisogno della mistica erotica occidentale o orientale, con la sua intimità e i suoi segreti, dunque non rispetta più il tabù dei bambini, della generazione, della sessualità, dell’infinito richiesti da questa imperante mistica della morte. Secondo questa genetica i genitori non devono essere aboliti in nome di un’umanità purificata e aumentata, di una sovrumanità biologica: con i genitori il tempo non finisce, perché la genealogia non può fermare il fare, e i genitori dimorano nel fare, non nella camera oscura. Secondo l’occorrenza.
“Genitore può dirsi il transfinito!”, scrive Armando Verdiglione nel Giardino dell’automa. Nobiltà dell’ingegneria.
Genialità di ciascuno in direzione della riuscita.
L’intelligenza è arte dell’ingegneria.
Per questo, se l’ingegno venisse sostituito dall’algoritmo, dall’artificio senza intelligenza, l’industria sarebbe in balia della predestinazione, presa nel sistema e nel cerchio, soggetta al ciclo della sua nascita, della sua crescita e della sua fine, come nel concetto di organismo. L’impresa non è un organismo, per questo chi collabora con l’impresa non è un organo: ciascuno è statuto intellettuale e pragmatico, è indispensabile, con i propri talenti, alla scrittura dell’impresa, non all’organigramma, l’impossibile disegno delle relazioni aziendali.
Quando le cose si fanno secondo l’occorrenza, qui sta il talento. Quando le cose che si fanno secondo l’occorrenza riescono, è l’ingegno. Con il talento e l’ingegno la prova non è da superare, secondo la mistica eroica: la prova riesce, con l’astuzia. Chi dice “Io voglio riuscire” fallisce, perché il talento, il fare, la prova non dipendono dalla volontà, non sono soggettivi. I talenti sono ignoti e sono le proprietà pragmatiche, gli strumenti pragmatici, i dispositivi pragmatici. I talenti: ciascuno come talento, oppure i talenti per ciascuno. Ciò che noi facciamo non rientra in nessuna delle nostre possibilità. E il talento sta nella prova, per potere affrontare l’occorrenza, che non è mai uguale. L’occorrenza trae con sé l’anomalia, l’ineguale, mai l’uguale.
Proprio perché esige il talento e l’ingegno l’intelligenza non può riportarsi agli algoritmi.
Sotto il canone occidentale, i talenti sono automatici, giovano alla robotizzazione degli umani. Ma quando la memoria è in atto, quando l’occorrenza esige la contingenza, i talenti, che sono ignoti, sono dispositivi intellettuali: dispositivi pragmatici, dispositivi industriali. Sono propri del fare e non del soggetto. Niente talenti senza la memoria e l’esperienza in atto, senza il racconto. Il racconto dell’avvenire, che non dipende da quel che era prima. Nessuno sa far buon uso dei talenti, che intervengono nell’abuso – cioè nell’uso mai corretto e mai definibile – proprio del fare. Non sono naturali i talenti e l’ingegno: sono quelli che l’occorrenza esige.

N. 83 - Apr. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO

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LA PAROLA NOMADE E IL DISPOSITIVO DEL RITMO

A gli inizi degli anni settanta, il termine “dispositivo” entra nel dibattito filosofico e ideologico a proposito dell’incidenza del potere politico e economico nella società attraverso le strutture linguistiche e discorsive. Jean-François Lyotard, nella sua analisi dell’“economia libidinale”, basata su una concezione del sociale come molteplicità di flussi di energie e di forze pulsionali, introduceva la nozione di dispositivo pulsionale come macchina che “ordina l’orientamento dei flussi energetici sul campo di iscrizione del linguaggio”. Lyotard giungeva a cogliere una contrapposizione tra forze e flussi sistematizzati o codificati e forze e flussi sregolati, dispersi, come nel caso dell’arte, che sfuggono alla macchina del “Dispositivo Tecnico Globale” (DTG). Secondo Lyotard, questo DTG tende, in particolare nel campo artistico e educativo, a un’accumulazione programmata e codificata delle energie estetiche e sociali, a una loro finalizzazione economica e sociale.
In un’intervista apparsa nel 1977, Michel Foucault riprende la questione: “Per dispositivo intendo una specie, diciamo, di formazione che, in un dato momento storico, ha avuto [...] una funzione strategica dominante [...]: si tratta di una certa manipolazione di rapporti di forze, di un intervento razionale e concertato in questi rapporti di forze, sia per svilupparle in una tal certa direzione, sia per bloccarle, oppure per stabilizzarle, utilizzarle”. Già nel suo libro del 1973, Sorvegliare e punire, i dispositivi sono l’insieme di tecniche discorsive di governo per controllare e dirigere le condotte degli umani che con la borghesia illuministica s’incarnano in alcune strutture, come le scuole o le prigioni. In particolare, in questo libro, Foucault scriveva che la società sta diventando una società della pena, al punto che la stessa sorveglianza diventa la pena: una società sottoposta all’occhio, alla visione, all’osservanza, che ha come modello il Panopticon, il carcere circolare progettato dal filosofo Jeremy Bentham, in cui ciascun carcerato poteva essere costantemente osservato da un sorvegliante posto in una torretta al centro, senza che il detenuto potesse stabilire se fosse sorvegliato o meno.
Per Foucault questo dispositivo segregativo, dove la sorveglianza diviene pena, è il dispositivo modello della società penitenziaria borghese, in cui le istituzioni, l’ospedale, le imprese sono permeate dall’esigenza di osservanza e di punizione, una punizione attraverso il controllo dei presunti rapporti di forze, per una gestione di quel che disturba, le “masse proletarie”, i “diversi”, i “malati mentali”. Non a caso questo modello fu applicato, tra l’altro, nel Worchester Insane Asylum, nel Massachusetts, nell’ospedale psichiatrico di San Niccolò di Siena, nel carcere di Santo Stefano, vicino a Ventotene, e nella fabbrica gestita dallo stesso Bentham.
Nella nostra epoca, questi dispositivi segregativi sono stati aboliti? Con la globalizzazione e la laicizzazione non esistono più, come la classe operaia e la società borghese, come gli stati socialisti e i vecchi nazionalismi, la destra e la sinistra? Oggi la sicurezza è garantita, idealmente, dalla casta, dalla banda, dalla compagnia, dalla comunità, dalla burocrazia. La sicurezza sociale, la tutela della salute pubblica, le esigenze della comunità, il primato del bene comune: la casta mira all’abolizione del singolare, della proprietà, dell’impresa, del diritto civile e della ragione civile. Urkommunismus, scrive Armando Verdiglione. La massa si è singolarizzata, parcellizzata, frammentata: importa il singolarismo, ognuno è sottomesso in quanto inchiodato e incatenato nella sua precarietà, pronto a essere depredato, rieducato, punito. Anche ciascuna impresa, anche ciascuna associazione. Fine dei partiti, del parlamento, della politica: la comunità ha preso il posto della società, la burocrazia, penale e carceraria, ha sostituito il diritto. La società del penalpopulismo, in cui il giustizialismo raggiunge vertici prima inarrivabili, è la società come metastasi del tribunale politico e del carcere, non viceversa, come credeva Foucault.
Nel trionfo del tribunale penale e del carcere, del penalpopulismo di stato e di governo, ognuno, nel singolarismo, si fa tribunale e carcere. E (si) fa da sé, senza bisogno di dispositivi di parola, di maestri e di medici, di ricerca e di impresa, di finanza e di scienza: abolita, idealmente, la parola, ognuno scarica e si ricarica, si informa e si conforma nella rete. Non più navigante, ora ognuno è naufrago, aggrappato al suo relitto, precarizzato, nomadizzato: il migrante è lo specchio della deportazione di ognuno, per questo è intollerabile, e gli è precluso il porto. Nella sua precarietà, ognuno deve controllarsi, osservarsi, guardarsi, interrogarsi, preoccuparsi, curarsi, stare in pena, salvarsi: questi gli imperativi dei dispositivi sociali, corpoterapeutici e psicoterapeutici, conformisti e conformanti nell’era presente, nell’era in cui tutto deve essere presente e rappresentato, osservabile e controllato, misurato e corretto per lasciar credere all’idea di un potere invisibile, iniziatico, misterico, onnivedente e onnipotente, nel cui nome s’instaura il potere presente. “Allah osserva ogni cosa” (Sura XXXIII): allora tutto va osservato, dal protocollo ministeriale alle prescrizioni mediche, dalle regole sociali alla dieta alimentare. Ognuno, da sé, da solo, da salvo, deve fare la sua parte, nella parcellizzazione, mentre la casta assicura il suo bene come bene comune, la casta che è professionista dell’anticasta. “L’allarmismo è la candidatura della tirannide al governo del mondo e la giustificazione del becchino” (Armando Verdiglione).
L’osservanza è finalizzata alla prevenzione sociale, che diventa pena anticipata, forma generale di repressione e di salvezza. Il potere di sorveglianza è preventivo, produce sottomissione e conformismo. Penalpopulismo: ogni cosa è un possibile reato, tutto diventa penalizzabile. Scrive il procuratore capo Gian Carlo Caselli (marzo 2017): “È compito del magistrato darsi da fare per migliorare la realtà che sta dietro i reati, prevenirne altri”. E il presidente cinese Xi Jinping (ottobre 2017): “Abbiamo rafforzato su tutti i piani la direzione e l’edificazione del Partito per prevenire e correggere con grande fermezza ogni manifestazione di rilassamento e di lassismo nella gestione del Partito”.
La correzione preventiva è la pena anticipata che fonda il reato. Tutto è pena: la società della sorveglianza e della prevenzione è la società penale, trova nella pena la ragione stessa dell’esistenza. Gītagovinda: “Nell’acqua del sangue degli eroi tu lavi il mondo, rimosso il male e alleviata la pena dell’esistenza” (canto I, 10). La pena dell’esistenza giustifica la purificazione. Emil Cioran: “Non mi perdono di essere nato”. Dalla pena dell’esistenza all’essere in pena per la nascita: la pena dell’esistenza è l’esistenza come pena. Tolta la vita, ognuno sconta l’esistenza, che va purificata con l’obbligatorietà del trattamento sanitario, con l’obbligatorietà dell’azione penale e con l’obbligatorietà dell’azione penitenziaria. Questa la vita come pena, che poi diventa vita penale e vita penitenziaria: per la ca- sta sovrana occorre “marcire in carcere”, fino alla purificazione, allo svuotamento, alla trasparenza, al lavacro mistico e misterico del corpo e dell’anima. Fino alla salvezza, il colmo della sottomissione, la privazione della salute in nome della sa- lute pubblica.
In nome del popolo sovrano, con il penalpopulismo il carcere non può essere abolito, anzi va incrementato, perché è il modello del dispositivo sociale, dell’annientamento della parola fino alla confisca della vita, dei suoi mezzi e delle sue proprietà, che deve colpire, in nome del bene della comunità, ogni settore della vita civile, dalla famiglia all’impresa, dalla scienza alla finanza. Dispositivo senza la parola, il carcere: incenerimento e rigenerazione, il ciclo di ogni rinnovamento. “Il vuoto in politica non esiste”: ecco gli uomini forti per colmarlo, l’uno riempiendo le carceri, l’altro trasformando l’Europa nel suo territorio di caccia. “Il diritto non tollera zone franche”: ecco il libero convincimento del giudice per turare le falle, trasformando in illegittimo quel che non era regolamentato. Quel che il discorso politico chiama “vuoto” e che il potere giudiziario chiama “zona franca” è il terreno del diritto dell’Altro e della ragione dell’Altro, dunque il terreno inoccupabile della libertà della parola, con i suoi dispositivi liberi: dispositivi della parola, ovvero dispositivi civili, politici, di associazione e d’impresa, dunque liberi dispositivi di forza e di direzione, organizzativi e finanziari, gestionali e amministrativi, di battaglia e di cura. Di- spositivi sovrani, nazionali, industriali, dispositivi di salute e di valore.
Non c’è sovranismo populista, tanto meno penalpopulista. Il sovranismo esclude il penalismo e il populismo. Sovrana è la parola nel suo principio, la sovranità è virtù del principio della parola: per ciò sovrana l’idea che opera alla scrittura, sovrana la relazione, sovrana la dimensione, sovrana la condizione del viaggio, sovrana la funzione, sovrana la struttura. Sovrano ciascun elemento della parola.
Sovranità: nessun dire sul dire. Sovrana non è la volonté générale, né sovrano è il suo potere. Rifarsi al popolo sovrano è attribuire la sovranità al nulla, a un’ipo- stasi, a un concetto illuministico-romantico, pronto per ogni dittatura. Questo sovranismo contro la parola è la forma più attuale di antioccidentalismo, antieuro- peismo, antiebraismo, anticattolicesimo. Solo i dispositivi della parola sono sovrani, consentono la sovranità dell’impresa, della famiglia, della nazione. Questi dispositivi non sono sistemi, inclusivi o esclusivi, che assimilano, parificano, omologano gli elementi mirando al controllo e all’equilibrio: come il sistema sociale, compendiato dal sistema carcerario, che riceve la sua giustificazione dal sistema giudiziario. Né i dispositivi sono rapporti, volti a risolvere la differenza in diversità per gestirla nei ruoli maestro-discepolo, padroneschiavo, medico-paziente, come fossero coppie senza la parola, oscillanti tra conflitto e armonia, alla ricerca di un compromesso fantasmatico che consenta empatia e compassione, cioè mantenga il pathos, la pena dell’esistenza, la sofferenza redentiva.
Dipende dall’ideologia della redenzione l’immigrazionismo: l’occidente, l’ebraismo, la cristianità hanno peccato, devono redimersi, punirsi, prendersi la pena di promuovere lo svuotamento dell’Africa e l’invasione dell’Europa, una migrazione senza la parola, un viaggio circolare. L’immigrato è la vittima, dunque il redentore: per il suo viaggio occorre approntare dispositivi di inclusione o di respingimento: in entrambi i casi opera- zioni di sciacallaggio, cioè utili alle caste e alle bande per trarre profitto elettorale dallo sfruttamento economico e mediatico del naufrago. In entrambi i casi, il migrante, accolto o respinto, diventa ri- generatore sociale.
Il dispositivo della parola è il dispositivo del viaggio che procede dall’apertura, non dal sistema che include o respinge. Dicendo e facendo, ricercando e intraprendendo, ciascuno è in viaggio, con i propri mezzi, con le sue proprietà linguistiche e intellettuali. Nulla è fer- mo e immobile, nessuna identità o ruolo sociale, parlando. La strada è propria del gerundio, la strada della parola. Parlando, ciascuno non può evitare il nomadismo, il viaggio in quanto intellettuale, la navigazione, l’infinito dell’itinerario. Nomadismo della ricerca e dell’impresa. Il gerundio è la migrazione senza più vittima, è il nomadismo della parola in- situabile, impadroneggiabile, dissidente. Cercando, facendo, vivendo: il dispositivo, il compito, la missione senza più pena.
Non c’è più Dispositivo Tecnico Globale. I dispositivi della parola investono il progetto e il programma, e l’intero processo dell’esperienza in ciascuna sua fase, in ciascun settore, seguendo il ritmo. Quintiliano, maestro di retorica, traduce con dispositio il greco rythmos. Il dispositivo non è un contenitore, non è la prigione. Ciascuno diviene dispositivo del ritmo, che è costituito dall’itinerario. Nell’azienda, nell’università, nell’ospe- dale il ritmo non s’impianta automati- camente, esige i dispositivi della parola. Parlando, il ritmo della ricerca e il ritmo del fare, il ritmo del viaggio in direzione della qualità.

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La burocratura e il teorema del sorriso

“E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida”: così scrive Leonardo da Vinci nel Trattato della pittura, dove chiama “lingua de’ litiganti” quella che elude “l’esperienza” e poggia sulla “falsa e confusa scienza” perché “pasce di sogni i suoi investigatori”.
Dai social network al governo, dai giornali di regime ai tribunali del popolo, questa assordante lingua dei litiganti, ipnotica e demagogica, percorre oggi la provincia Italia: è la lingua comune, lingua del nulla, fatta di appelli al popolo, di critiche al profitto industriale e finanziario, di appoggio alle dittature culturali e politiche orientali. È lingua contro la parola originaria, ma non contro il dialogo, su cui essa poggia: da Platone in poi, il dialogo è funzionale al raggiungimento dell’unità ideale, anzi, al ritorno dell’ideale unità originaria cui si riferisce ogni regime. Nella sordità.
Terminate le ideologie politiche novecentesche, il riferimento all’unità è un riferimento al nulla, che deve mantenere, idealmente, l’idea di sistema e di sottomissione a esso, per erigere il nuovo regime, anche attraverso la rete e il contratto di governo, ultimi avatar del contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, che pretese di fondare la società sulla paura della parola.
Deve convenire a questa unità ideale, che ingloba la differenza e la varietà, ogni comunità ideale basata sulla condivisione – dalla comunità dei fedeli alle social community, dalla Comunità europea alla Umma islamica – perché il buon senso, il consenso e il senso comune – “dove manca la ragione” – impediscano la comunità della parola, del fare, della scrittura. Questa comunità pragmatica, intellettuale, industriale non ha bisogno del sistema e dell’unità, si attiene alla lingua della sua esperienza e della sua memoria e si avvale della macchina come invenzione e della tecnica come arte. La memoria è esperienza che non si condivide.
Il regime, anche democratico, non può tollerare l’esperienza libera: le oppone la burocrazia amministrativa, finanziaria, giudiziaria, la nuova casta che controlla e ingabbia le associazioni e le imprese, “il ceto medio” e “le partite IVA”, ma anche le istituzioni, il parlamento, il governo. Gli effetti sono la paralisi legislativa, il blocco delle nuove opere, l’aumento degli oneri amministrativi e fiscali per le imprese, il dominio della magistratura, l’ipertrofia del sistema carcerario.
Come hanno dimostrato l’attacco giudiziario allo scienziato e scrittore Armando Verdiglione e la distruzione della sua impresa, ma anche come provano il fallimento di migliaia di aziende e il suicidio di centinaia di imprenditori – a torto attribuiti alla crisi –, in Italia il fiscalismo e il giustizialismo, ovvero la burocratura, la dittatura della burocrazia, mirano a schiacciare la libertà di ricerca e d’impresa, criminalizzando ogni invenzione organizzativa, economica, fiscale, per standardizzare, uniformare e depredare, dunque negare, l’esperienza originaria e la specificità dell’industria di ciascuno.
Quest’epoca trista e triste mira a un’Italia dell’indifferenza e del conformismo.
Occorre che ciascuno sia minacciato di reato, quindi pena, quindi di colpa: regnando la paura, nulla deve accadere, avvenire e divenire, se non perché prescritto e obbligato, perché le riforme, i cambiamenti, le metamorfosi confermino il cerchio, restino una tautologia, portino a un nuovo immobilismo. È l’epoca del nullismo, in cui la vita civile viene sacrificata, resa vita penitenziaria in ossequio all’utopia, alla volontà di pace. Ma di che pace si tratta? Nell’Italia del dialogo, del litigio perpetuo, la volontà di pace esige il sacrificio, dunque la coscienza della pena che si forma attraverso l’istituto del terrore, basato sul ricatto, e l’istituto del panico, basato sul riscatto, su cui prosperano professioni e confessioni. Con l’idea di pena, chi non vive nel terrore? Chi non soffre di panico? Con la burocratura, il senso di terrore e di panico deve essere percepito ovunque e da chiunque, ed è distribuito sotto il canone dell’assistenza e della protezione. Così il panico e il terrore condivisi, istituzionalizzati, costituzionalizzati diventano patologie da cui salvare o da cui salvarsi, contravvengono alla volontà di pace individuale e collettiva di cui la calma deve essere il segno, in assenza di sorriso.
L’idea penale è l’idea di salute mentale. In quanto malattie, panico e terrore vengono sottoposti alla medicalizzazione psichiatrica e psicofarmacologica, istituzionale o alternativa che sia, alla “falsa e confusa scienza”. In questo modo divengono questioni di salute mentale, ovvero pubblica, da condividere nella comunità ideale, anziché questioni intellettuali, linguistiche, che richiedono un’elaborazione differente e varia, incondivisibile.
Nulla più del terrore e del panico esige la comunicazione e la comunità pragmatica, anziché il dialogo e la condivisione, che dell’istituto del panico e dell’istituto del terrore sono il terreno di coltura.
Mentre la comunità della condivisione esclude il tempo a vantaggio della circolarità e della quadratura delle cose, proprio il terrore e il panico, che non tollerano circolarità e quadrature, sono, nel racconto, l’indizio che il tempo non si abolisce (il terrore) e che il tempo non si ferma (il panico) per sancire l’unità. Anziché il dialogo professionale o confessionale, il terrore e il panico esigono il dispositivo di parola temporale e pragmatico, sono due esigenze del sorriso che s’instaura con la lingua dell’intendimento, la lingua diplomatica, non la lingua dei litiganti, e con l’impresa temporale, non l’economia circolare.
Benché in catene, Prometeo non assume la pena, invoca “dei marini flutti l’infinito sorriso” (Eschilo, Prometeo incatenato). Il sorriso non è indice di benessere, non può essere inteso come bonario o accattivante. “Non c’è più la fine del tempo”: questo il teorema del sorriso, che indica l’esigenza di scrittura delle cose che si fanno e l’esigenza d’intendimento e di riuscita. L’Italia del sorriso è l’Italia della parola, non del dialogo, l’Italia dell’ingegneria e dell’impresa, l’Italia che esige un approccio intellettuale e industriale a quel che viene chiamato panico e a quel che viene chiamato terrore, anziché prenderli come pretesti per salvare o per salvarsi, i due comandi dell’ideologia della salute mentale, cioè sociale.
Con il terrore e il panico cessa la sordità e s’instaura l’ascolto: questo il sorriso dell’Italia del secondo rinascimento.