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UNO SCENARIO SENZA GIUSTIFICAZIONI PER L’IMPRESA

La mitologia corrente propone che nelle aziende ogni collaboratore debba essere motivato, altrimenti “non rende e si lascia andare, cede, si fa inerte”. Per questo sono sorti i “motivatori”, senza cui ognuno si perderebbe, non troverebbe il motivo per fare. È questo un modo di negare il dispositivo, a favore della fabbricazione di soggetti. Il motivo, invece, è un’esca del dispositivo, che si combina con il progetto e il programma dell’azienda e di ciascuno. E si avvale della narrazione del progetto e del programma.
Non si possono trascurare le condizioni di ciascun dispositivo, cioè le norme, le regole e i motivi, i termini con cui si annunciano e si assegnano i compiti per ciascuno nei modi del coordinamento e dell’organizzazione delle mansioni. Per esempio, le ore di lavoro e la retribuzione stanno fra le norme; l’orario, i turni e le mansioni stanno fra le regole; la sede, come e con chi fare alcune cose, l’assegnazione dei compiti e dove svolgerli sta fra i motivi. E, per questo, alcune cose si assegnano a qualcuno in particolare e non a qualcun altro. Chi si trova nello statuto di direzione non può ignorare quali siano le condizioni, per ciascuno.
È tra i suoi compiti non ignorare questo. Ciò implica l’interlocuzione costante, che va modulata in modo opportuno con i collaboratori e con chi lavora nell’azienda a vario titolo. Nessuno deve avere la sensazione di essere ignorato o autonomo, abbandonato o privilegiato, avversato o favorito, escluso o preferito. Anche per questo, si pone per il dispositivo di direzione la questione della clinica, ossia della cura aziendale, caso per caso.
Tra parentesi, anche nella medicina, la clinica indica la piega che prende il fare con il tempo nello specifico del caso. È un modo differente dalla patologia generale, medica o chirurgica, che prende in considerazione le malattie nella loro genericità.
La clinica come piega mette in luce la differenza e la varietà specifiche del caso, è il registro in cui ciò che accade non va ascritto né al normale né al patologico; è il registro in cui il disturbo non va espunto, ma ascoltato in quanto indice di ciò che va in direzione del valore. La clinica è compimento di ciò che si scrive ed esige l’ascolto. Con la clinica, con la sua lingua, il dispositivo aziendale, in quanto dispositivo di parola, sfocia nell’efficacia. Per il dirigente, lo statuto clinico è una necessità intellettuale.
La narrazione della ricerca e dell’impresa nei dispositivi dell’azienda trae allo scenario della combinazione dei vari percorsi aziendali. Accogliere lo scenario, accogliere gli elementi di valore che emergono dalla narrazione dissipa la necessità di ogni giustificazione rispetto a ciò che occorre fare.
Quel che accade, quel che si dice, quel che si fa non necessita di giustificazione.
Esige di cogliere, capire e intendere i suoi indici. Così, chi sta nella funzione direttiva non ha da giustificare l’operato.
E non si appella alle giustificazioni.
Il processo chiamato giustificazione è un processo religioso, che avrebbe il compito di scaricare il sentimento di coscienza dalla tensione pulsionale, convertita in termini morali in senso di pena e in senso di colpa. La direzione è pulsionale, tensionale, come pure la sua narrazione. Credere di potere o dovere scaricare la tensione varrebbe a ammettere la possibilità o la necessità di rimanere inerti, come alternativa alla direzione. È un espediente per giustificare l’indifferenza per la vita.
L’ideale termodinamico è quello di potere scaricare la tensione in eccesso e di potere, poi, eventualmente, ricaricarsi, quando serve. Questa è la mitologia dell’elettrodomestico, del robot che, una volta scaricato, viene messo in carica. Un processo a batteria. Nella vita, nella parola, la tensione è la domanda che si dirige alla sua qualità, la tensione è sovrabbondante, debordante; sempre in eccesso rispetto all’ideale economico, che punta al risparmio.
Risparmio energetico, risparmio delle risorse, risparmio delle forze, risparmio dello sforzo, risparmio di ciò che non è giustificato. In questo particolare frangente storico, l’apologia del risparmio è chiamata “sostenibilità”. Ogni azione, ogni gesto, ogni investimento dev’essere giustificato, ossia sostenibile, deve dare resto zero. Questo è il processo equazionario, processo per equazione, in cui l’investimento deve essere modulato sul risultato da ottenere e deve dare un certo risultato, per essere giustificato, per essere attuato.
Su questo si basa la ricerca preventiva del rapporto costi/benefici. Si è avuto modo recentemente di constatare come la politica che si basa sul calcolo di questo rapporto preventivo, ossia sul principio equazionario, porti inevitabilmente alla paralisi, all’immobilismo.
È inevitabile quando l’investimento è commisurato al risultato calcolato su base equazionaria, cioè è senza l’Altro.
Se dall’investimento è tolto l’Altro, allora, diventa spesa e rientra nel canone della partita doppia. E ognuno può credere di potere scegliere se fare o non fare rispetto alla convenienza calcolata. Ma l’Altro è imprevedibile e irrappresentabile, esige l’azzardo e il rischio: rischio d’impresa, rischio di riuscita, rischio di verità. L’Altro interviene come errore di calcolo. L’investimento non risponde quindi a un calcolo algebrico o geometrico, dove il tempo finisce, ma al calcolo che riguarda la direzione dell’impresa.
Il calcolo imprenditoriale non è vincolato all’idea di fine del tempo. Lo scenario dell’investimento e la sua narrazione non possono basarsi sulla rappresentazione algebrica o geometrica del tempo che finisce e sulla sua conseguenza, cioè l’economia della morte con il risparmio di ogni elemento che intervenga nel dispositivo.
Sarebbe la dissipazione del dispositivo e la costituzione di un sistema a termine, dove il tempo diventa la variabile della durata.
Il capitale intellettuale dell’azienda è il capitale intellettuale della vita, non è ciò di cui si dispone, ma l’estremo prodotto cui si approda lungo un itinerario di qualità.

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LA PAROLA, L’ESPERIENZA COME DISTURBO, LA CURA

L’idea di reciprocità propone un bilancio in pareggio, una misurazione, una possibile contabilità delle cose che si dicono, che si danno e si ricevono, del loro valore, in uno scambio che deve essere, quindi, alla pari.
Uno scambio senza disturbo. Uno scambio senza aiuto, dove al massimo può intervenire l’altruismo come modo di rappresentare l’Altro e sé, facendo coincidere le due rappresentazioni.
Con l’altruismo, avviene l’obiettivazione dell’Altro. Ma, non c’è aiuto in questo. L’aiuto sta in ciò che interviene senza rappresentazione, in ciò che si dice e si fa, in ciò che giunge nuovo. Dal “nuovo” giunge l’aiuto, per la via dell’Altro. Giunge l’indicazione di quale sia il modo opportuno, in quel preciso caso, per trarsi d’impaccio, per capire, per intendere, per fare, per la riuscita. Questo modo dell’aiuto è fuori dal territorio della conoscenza. È fuori dalla coppia canonica maestro-allievo, sapientediscente, medico-paziente, dove chi sa deve riversare il suo sapere su chi non sa, perché faccia le cose che deve fare, che la conoscenza suggerisce, che il canone suggerisce, per il caso ritenuto generale, il caso della letteratura, il caso riportato in letteratura, che ognuno spera sia anche il suo.
Negli apparati sanitari istituzionali, raramente c’è chi possa dedicare a un caso specifico il tempo necessario allo svolgimento, all’articolazione e alla scommessa di un’invenzione, adducendo per questo la mancanza di tempo e i protocolli. Nessuno ha tempo perché le cose si rivolgano al caso specifico, che è fatto rientrare nel caso sanitario generale.
E, allora, l’appello è alla reciprocità, alla specularità, nella speranza che ciò che si applica a un caso, come cura, si possa applicare anche a un altro caso.
L’idea del reciproco ha in sé l’idea che il tempo è già finito. L’idea di due casi analoghi, simili, identici comporta l’idea che il tempo sia finito, che le cose siano fisse, l’idea di vivere in un mondo immobile, in assenza di domanda, in assenza del viaggio della domanda, nell’ontologia, dove le cose sono, ma non divengono. E la cura sarebbe il ripristino dell’essere. Ma, vivere non è essere. Per ciascuno, si tratta di vivere.
Come vivere. Che cosa è opportuno per vivere. Cosa esige vivere.
Vivere è in assenza di sistematica.
Vivere trascorre tra l’accadere, l’avvenire, il divenire e, dunque, è senza sistema. È senza la finitezza, esige lo sforzo, l’invenzione, esige tenere conto della domanda, delle istanze, del progetto e del programma di vita, una miriade di cose. Esige di trovare il modo, perché questa miriade di cose, nella loro combinatoria, giunga alla qualificazione, alla qualità, alla riuscita, al valore. Qui ha sede la cura: nel cammino, nel percorso, nell’itinerario, nel viaggio che si rivolge al valore.
La cura non è il rimedio all’andamento irregolare del viaggio, è modo temporale del viaggio, cura intransitiva. C’è un grosso fraintendimento negli apparati, a proposito del termine cura, che ne fa una sorta di rieducazione, una sorta di contenimento e di correzione delle svolte, delle sbandate: la via del viaggio non è la via retta, non è rettilinea. Non segue l’intenzione o la prescrizione. Avviene in un altro modo, avviene con aggiunte, lacune, variazioni, differenze, avviene altrimenti da ciò che ognuno presume.
Ma questo non introduce l’alternativa fra giusto e sbagliato, né che bisogna applicare la giustezza.
Questo è il retaggio del mito greco di Procuste, personaggio che stava nei pressi di Atene con il suo letto di contenzione e misurava i viandanti che arrivavano, perché fossero conformi alla misura comune.
Chi era troppo corto veniva allungato, chi era troppo lungo veniva accorciato, in modo che corrispondesse alla misura. Non è questo il criterio della cura: portare tutti alla stessa misura.
Vivendo nella parola, è altra la cura, che non ha la caratteristica di rappresentare la soluzione.
Sempre più è diffusa la credenza di dovere individuare il problema e, una volta individuato, applicare la soluzione. Questo è il modo proprio allo zelo del funzionario che si deve mostrare efficiente. C’è una disfunzione, la toglie, c’è un problema, lo toglie, perché deve ottenere il massimo con il minimo sforzo. Il funzionario zelante, il funzionario che ritiene di essere esso stesso l’apparato che rappresenta, la macchina, il sistema, il meccanismo. Questa è la mentalità meccanicistica, dove la parola è tolta, e il riferimento è l’apparato termodinamico, il contenimento dello sforzo, la ripetizione della dinamica, il contenimento dell’informazione; le cose devono essere ridotte al minimo, per garantire l’efficienza del sistema. E quindi deve essere trovata e applicata la soluzione.
Questa è la modalità algoritmica, che è sempre più diffusa grazie alla tecnologia cibernetica e informatica. Nella modalità algoritmica domina proprio ciò che contrasta la parola, le sue virtù e le virtù del principio. Nell’algoritmo è essenziale l’assenza di ambiguità e di dubbio. E, quindi, già nella promessa algoritmica c’è la negazione del due.
Il due è alla base della procedura della parola. Le cose procedono dal due e si rivolgono alla loro qualità. Questa è la procedura della parola.
Nella modalità che tenta l’applicazione della soluzione al problema, il due deve essere tolto, perché non deve esserci ambiguità. Non ci deve essere contraddizione, ma unità. Ci deve essere finitezza del processo, con un tempo limitato, applicazione dell’algebra e della geometria del tempo, e l’univocità del risultato, pur nella ripetizione.
Impossibili la variazione e la differenza, impossibili l’intervento artistico e l’intervento culturale; impossibile l’altro modo. E, ancora, importa il determinismo. Non ci devono essere né dubbio, né equivoco, né menzogna, né malinteso, ma la riproduzione dell’identico.
Tutto ciò nega che possa avvenire la cura, nega che possa avvenire l’esperienza, perché l’algoritmo è una scorciatoia verso il risultato prestabilito e prefissato. Il fatto è che questa modalità non avviene soltanto nel terreno dell’informatica, ma ha ispirato le linee guida della medicina moderna, con la standardizzazione diagnostica, con l’applicazione di un codice unilinguistico, perché le diagnosi possano essere identiche su tutto il pianeta e consentire, l’applicazione delle stesse linee guida alla cura. Questo metodo doveva facilitare diagnostica, terapia, cura, secondo il canone organicistico, ma ha prodotto un altro inconveniente: la creazione del malato professionista.
Il malato che “sa” qual è il suo male prima ancora di averlo indagato, prima ancora di avere avviato un dispositivo di ricerca intorno a ciò che non va e a ciò che non funziona, per capire quali interventi attuare nei dispositivi del vivere.
Il male è comune, è generale e nessuna importanza è accordata alla ricerca inerente la combinatoria, per accogliere, capire, intendere quel che non va e quel che non funziona.
Questa semplice formulazione – qualcosa non va e qualcosa non funziona – instaura la ricerca intorno alla logica della parola e alla sua struttura, perché esige la ricerca su ciò che nella parola fa da causa, quindi sull’oggetto nella parola, sulla provocazione da cui muove la domanda, per esempio; su come funziona la domanda che si avvia e come, nonostante il funzionamento, quel che funziona possa non andare secondo le aspettative; qualcosa non va, qualcosa non funziona, dunque, qualcosa “non”.
Qualcosa va, qualcosa funziona, qualcosa non va, qualcosa non funziona.
Non c’è più sistema, non c’è più sistema di riferimento, ma funzione di “non”. E l’occorrenza dell’Altro.
La questione sta nella parola. Quel che non va e quel che non funziona giunge a dirsi. Come si strutturano le cose, dicendosi? Che cosa si dice, parlando? Qualcosa funziona e qualcosa non funziona. Le cose non sono le stesse, le cose, dicendosi, si piegano.
Dunque, interviene la molteplicità.
Quale educazione, quale insegnamento e quale formazione fornisce l’apparato sociale per chi si trova a ascoltare chi racconta quel che non va e quel che non funziona, partendo dall’idea di raccontare i suoi mali, i suoi beni, le sue vicende, le sue avventure, le sue disavventure, ignorando che ciò che si pone come disavventura può divenire fortuna e avventura a condizione di non fermarsi lì, ma di proseguire, di accogliere quanto sta avvenendo nel dispositivo della solidarietà. E non si tratta dell’assistenza, dell’altruismo, dell’empatia, che dovrebbero consentire di mettersi nei panni altrui, per fare una melma comune.
Come uscire dagli impicci, quale aiuto, mettendosi nei panni altrui? Nessun aiuto. Impossibile che s’instauri l’Altro, se l’ascolto è impedito, se la procedura, il processo, la processione, la strutturazione sono stoppati dall’idea di aver già capito, anzi, di sapere già, di dovere applicare la soluzione.
La soluzione è la mia fantasia su di te, la mia fantasia sulla cosa che mi hai detto, la mia fantasia sulla cosa che tu hai fatto, la mia fantasia sulla base di ciò che ho sentito dire, ossia il pettegolezzo.
Tutto ciò vale a creare i malati professionisti che credono di potere curarsi da sé.
Con la soluzione, si applica l’idea della meta alla domanda, l’idea di fine.
Un’idea di fine del tempo. È allora comprensibile il dilagare dell’etichetta del male dell’Altro chiamato depressione. Se ogni altruista applica la conferma della fine del tempo all’idea di male che gli viene riferita, non c’è più medicina. C’è una concezione sanitaria apocalittica, ma non c’è la medicina quale ricchezza dei mezzi e degli strumenti della parola, per la scommessa di vivere. Scommessa, non già promessa.
Che s’instauri la scommessa di vivere è già una cosa straordinaria, quando dilaga come male del secolo la negazione dell’istanza di vivere.
L’abolizione del disturbo trae con sé l’abolizione della domanda, con, l’abolizione del paradosso del desiderio, del godimento, dell’effetto di verità.
Togliete la domanda e avrete l’inerzia.
Con l’analisi, la domanda è tensione, è sforzo. Domanda è il modo linguistico, narrativo con cui si formula la questione pulsionale, tensionale della vivenza.
Non c’è vivere senza la lingua, senza la parola, senza la domanda, senza il progetto e il programma di vita, senza l’esperienza in cui le cose si dicono e si rivolgono alla cifra.
Di cosa si tratta nel disturbo? Il disturbo è lo sbaglio di conto nella struttura sintattica della domanda. È la svista nella struttura frastica nella domanda, è l’errore di calcolo nella struttura pragmatica della domanda.
Il disturbo è assoluto. È strutturale. Il canone non precede la parola. Il canone è il rimedio dei fautori della sistematica del discorso, dei presunti conoscitori del mondo, rivolto al disturbo strutturale che avviene parlando. Il disturbo è parlando e facendo. Per abolire il disturbo occorre eliminare la parola. Questo è il tentativo che sta avvenendo a livello planetario nella saldatura tra canoni morali, spirituali, ideologici e tecnologia, per una visione del mondo, per il pensiero unico.
La nostra esperienza è l’esperienza come disturbo, l’esperienza dove avviene il disturbo strutturale, cioè lo sbaglio di conto, la svista, l’errore di calcolo, senza rimedio, perché intervengono nella metafora, nella metonimia nella catacresi, nella memoria, nella scrittura delle cose. Quanto dico è testimonianza e frutto dell’esperienza della parola originaria che con Armando Verdiglione si chiama cifrematica, esperienza che non è né verificabile né falsificabile. Esperienza, quindi, originaria. L’atto è originario, l’esperienza è originaria, non c’è riproduzione dell’atto, non c’è riproduzione dell’esperienza. Allora, la questione della cura e dell’esperienza come disturbo è la questione della parola, la questione della parola originaria. La cura non toglie il disturbo strutturale della parola.

N. 82 - Feb. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO

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Dalla solitudine alla salute. La vera cura

L’idea di salute dell’epoca si fonda e si regge sul principio dell’amore transitivo e mira alla salvezza dell’Altro, scambiata per salute. Il discorso della salvezza ruota intorno all’idea dell’essere umano, ora sano, ora ammalabile, ora guaribile, ora mortale.
Il riferimento di questa idea di salute è la mortalità. E, considerata una possibilità umana, questa salute rientra tra i casi di mortalità, avendo il suo limite nella morte. È celebre il motto cinico del medico secondo cui “di qualcosa bisogna pur morire”.
L’idea della mortalità e della morte come certezza costituisce lo sbarramento alla salute. Sia nella teologia della salvezza sia nella medicina di quest’epoca, si tratta della salute relativa, non della salute assoluta.
La salute relativa ha come riferimento il male e la morte.
La relativizzazione della salute rispetto alla morte è ciò per cui sorge la tecnologia della salute e della cura: per abolire la morte. La morte diventa la bussola dell’umano.
È il frutto del relativismo culturale che dilaga con la socializzazione dell’arte, della cultura, della scienza, con la socializzazione della differenza, che è intesa non come differenza assoluta di ciascuna cosa, anche da se stessa, ma come differenza di una cosa da un’altra o di ognuno dagli altri, con paragoni e confronti relativi. Ma nella parola il confronto è con l’assoluto e il paragone è ironico, perché ciascuna cosa ha uno statuto particolare e specifico.
Imparagonabile e inconfrontabile con altri.
La salute nella parola non ha riferimento o paragone con la morte e, quindi, non mira alla sua abolizione.
L’esperienza della parola non attua nessuna guerra di liberazione dalla morte, nessuna crociata contro la morte, perché la morte non è la direzione o il destino dell’esperienza.
La salute non è un bene da mantenere o che si possa perdere, che debba essere stabile per garantire un regime di vita sana, ma è istanza della qualità, che esige il progetto e il programma di vita.
È la salute che sta in un processo, non nell’essere, non in una situazione, né nell’ontologia. Il processo della salute è vitale. È il processo che sta nella tensione della vita, nel viaggio, nella tendenza, dove ciascuna cosa accade e diviene in direzione del valore. La salute è l’istanza del valore. Esige la valorizzazione, non la denuncia, la denigrazione, il lamento delle cose che non vanno o non funzionano come idealmente dovrebbero.
Il processo di qualificazione è processo di salute, pulsionale; e coinvolge il progetto e il programma, che non sono innati; nessuno nasce destinato a qualcosa, ma è la domanda, con il suo svolgimento, con la sua articolazione, con le vicende del suo corso, che aggiorna progetto e programma nella rivoluzione verso la qualità: essi non sono spiritualmente destinati alla qualità.
Ciò contrasta con l’ideologia vigente, che giustifica chi, avendo un compito da svolgere, avendo affidati una mansione o un incarico, dice: “No, questo non posso farlo, perché non sono portato”.
Queste giustificazioni sono assegnate a sé e all’Altro da genitori, insegnanti, psicologi dell’orientamento, medici, e così via, ognuno vi ricorre: chi non è portato per la matematica, chi non è portato per le lingue straniere, chi non è portato per lo studio, chi non è portato per il lavoro, chi per far fatica, chi per ragionare. Ma chi “è portato”? E chi sarebbe il portatore? Questa idea del portatore ha la sua ragione nel daímon innato del soggetto, il soggetto portato, debole, incapace e irresponsabile, anche malato.
Soggetto de-portato verso qualcosa che bisogna sia facile facile, senza sforzo e senza fatica. Deportato alla morte. In questa idea d’innatismo, di predestinazione, di fatalismo agisce la salute sociologica, antropologica, religiosa: la salute sociale.
Nella parola, la salute è globale, è salute della vita, in ciascun istante, nel gerundio. L’istante non è pensabile, né immaginabile come cronologia. La cronologia compie l’economia del tempo e dell’istante, e quindi fonda la salute relativa. La salute nel gerundio è senza economia, perché parlando e facendo sono impossibili la contabilità e l’economia.
L’intero, l’integrazione, la solitudine, la solidarietà non sono tappe o fasi del viaggio, sono proprietà, virtù e indici del dispositivo di salute, che con la parola si avvia. La salute non è prescritta, né promessa, non è un bene che possa essere erogato o comminato da altri, non segue il principio dell’amore transitivo o dell’altruismo. Non c’è sciamanesimo.
Importa il viaggio, non dove arriva.
Importa nella sua interezza, nella sua globalità, nel suo corso, nel suo sforzo, non la sua fine. L’idea di sufficienza toglie la salute. Per la salute occorre il criterio della qualità che esige l’analisi con il teorema: “non c’è più sostanza”, per ciascuna cosa, con la dissipazione della credenza nella sostanzialità, nell’origine, nella fine del tempo.
Il processo intellettuale dissipa anche l’idea di sé e l’idea dell’Altro, l’idea del nulla come idea relativa.
Esige lo sforzo, l’afasia originaria, l’invenzione e la reinvenzione del glossario e del dizionario, come glossario e dizionario della salute.
È processo di affinamento linguistico che si attua con l’analisi e con la cifratura: con la teorematica e con la clinica, non c’è più cosa sostanziale, né l’idea di male dell’Altro, di malessere, né il lamento su ciò che non va come dovrebbe, né l’idealità sul modo corretto in cui le cose dovrebbero svolgersi.
L’apparato diagnostico medico che si arricchisce ogni giorno di disturbi nuovi non tiene conto della natura del disturbo, ne fa una classificazione su base relativistica e statistica, con un criterio generale, senza tenere conto, per esempio, che non ogni aritmia cardiaca corrisponde alla sua etichetta generica, non ogni disturbo della pressione o del sonno è uguale in una persona e in un’altra. Non è lo stesso disturbo.
Non ha la stessa causa. La conferma è data dal racconto. Non c’è mai un racconto uguale a un altro. Bisogna ascoltare, capire, intendere la ricchezza narrativa che ha il disturbo come struttura del suo svolgimento.
Il disturbo si scrive: sta qui la ricchezza con cui prende avvio il processo di salute.
Invece, con la negazione della parola originaria e dell’oralità, cresce il catalogo dei mali, cresce anche il “business” connesso a questo catalogo, cresce anche la somministrazione di sostanze, ma non cresce, invece, l’elaborazione che riguarda la cura, la terapia, la salute. È paradossale che, proprio quest’epoca che si definisce della comunicazione, punti ad abolire l’oralità, la lingua, la narrazione, il racconto, a favore del nominalismo tecnico, per definire sempre più numerose sintomatologie. Ogni sintomo è etichettato come male.
In quest’epoca organicistica, scientista e tecnologica, importa la diagnosi, non la cura. Importante è la diagnosi da mettere in elenco, la cura può anche non riuscire, ma seguirà il protocollo, che impedisce l’arte e l’invenzione, rispetto all’esigenza.
Ma, se è abolita l’arte – la variazione, il cammino artistico –, è abolita anche la terapia, che è la vicenda del cammino artistico. Il cammino artistico procede dall’apertura in direzione della qualità. La solitudine è virtù dell’oggetto, che è condizione del cammino e del percorso, ovvero del viaggio, procede dalla sua forza, dalla pulsione, che ha la sua formalizzazione linguistica nella domanda. La domanda è inerente il progetto e il programma di ciascuno.
Con la domanda, la tensione, l’istanza della qualità, è la salute.
Ciò esige il dispositivo della parola, dove la domanda di ciascuno si svolge, si articola, ha il suo corso, con le cose che si dicono, con le cose che si fanno; è dispositivo di ricerca e d’impresa, dove le cose si dispongono: accadono, avvengono, divengono. Un dispositivo mobile, sessuale, non riproducibile. Non sperimentale.
Tutto ciò nulla ha a che vedere con l’ideale psicoterapico. La parola è negata da ogni dottrina, ideologia o disciplina, perché impedisce l’ideale sperimentale della riproducibilità degli atti, impedisce l’economia della cura, la sua standardizzazione, impedisce l’applicazione dello stesso modello, dello stesso schema.
L’economia del tempo fonda l’economia della cura. L’ideologia vigente della cura è altruista: la cura breve, la cura finalizzata, la cura economica, sul modello della guerra al male; è la cura contro il disturbo.
La cura che, presumendo la conoscenza di quel che non va nel “meccanismo mentale”, mira al disturbo, per abolirlo. Questo non è il modo della terapia, ma della pratica venatoria. Si tratta della caccia al disturbo per estinguerlo. E, una volta abolito il disturbo? Ne sorgerà un altro, perché il disturbo è irrinunciabile.
Il disturbo è della parola, è la sua struttura, la sua memoria.
S’istituisce sulla variazione artistica e sulla differenza culturale. Il disturbo assicura la ricchezza narrativa.
Da cosa s’incomincia a parlare? Da quel che non va e da quel che non funziona. Da ciò che, intervenendo, fa incominciare la conversazione, la narrazione, il racconto. Il racconto è un registro di scrittura del disturbo. Registro infinito.
L’enciclopedia e il vocabolario definiscono disturbo qualcosa che rompe la quiete, incaglia la scorrevolezza funzionale di una macchina, di un apparato sociale.
Il disturbo procede dal caos, virtù del principio, dalla simmetriaasimmetria, della relazione originaria.
Come togliere il disturbo? C’è chi dice: “Tolgo il disturbo”, e se ne va. Dove va? Molti che tolgono il disturbo, se ne vanno per sempre.
Il disturbo è essenziale alla parlanza, per ciò che integra l’afasia originaria e la lingua nel dispositivo di parola. La parlanza è impossibile da conoscere, impossibile da prevedere, è la combinazione dell’idioma e della domanda nel dispositivo di salute, dispositivo di ricerca, dispositivo d’impresa, dispositivo di valorizzazione. Con la parlanza, è vana l’idea dell’intenzionalità e della volontarietà degli atti, della loro ontologia e standardizzazione; è vana l’assegnazione di un’origine all’atto.
Ora si può capire quale sia la cura nella parola: cura temporale, cura immunitaria, cura in assenza di peso, in assenza di carico, in assenza di presa in carico.
Nulla e nessuno può essere preso in carico; con l’analisi, non c’è più carico. La cura procede con il teorema del peso che non c’è più e con l’immunità data dal tempo. La cura non ha fine di bene, non deve cancellare il male. Non è una sanatoria e non ha la sua sede nel sanatorio.
È la cura che consente di trovare il modo di vivere nel gerundio.
Non è la cura contro il disturbo, ma è la cura per non togliere il disturbo.
Questa è la vera cura.