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L’INCONTRO DEL SEMPLICE

Nella vita, nella parola, la famiglia è il regalo della sorte, della sorte ironica, da cui procede il viaggio, è la traccia intellettuale per ciascuno: non è la famiglia ideale di appartenenza, la famiglia chiamata umana.
“Ognuno”, “ogni uno” che si pensi, s’immagini, si creda nel solco di questa appartenenza, ha un’idea di sé, un’idea genealogica. Questa idea compie l’economia del sangue (pensato come veicolo dei caratteri genetici o dei valori spirituali), che circola nella parentela, nella tribù, nel gruppo, lo distilla, lo tramuta da impuro a puro.
Con l’economia del sangue i conti vengono pareggiati o fatti tornare, rivendicati o saldati, per soddisfare un’idea di giustizia personale o sociale: non la giustizia assoluta, ma la giustizia di convenienza. La vita trascorsa in cerca dell’altra vita, più conveniente, è una vita in pena, una vita destinata. E, sotto l’idea di destino, sotto la volontà dell’Altro (l’Anánke, il fato dei greci), ognuno è indotto a trovare, in ciò che accade, segni, prove e dimostrazioni che confermino il fatalismo negativo o, più raramente, quello positivo.
Ognuno cerca dove e quando abbiano sbagliato lui, i genitori, gli antenati. E così edifica quello che la psicologia chiama il “vissuto”, se ne fa carico, se ne munisce (munus, il carico, il peso, in latino), cioè non è più im-munus.
Questa l’im-munità: l’assenza di carico, di peso. E, così, carico del vissuto, ognuno se ne nutre, ne è vincolato: è un sopravvissuto.
Ma nella vita, nella parola, nessuno può guardarsi indietro ripercorrendo la strada “fatta” per pesarla e giudicarla.
La natura della strada della vita è che non è mai “fatta”, è la strada del gerundio. E nessuno sbaglia facendo: facendo, incorre nell’errore di calcolo, ovvero nell’arte e nell’invenzione.
Questa è la strada della vita: il gerundio dell’esperienza, il gerundio della memoria. Impossibile cancellare il gerundio, per ragioni stesse di struttura, impossibile cancellare la memoria. E solo animalizzandosi, divenendo un divino agnello sacrificale, sacrificante e sacrificato (supporto del funzionamento del sistema, della famiglia come sistema, dell’azienda come sistema, dell’istituzione come sistema), la vita è vita destinata, al modo eroico o autonomo, vita fatale, osservante della volontà dell’Altro, rispettosa del vissuto, del fatto. Le formule del precetto (“sta scritto”, “è destino”, “ho fatto”, “ho vissuto”) cancellano il gerundio: e si sacrifica la vita lungo il solco del dio/animale che si rivela al mondo e va in croce.
La famiglia che ha bisogno dell’animale sacrificante e sacrificato a fin di bene è famiglia divina. E non c’è famiglia divina, sacra o pagana, che non sia presa a modello da ogni famiglia “umana”. Lo constatiamo nelle mitologie, nelle dottrine misteriche, religiose, politiche. L’alternanza di umano mortale e di divino immortale connota la vita ideale. E la “scelta” dell’animale da assumere come membro della famiglia, al posto di un parente o per i giochi infantili o per la compagnia, si attiene all’obbligo dell’alternanza fra mortalis e immortalis e dell’alternativa fra l’animale devoto e l’animale omicida, fra l’amico e il nemico. È scelta obbligata. L’alternanza e l’alternativa contrassegnano ogni viaggio iniziatico alla ricerca dell’altra vita, della vita ideale.
Nell’idea di sé, come eroe o come autonomo, ognuno assume e rappresenta la volontà del fato nel proprio viaggio iniziatico, dove il male si tramuti nel bene, circoli, trovi la quadra e si risolva. Nel luogo comune filosofico, psicologico, religioso, il viaggio iniziatico incomincia dalla relazione con se stesso. Ecco gli imperativi della volontà ideale di relazione, di relazione fra sé e sé: conosciti (conosci te stesso), stùdiati, pènsati, pèsati, giùdicati, cùrati, correggiti, tortùrati, tormèntati, punisciti e ti salverai. Questa relazione fra sé e sé è anche relazione fra sé e l’Altro e fra l’Altro e sé. Una volta conosciuto, trattato e curato, l’Altro viene assorbito, così da realizzare il comandamento religioso, il precetto della volontà ideale: “Non avrai Altro all’infuori di me”, l’Altro è espunto a favore dell’Unico. Nel luogo ideale, ognuno ha un’idea di sé come dio/ animale misericordioso o terribile: “Io sono buono e caro ma, se ricevo uno sgarbo, divento cattivo, mi arrabbio”.
Appunto: la rabbia, l’animalizzazione, il modello divino.
La vita, la parola, non è un luogo ideale né lo strumento per relazionarsi, non localizza, non situa, non mette in pena, nel paragone con gli ascendenti e i discendenti della genealogia. Nella parola, ciascuno dimora nel gerundio, nella tendenza inesorabile delle cose verso la loro scrittura. La condizione di questo processo linguistico narrativo è un punto che Armando Verdiglione chiama sembiante: provocazione al dire, al fare, al racconto e ostacolo alla parola facile, scontata, consumabile, fruibile.
Nessuno vede il sembiante, nessuno lo conosce, lo tocca o lo prende; interviene quando meno ce lo si aspetta (è impertinente, straniante, aberrante) e nell’interlocuzione con chi non ci si aspetta; non sa di gerarchie né di competenze, non risponde alla volontà ideale. Per ciò è la garanzia di una procedura non penale né penitenziaria. La procedura intellettuale è questa: per la provocazione del sembiante, qualcosa si enuncia, l’enunciazione tende a scriversi, e se non si carica di convenzioni, di cerimoniali, di protocolli, c’è la chance che le cose si pieghino in maniera imprevista e incontrino il modo, il tono, il timbro, il verso per scriversi come caso di qualità.
Non s’incontrano i parenti, non s’incontra la famiglia, non s’incontrano le maschere, uomo o donna che siano.
L’incontro e l’interlocuzione intervengono sul terreno linguistico nel processo narrativo pragmatico, dove le cose si fanno e si scrivono. È l’incontro del semplice. E non è facile.

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DOVE APPRODA IL VOLO DELLE STELLE

“Le stelle volano come lucciole secondo il loro numero”. Con questo annuncio esordisce il capitolo La costellazione, l’adiacenza, il caso del libro di Armando Verdiglione Urkommunismus.
La paura della parola. Per l’autore, “numero” (il numero della vita, il numero che nessuno sceglie, il numero che non si pensa di avere o di essere) vale anche “particolarità”, “dissidenza”. Le stelle (le cose, le parole) entrano nei nostri sogni, negli incubi, nelle curiosità e nelle costruzioni a occhi aperti: volano. Le comprendiamo, le tocchiamo? Vanno di qua e di là, vanno e vengono. Stravaganti, extra-vaganti, come lucciole.
Chi può fermarle? Volano forse per noi? Narcisismo delle stelle. Nel loro volo c’è una soddisfazione non economizzabile.
Le stelle non sono prese nella nostra comprensione perché seguono la dissidenza della parola, una “sede” che non è mai fissa, non è mai immobile. Dis-sidenza: le stelle non risiedono, ma dis-siedono. Il loro volo segue la dissidenza. Volano non nel modo che noi vogliamo, ma nel modo della loro tensione linguistica, il modo del gerundio: volano volando.
Stravaganza del volo. Assenza di convenzionalità, di canone.
Noi “sentiamo” il volo delle stelle, delle cose, delle parole: questa la sensazione che mai diventerà sentimento, soggettività! Sentiamo l’anomalia del loro viaggio, della combinazione di giochi e invenzioni e delle combinatorie linguistiche, che non lasciano niente e nessuno al suo posto (vivendo, parlando, incorriamo in equivoci, ambiguità, malintesi; in sbagli di conto, sviste, errori di calcolo): queste le sensazioni della vita, nella veglia, nel sogno, nell’incubo. Perché sogniamo di volare o di precipitare? Per il nomadismo delle cose e delle parole.
Il nomadismo intellettuale.
Niente più del sogno ci fa constatare che le parole non stanno al loro posto, non stanno nella convenzione di un ruolo grammaticale normativo, di un ruolo sociale. Negli scritti fondatori delle dottrine misteriche di oriente e di occidente, il tentativo di situare le parole dei sogni in un ordine sacrale per tutte le convenienze viene affidato alle caste di funzionari e professionisti che lo esercitano attraverso l’interpretazione dei sogni.
Nella Bibbia, leggiamo la storia di Giuseppe, schiavo in Egitto, che risponde alla domanda del faraone sul significato dei terribili sogni che lo avevano angustiato nella notte.
Gli indovini e i sapienti egiziani di corte interpellati in precedenza non erano riusciti a trarne vaticini che tranquillizzassero il faraone: erano invischiati nel blocco mentale della paura di perdere la sedia a corte.
Giuseppe non era egizio, non apparteneva alla casta, era ebreo, un nomade che aveva attraversato il deserto leggero, con il solo bagaglio di una cultura dissidente dalle burocrazie vigenti nel potere egizio. E Giuseppe dà un’altra lettura degli elementi del sogno. Non ha paura di perdere uno scranno, un seggiolino, perché non ce l’ha. Nomadismo storico il suo, perché nomadismo linguistico.
Constatiamo la navigazione nomade anche nel processo intellettuale proprio dell’umorismo o del witz: qualcosa sta al posto di qualcos’altro, in un processo di sostituzione per condensazione (per scambio sintattico, e qui c’è l’aumento di valore, l’auctoritas, l’elaborazione) o di sostituzione per spostamento (per scambio frastico, e qui il valore abbonda: è l’infinito della serie frastica, di trovata in trovata). L’ebreo Freud, nel suo testo intorno all’interpretazione dei sogni, indica la condensazione e lo spostamento come procedure linguistiche del sogno. È l’altra lingua, la lingua della ricerca, la lingua del patrimonio.
Ma oltre questa formulazione Freud non va: i dispositivi che introduce nelle strutture che sorgono lungo l’insegnamento e la formazione della psicanalisi, fra Vienna, Parigi, Zurigo, gli USA, Londra, restano dispositivi “patrilineari”, dispositivi rispetto all’autorità. È tentato dalla parola cattolica, dal lusso del suo pragma (dalle virtù dell’indulgenza, dell’umiltà e della generosità), ma avverte come pericolo la libertà dell’influenza della parola, e se ne ritrae, per non mettere in questione l’autorità personale, soggettiva. Così Freud manca il registro dell’impresa intellettuale, il registro dell’influenza, della fluenza, dei flussi. E rimane un fondatore che sente la sua autorità di “archeologo” dell’inconscio messa in pericolo dagli allievi che aspirano a riformare il testo del maestro (come nel caso di Jung).
Occorre arrivare agli anni settanta del novecento perché emerga sullo scenario internazionale un’altra elaborazione della linguistica del volo delle stelle: è quella di Armando Verdiglione, intellettuale e imprenditore, che introduce un altro registro per la scrittura del volo, oltre al registro sintattico e al registro frastico: è il registro dello scambio pragmatico, lo scambio, per dir così, inventivo, nell’intersezione di condensazione e spostamento. La lingua di cui si tratta qui è la lingua altra, la lingua dell’arte e dell’invenzione. E la linguistica del viaggio è questa: l’altra lingua e la lingua altra. La dissidenza non diventa una controlingua, se non per una parodia, dove la vanità si aggiunge alla vanità. Non aspira a soppiantare un sistema di padronanza linguistica per instaurarne un altro, miglior padrone del precedente, restando nel canone dell’alternativa padroneschiavo, amico-nemico. La direzione del viaggio secondo la dissidenza non va verso il luogo ideale dove, con la calma raggiunta, non si sentano più il volo e il vento delle stelle, il loro “disturbo”.
Il nostro viaggio sulle ali del vento delle stelle, delle cose, delle parole non va verso l’Uno, non è nel verso dell’Uno, nell’universo. Infatti, l’annuncio con cui abbiamo esordito prosegue così: “Le stelle volano come lucciole, secondo il loro numero. Non corrono verso l’uno”. Ci apprestiamo a dormire senza l’assistenza degli indovini, senza il conforto delle loro soluzioni, il sonno arriva ed ecco che l’universo non c’è più, perché il sonno assegna alla lingua altra (la lingua del sogno e della dimenticanza) il “passaporto” del viaggio. Anche il silenzio, come il sonno, come la contingenza, come la sessualità, assegna alla lingua altra, la lingua dell’impresa, la lingua diplomatica, il passaporto di un viaggio in direzione della novità, della novella, del brevetto, dell’opera d’ingegno. E le cose non corrono più verso l’uno (verso l’unità), verso l’utopia, il “puro nulla” delle dottrine misteriche di oriente e di occidente, il luogo puro dalle sensazioni del volo e del vento delle stelle.
E tutta una letteratura utopica, sorta per il fascino esercitato dal luogo puro dal disturbo della parola, affolla gli scaffali delle biblioteche del mondo.
Così per le dottrine orientali, dai Veda al buddhismo, al confucianesimo.
Così anche per il poema babilonese Enuma Elish (XII sec. a.C.), la narrazione della teomachia, della guerra degli dei che ha dato origine alla creazione del mondo: il padre degli dei scatena la guerra perché disturbato dalle voci dei suoi figli che giocano, e per recuperare il silenzio del nulla primordiale. Negli Atti degli apostoli (I-II sec. a.C.), Paolo di Tarso, abbacinato dalla visione del puro nulla di Dio e caduto da cavallo, fa la sua conversione da persecutore dei cristiani a moralizzatore di se stesso e del popolo di Dio, inaugurando la lunga fascinazione del radicalismo e del purismo che passa per Agostino d’Ippona per arrivare a Lutero e oltre, fino al radicalismo e al purismo dell’odierno pensiero unico strumentale al potere dell’oligarchia finanziaria e militare mondiale. Il vento delle stelle disturba il pensiero unico, disturba la vita penale e penitenziaria che assicuri la parità dei rapporti sociali, modellati sulla base della natura mercenaria del rapporto con Dio: Dio dà la giusta mercede alla sofferenza e al sacrificio del credente, esattamente la giusta mercede, nulla di più e nulla di meno.
Parità della bilancia e utile a zero del bilancio. Senza resti che disturbino l’eutanasia, la buona chiusura della partita della vita.
Le stelle volano, vengono e vanno, ma non verso il puro nulla (verso la dissolvenza, la soluzione, la salvezza), ovvero verso l’approdo ideale del pensiero unico. La dottrina medica offre i suoi rimedi, le sue risoluzioni e soluzioni al disturbo del viaggio, agli equivoci, alle sviste, ai malintesi. Ma il viaggio, parlando, vivendo, procede di equivoco in equivoco, di sbadataggine in sbadataggine, di malinteso in malinteso. Perciò ciascuno guarisce a suo modo, senza soluzione: questo è il cammino artistico, il cammino “terapeutico”.
E la “malattia” non è un guaio mortale, per risolvere il quale ci obblighiamo a assumere la pena del pensiero unico, dell’uni-pensiero, dell’universo, quindi a diventare sordi al volo e al vento delle stelle, perciò a morire prima di morire: la “malattia” (“malato”, male aptus, potrebbe tradursi con dis-adatto) è ancora una chance di trovare il modo artistico di guarire, il modo di camminare ad arte.
La cura (la cura del fare, la cura del tempo nel fare) si fa dell’intersezione di arte e d’invenzione, di cammino artistico e di percorso culturale. Il percorso culturale è il nostro vero corpo, il corpo della parola. Chi redige i risultati della sua ricerca, per esempio in un curriculum vitae, redige gli elementi del suo percorso: in quali istituzioni si è formato, con quali interlocutori, a quali risultati è approdata la ricerca, a quali dispositivi societari ha dato adito l’impresa, con quali novità, brevetti e inediti. Un percorso di specificazione e qualificazione. Non c’è da dare la parola al corpo, perché, naturalmente e innatamente, si dimostri, si verbalizzi nel cosiddetto linguaggio del corpo (e nei tatuaggi), ovvero s’incarni sacrificalmente (come predica l’iniziazione dottrinaria). E le odierne dottrine sociali non sono altro che trattati dell’iniziazione al mistero. Il nostro corpo non è sottoposto alla visione giudicante e pregiudicante, è “altrove”, nelle insopprimibili istanze della ricerca e dell’impresa. E il volo, il viaggio (percorso e cammino), con la scrittura approda al piacere.

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L’ACQUA, LA SESSUALITÀ, LA SALUTE

Ci sono borghi, nella nostra Italia, nell’Italia della parola, che dimorano in un destino speciale, il destino della vita nel suo divenire salute, un destino di onestà. Anche Porretta Terme voi la trovate in questo destino.
Non si tratta di un paese arroccato in una posizione di privilegio o su una strada a passaggio obbligato, non può vivere quindi di ricordi, di retaggi o di gabelle. Chi, tra voi, coglie la combinazione artistica e inventiva del suo paesaggio, i capricci della memoria dei millenni (da dove vengono le cose e dove vanno) ha la chance d’intendere la sua modernità e di trarre i frutti della miniera di parole, di cose in cui il paese naviga. E pure noi, naviganti senza luogo, ma con miriadi di regioni e di villaggi, di piazze e di strade nella nostra favola, corriamo questo rischio di divenire statuti nei dispositivi d’impresa della sua narrazione.
E siamo invitati a dare la nostra testimonianza, una prova di scrittura pragmatica.
Leggete Mandragola di Niccolò Machiavelli: nel primo capitolo, Porretta interviene come uno di quei luoghi dove “non si fa se non festeggiare” e dove “da cosa nasce cosa, e il tempo la governa”. Ecco, nel celebre aforisma, una novità scritturale: il tempo è governante impagabile, che non si compra, ma che capitalizza, cifra. Potere capitalizzante, cifrante del tempo. Così la festa della parola non ha bisogno della ferialità sacrificale per pareggiare, con la pena, i suoi conti. In questa assenza di mercenarismo, sta l’onestà della vita, l’onestà intellettuale, il destino della vita che diviene capitale, valore assoluto, salute.
Nessuno può farsene un fregio o un’esclusiva. E nessuno vi sfugge.
Quante cose, nella miniera linguistica che riguarda Porretta, trovano la strada dell’onestà intellettuale, divenendo elementi di valore, qualificandosi? Quante cose compiono un viaggio nell’automazione narrativa, che non dipende né dalla volontà divina né dalla volontà umana? Gocce, onde, molecole, gas, cellule, vene e venature, rivoli e filoni, sorgenti e sbocchi, schiume, falde, rocce, granelli, pulviscolo: “acqua”, scrivendo in breve. L’acqua è l’indice dell’automazione del viaggio nei suoi dispositivi d’impresa. “Acqua”: qui, quasi un aforisma, tanto la brevità stenografa l’esigenza di cifra, esigenza di valore, di capitale, l’estremo rendimento del capitale. Ciascun elemento di valore vaga per i viali della linguistica del cosmo in questa favola che offre a noi squarci d’intendimento. Favola irreligiosa. Favola poetica, che approda all’aforisma. Ciascuno ha la chance d’intendere e, intendendo, di divenire migrante, statuto della parola, in questo nomadismo delle cose verso il loro valore. E oltre l’aforisma, ciascuno diviene specie nuova, caso di qualità, caso di salute.
Acqua: le ragioni del suo nomadismo nella ricchezza linguistica del cosmo sono ragioni pragmatiche, ragioni temporali, sessuali. Sono le ragioni della verginità, della grazia, della carità (virtù del tempo che capitalizza le cose, perché non finisce), lontane dall’arcaismo delle ragioni erotiche assegnate all’acqua dagli scritti fondatori delle dottrine religiose. Nel cosmo vedico (nei Rig Veda) l’acqua è prigioniera nel ventre del serpente divino Vritra, che stringe la terra circondandola in una morsa, in attesa che la folgore del dio Indra, altra sua faccia, squarci il ventre per liberare le acque. Acqua libera, manifesta, acqua prigioniera, nascosta: canone dell’alternanza. Acqua assente, acqua presente: l’alternanza è una fabbrica d’incarnazioni (di dio, dell’uomo, del popolo). Nel cosmo cristiano, ecco l’incarnazione di Cristo-acqua, che si offre per spegnere la sete dell’umanità in eterno: acqua di salvezza, che assorbe l’anomalia dell’acqua, purificandola, spiritualizzandola. Così la sete diviene demoniaca, ultima tentazione assoggettante, sete ultima, sete dell’ultimo. Segno dell’assenza di acqua. Ma l’acqua è nella ricchezza, nella donazione della vita: l’acqua della parola non manca mai. Da qui, anoressia dell’acqua: “Non ho sete, e non c’è nulla da bere”.
L’acqua del diluvio canonico è bloccata nella rotta convenzionale della fine del tempo e della fine di ogni cosa e nel cerimoniale che va dall’acqua generante e rigenerante all’acqua pura, all’acqua della salvezza.
È un’acqua risolutiva, che toglie al viaggio l’acqua, l’indice dell’automazione.
Ma l’acqua nella parola non ha scopi apocalittici, rivelatori né missioni redentive, purificatorie.
Così le vene dell’acqua, a Porretta, non sono vene nascoste, ma vene nel tessuto del racconto scientifico elaborato nei dispositivi d’impresa, della città: un broccato prezioso, con fili d’acqua e fili di grafite argentata, fili d’oro e fili di carbonio sulla via del diamante. Straordinaria la pagina del carbonio nel suo destino di valore: la miniera della parola viene dai millenni e ha millenni di avvenire dinanzi.

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FIBONACCI E LO SCACCO DELL’ALGORITMO

A capo di centinaia di ingegneri impegnati nel progetto di costruire un “cervello”, un computer che s’istruisca elaborando, una “mente” robotica, Google ha posto Ray Kurzweil, l’inventore del termine “singolarità”, che designa la macchina “transumana”, in grado di sostenere una conversazione con lo schema “domanda-risposta”. Il computer di Ray Kurzweil riconosce come correlate, quindi come significative, le parole che ricorrono nella costellazione linguistica attraverso relazioni di frequenza e di vicinanza spaziale. L’anomalia viene scartata. Si costituisce così un modello di risposta, attraverso un numero minimo di passi, calcolabili, misurabili e quindi prevedibili. Le ricerche neurocognitiviste di successo in questa epoca “riconoscono” anche nella “mente” umana questi modelli di risposta dettati dalla frequenza e dalla vicinanza spaziale, che andrebbero a costituire i “comportamenti”.
Ma una mente siffatta è algoritmica.
Non è la mens come proprietà del tempo, cui Machiavelli ascrive il governo della vita (“Da cosa nasce cosa e il tempo la governa”). Il tempo della vita è il tempo nella struttura, nell’istruzione del fare, il tempo pragmatico, non il tempo finito, misurabile e risparmiabile dell’algoritmo. Questo tempo algoritmico serve non già al governo della vita, ma all’“efficienza”, cioè al numero minimo di passi da fare per produrre il massimo risultato che si trova già nella “mente” del programmatore: nessuna sorpresa, nessuna invenzione! L’“efficienza” è l’idealità che regge la proliferazione modulistica del sistema burocratico. Non c’è soluzione alla lentezza e alla farraginosità burocratiche che non venga presentata come “soluzione efficiente” per un risultato ideale, ripetibile, uguale. Un risultato convenzionale: il risultato che ha sacrificato l’anomalia, il dettaglio, l’equivoco, la svista, il malinteso. Il disturbo.
Ovvero, l’esperienza della vita, la memoria della vita, il viaggio della vita.
Nel suo libro di prossima edizione, Urkommunismus. La paura della parola, Armando Verdiglione indaga le proprietà dell’esperienza, della memoria: la struttura dove la vita si registra (tre i registri: la sintassi, la frase, il pragma) e si scrive fino al suo compimento (tre i compimenti della vita: la legge, l’etica, la clinica). È effettivo (quindi non ideale, non convenzionale) ciò che giunge al suo compimento attraverso un processo intellettuale in cui nessun elemento viene cancellato, sacrificato, perché disturba. Questo il viaggio della vita, il suo gerundio. Così, la struttura sintattica dove, vivendo, viaggiando, intervengono sbagli e lapsus non è una struttura disturbata, difettosa, da purificare. Né lo sono la struttura frastica, con le sue sviste, la sua alterità, e la struttura pragmatica, con il suo errore di calcolo, il suo errare (sognare, inventare) calcolando.
Non ci sono difetti nella struttura della vita (nell’esperienza, nella memoria): è una struttura effettiva che giunge al suo compimento attraverso registri intellettuali, perché non geometrici o algebrici. Il viaggio effettivo non è un viaggio ideale, convenzionale, sottoposto al criterio algebrico o geometrico dell’efficienza, criterio sacrificale.
L’altra proprietà del viaggio è l’effettualità: ciò per cui, lungo il viaggio, intervengono effetti di godimento e di senso (nel registro sintattico), di sapere e di ripetizione (nel registro frastico), di verità e di riso (nel registro pragmatico).
Anche l’evento e l’avvenimento sono effetti pragmatici. Anche il potere è un effetto pragmatico perché non è soggettivo. È il potere del fare: è facendo che c’è il potere, non c’è l’uomo o la donna di potere. Verdiglione scrive che il viaggio è la narrazione, il processo intellettuale effettivo e effettuale.
Questa intoglibilità del viaggio, del processo della parola, è risultata la costante inquietudine dei matematici, che hanno invano tentato di escludere le proprietà intellettuali dai processi matematici. Lo notiamo anche nel racconto di Fibonacci.
Leonardo Fibonacci nasce a Pisa nel 1202, da Guglielmo dei Bonacci.
Il papà, mercante, lo porta con sé nei suoi viaggi in Europa, Africa e Oriente, dove cura gli interessi propri e dei mercanti pisani. Leonardo, sin da ragazzo, si occupa dei conti degli affari paterni.
Quando diventa grande viaggia da solo nel Nordafrica, poi si dirige verso Costantinopoli, attraversando la Siria e l’Anatolia, e entrando in contatto con le novità che in quelle regioni arrivano dal lontano oriente. Fibonacci impara i metodi di calcolo degli arabi, che a loro volta hanno imparato dagli indiani. Gli indiani, per moltiplicare per 10 un numero e abbreviare la scrittura dell’operazione, inseriscono un posto vuoto (con il valore di zero) dopo il numero: sunya in sanscrito, cifr in arabo, zefiro in italiano, poi zevero, zero.
Leonardo Fibonacci porta in Europa i nuovi modi di calcolare e diventa notissimo. Nasce la leggenda di come egli sia in grado di risolvere in un istante i calcoli che servono ai re per le loro amministrazioni. Così Federico II di Svevia lo chiama per una gara con i matematici di corte. Qual è il quesito che pone l’imperatore? Si tratta di calcolare quante coppie di conigli possono essere prodotte da una coppia di conigli in un anno. Fibonacci riporta il racconto nel suo Liber abaci: “Un certo uomo mette una coppia di conigli in un posto circondato su tutti i lati da un muro. Quante coppie di conigli possono essere prodotte dalla coppia di conigli in un anno, se si suppone che ogni mese ogni coppia genera una nuova coppia, che dal secondo mese in avanti diventa produttiva?”.
Fibonacci dà subito la soluzione: 233 coppie di conigli. Il suo calcolo è questo: ogni mese ogni coppia di conigli genera un’altra coppia che comincia a procreare a partire dal secondo mese di vita. Al primo mese c’è solo una coppia di conigli, al secondo mese ce ne sono 2 di cui una è fertile, quindi al terzo mese ce ne sono 3 di cui 2 fertili, perché l’altra ha un intervallo di un mese. Ciascuna coppia ha la sospensione di un mese, il risultato di quel mese è dato dalla somma dei due numeri che precedono. Il quarto numero che è il 3 è dato dalla somma dei numeri che lo precedono (cioè il 2 e l’1), il 5 è dato dalla somma dei due numeri che lo precedono (3 e 2), anche il 55 è dato dalla somma di 21 e 34.
Questo è l’algoritmo, che è scomponibile in tanti piccoli algoritmi uguali.
È possibile fare un numero enorme di calcoli perché l’algoritmo minimo è ripetibile: ogni numero è dato dalla somma dei due numeri precedenti.
Questa è la famosa “progressione” di Fibonacci.
Ma qual è l’inghippo? Che c’è una precondizione alla base del meccanismo: i conigli sono circondati su tutti i lati da un muro. E il “muro” esclude i conigli dal disturbo, dal tempo, dall’imprevisto, ovvero dalla vita.
Il “muro” deve assicurare che niente turbi la supposizione di partenza (“ogni mese ogni coppia genera un’altra coppia”). Potrebbe infatti accadere che una coppia di conigli non procrei ogni mese una cucciolata; che la coppia neonata non sia costituita da un maschio e una femmina; che la femmina o il maschio abbia le sue ubbie o i suoi ghiribizzi, e non procrei con la regolarità necessaria al calcolo; che un coniglio sia indisposto o si ammali o muoia nell’arco dell’anno. Tutto questo deve essere escluso dall’algoritmo.
Per i matematici di ogni epoca, in particolare quelli fra ottocento e novecento (Hilbert, Dedekind, Goedel), si è posta la stessa questione che si pone il discorso paranoico: erigere un “muro” intorno al processo di calcolo, in modo da escludere il disturbo, l’infinito, l’intellettualità, la vita. Ma il processo della parola, nella cui struttura sta anche il calcolo, è intellettuale. L’algoritmo assoggetta l’infinito al calcolo, assoggetta il tempo della sorpresa e dell’imprevisto alle risposte già incluse nella domanda, quindi toglie l’effettività e l’effettualità a favore dell’efficienza.
Ciascun processo intellettuale, ciascun processo di valorizzazione costituisce una prova narrativa (un viaggio), con i suoi effetti di godimento, di sapere, di verità, con l’avvenimento e l’evento. È Machiavelli a chiamare la verità “verità effettuale” (Il Principe, XV): “Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa”. Oggi il calcolo che decide, in una banca, l’erogazione di un fido a un imprenditore è affidato al computer, se i dati forniti dall’imprenditore rispettano la sequenza predisposta con l’algoritmo (quindi l’immaginazione del programmatore). Ieri, era la verità effettuale nel racconto dell’imprenditore al suo direttore di banca, era la prova narrativa a compiersi nella scrittura che accordava il fido.
L’algoritmo erige un muro senza suono, senza corda, senza viaggio fuori dalla cinta muraria, dalla vita inquadrata nel cerchio. Ma questa esclusione del viaggio, della pulsione della vita, del “va e vieni”, resta ideale.
Nel dramma di Georg Büchner, La morte di Danton (1835), il personaggio Camille Desmoulins suggerisce, parlando con Danton, che la matematica non sia estranea a quel “difetto” di calcolabilità che separa i pensieri dalla loro esecuzione, i pensieri dall’azione.
Qual è il progetto della calcolabilità algoritmica? Che il viaggio dal pensiero all’esecuzione sia senza difetto.
Il “dramma” sorge quando si applica l’algoritmo: io penso un coniglio e lo metto in un muro, perché nel mio pensiero il coniglio non può avere scappatoie.
Ma non c’è passaggio all’azione del pensiero. Questa è l’idealità della matematica fra l’ottocento e il novecento: ha cercato di tradurre l’idea per l’azione. Ma il pensiero, l’idea, non agisce: è operatore per la prova narrativa, per la scrittura dell’esperienza.
L’algoritmo è l’idea che agisce, è il coniglio messo dentro quattro mura.
Infatti, l’ideale della coppia “creativa” su cui discettano le logìe dell’epoca (psicologia, sociologia, antropologia), la coppia dell’indovinello, è di avere due figli: un maschio e una femmina.
Qual è la domanda che si pone Desmoulins? ”Per quanto tempo ancora noi, algebrici della carne, dovremo scrivere i nostri conti con le membra tagliate, alla ricerca di quella ‘x’ sconosciuta e eternamente rifiutata?”. È la questione che ha portato alla ghigliottina.
La “x” da rifiutare, di cui scrive Büchner, è la dissidenza del numero.
E il viaggio, il processo intellettuale, è secondo questa dissidenza.

N. 83 - Apr. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO

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La memoria come disturbo, anziché la ballata del mistero

Nei libri di Armando Verdiglione usciti nel 2017, trovate una straordinaria analisi delle dottrine misteriche, cui viene, da sempre, affidata la “gestione” della società, degli stati, delle istituzioni, la “cura” del corpo, dell’anima, della mente. I libri sono sette e li trovate in libreria o nei negozi on line. Costituiscono una traversata, che non può essere sintetizzata o riassunta: leggendoli, si avverte la spinta a restituire qualcosa di questa scrittura con un contributo, anche solo per un granello o per una goccia.
Verdiglione scrive che il “mistero” su cui si fondano queste dottrine è l’idea del nulla, l’idea di un luogo ideale senza la parola, senza il suo rinascimento e la sua industria.
Ma scrive anche che la gestione della vita che le dottrine misteriche promettono va in scacco, a oriente e a occidente, a nord e a sud. Anche quando i sistemi di gestione sembrano avere raggiunto il loro apogeo e le cose, apparentemente, funzionano e circolano. Se parliamo di dottrine misteriche non stiamo dibattendo soltanto di costruzioni relegabili a una setta di fedeli, a un’elite di studiosi o al folclore di antiche civiltà estinte, ma di teorie economiche, fisiche, astrofisiche, giuridiche, politiche, manageriali, ecologiche, di teorie della comunicazione.
Parliamo di filosofia, teologia, letteratura, religione, medicina, psicologia, psicoterapia, sociologia, antropologia, tecnologia, o di ciò che si formula come “personalità”, “sentimenti”, “emozioni”, “standard di qualità”. Ovvero di ciò che si offre come luogo di origine e di ritorno, di soluzione e di coagulazione, di distruzione e di creazione, di frantumazione e di riunificazione; luogo del purismo che azzera tutto e del radicalismo che ricostruisce idealmente, moralmente; luogo del nascondimento e della rivelazione, luogo dell’ottenebramento e dell’illuminazione, luogo della pena e della redenzione. Il viaggio dalle tenebre alla luce, con ritorno, è il viaggio promesso da ogni creazione del cosmo (per esempio, dalla cosmogonia vedica, greca, semitica, norrena), da ogni gnosi, che mette al centro della tenebra la sua origine, il suo nucleo di luce. E, quindi, il cosmo è il luogo circolare, il luogo che assicura il ritorno, la salvezza.
Salvarsi per vivere? Penare per vivere? Dannarsi per vivere? Accettare per vivere? Annullarsi nell’Altro, nel prossimo, nell’ultimo per vivere? Mangiare o mangiarsi per vivere? Morire per vivere? Finire, sfinirsi per acquistare la certezza di “essere” o di “avere”, la certezza soggettiva, la certezza di essere “soggetto”? Solo che, vivendo, tutto questo non funziona in modo automaticistico. I “sistemi per vivere” inciampano nella vita, nella parola, nell’atto di parola. Questo inciampo, questo disturbo, questo disguido, vivendo, si chiama memoria della parola, esperienza della parola, ricchezza della parola. La ricchezza: i lapsus, le sviste, i malintesi, ovvero le cose in viaggio, le cose che non restano fisse, uguali, prevedibili, probabili, le cose che dimorano nel racconto, nell’ospitalità del racconto, della narrazione. Questa ricchezza disturbante, spiazzante, non ha classi sociali, non ha catasto, non ha censo, non ha età cronologica, non ha scuole che l’insegnino, non s’impara, non ha rimedi che valgano a eliminarla, non ha muri che impediscano il suo ingresso, non ha porte o finestre sbarrate, non ha sacerdoti, esperti o spiriti guida che conoscano la strada, che l’abbiano già fatta prima (perché sarebbe la stessa, sempre la stessa, la strada della salvezza!). Non s’impara a vivere! Ma, imparando, calcolando, lo sbaglio, la cantonata, l’errore di calcolo! Il gerundio della vita s’instaura per una breccia della parola, che si chiama memoria in atto (non memoria del passato), disturbo in atto, ricchezza in atto.
La memoria è un disturbo rispetto alla nostalgia di un’età dell’oro, della salute, della felicità passate.
È un disturbo rispetto all’idea di un accesso alla vita ideale, alla vita perfetta, alla vita salva. La memoria è un disturbo rispetto alla vita come mistero, come incatenamento al ritorno all’origine, all’essere “se stessi”. Sii te stesso e sarai salvo, sii te stesso e farai la cosa giusta. Il “te stesso” è l’imperituro, l’immutabile, che vive dentro di te mutabile. Dentro di te tu sei eterno, sei te stesso, sei immortale, ti riveli immortale: homo mortalis/homo immortalis.
Questo è il cerchio misterico: mortale/ immortale. Penare, accettare, morire, per tornare all’immortale che eri. Morire per non morire. Il cerchio dell’iniziazione sta qui.
Sta qui il cerchio del mistero: l’imperativo del ritorno, l’imperativo cosmico, la legge cosmica. Alla frantumazione cosmica segue la riunificazione. È il sacrificio cosmico, il sacrificio delle stelle nel cosmo. Ogni stella, ogni particella stellare, si riunisce, torna al cosmo da cui viene.
E non occorre salire su un’astronave e imbarcarsi per quei viaggi prenotati dai miliardari del pianeta che vogliono eternizzarsi perdendosi nel cosmo. Non si sono prenotati per un viaggio senza ritorno! Il loro è il viaggio del ritorno, del ritorno al cosmo! Questa eternità, questa immortalità, l’ha sempre assicurata, in ogni epoca, e sotto ogni cielo, il trattamento funerario del corpo e della scena. Oggi questo viaggio di ritorno al cosmo trova la sua popolarità, la sua spettacolarità, nel successo della cremazione funeraria.
L’ordine funerario è l’ordine di ritorno al cosmo. E i parenti si trovano di fronte alla questione: e le ceneri? Dove vanno le ceneri? Spesso il defunto si è preoccupato d’indicare nel testamento da quale porta vuole fare il suo ritorno al cosmo: le ceneri sono da spargere al vento che spira sulla tale montagna, sull’acqua del tal fiume o del tal mare. Dov’è la porta d’ingresso nel luogo eterno, senza tempo, senza dolori, senza disturbi, senza sensazioni? Dov’è il luogo senza memoria? Il luogo dell’analgesia? Nel suo poema Sulla natura, Parmenide scrive che c’è una porta a due battenti (il Giorno e la Notte) che si spalanca sull’abisso cosmico da attraversare per giungere alla verità “ben rotonda”, la verità sferica, la verità non perturbata dalle opinioni degli umani, dalle sensazioni, dalle immagini, dalle apparenze, la verità immutabile, eterna. È la verità senza il fare, senza il brigare degli umani nelle loro botteghe, dove, invece, interviene il tempo imprevisto, sorprendente, pragmatico. La divinità (la daímon) che guida Parmenide nel viaggio di ritorno alla sfera della verità aborre la verità effettuale, rinascimentale, la verità di bottega.
Il ritorno al cosmo è la cerimonia sociale per antonomasia. Sulla cerimonia funeraria si fonda ogni intesa, ogni patto del diavolo o dell’angelo che dia origine a una comunità.
Lì, al funerale, tutto si appiana, tutto si concilia: la conciliazione è lo stratagemma, l’espediente, che segna l’inizio della guerra ereditaria, la guerra per l’ereditarietà. In quale discendente si reincarnerà, si riaffaccerà il destino ideale delle cose in quella famiglia? Le “cose di famiglia”: le case, i terreni, i mobili, i gioielli di famiglia. Ma una guerra ereditaria è in atto anche per dimostrare che si ereditano le caratteristiche di famiglia, le “malattie di famiglia”, cioè che si è degni/indegni discendenti di quella famiglia, se ne hanno i caratteri ereditari che la rendono comunità riconoscibile, apprezzata, o anche temuta, additata.
Le malattie di famiglia ereditarie dei discendenti sono ricercate e accentuate per conferma negli ascendenti (forse anche il bisnonno beveva o andava a donne, lo zio era violento, la nonna severissima, la cugina “donna leggera”, il fratello cleptomane): da qui il mimetismo dimostrativo nella dissipazione del patrimonio o nel tradimento del matrimonio; il mimetismo dell’abbandonarsi all’assunzione della sostanza, della droga, per dimenticare, per annullare la memoria in atto; il mimetismo del femminilizzarsi o del virilizzarsi; il mimetismo dell’essere soggetto autonomo (che fa da sé, in tutta “autonomia”: ecco il contrappasso del cancro, scacco di questa autonomia); il mimetismo dell’essere soggetto dipendente, debole, vittima in una circolarità, in una specularità con un carnefice, quindi vittima di se stesso e carnefice di se stesso (ecco il contrappasso delle cosiddette malattie immunitarie o autoimmunitarie, scacco di questa rappresentazione della forza debole e della debolezza forte). Se il soggetto si riconosce debole, più o meno debole, forte, più o meno forte, si divide in due e toglie il due (toglie l’apertura, toglie l’ironia della vita, toglie il dubbio): ecco che si è stretto il cerchio fra vittima e carnefice, fra debole e autoritario, il soggetto diviso in due è in lotta con se stesso, in un perenne giudizio su di sé. Se il due viene tolto, con la lotta fra sé e sé, con la lotta intestina, s’infiammano la pelle, lo stomaco, gli intestini, le mucose, le cartilagini.
Qual è la promessa che tiene incatenati al mistero, all’idea di un luogo ideale, gli assuntori di sostanze? La promessa di gestire, padroneggiare il viaggio di andata e ritorno dal luogo del nulla ideale: provare sensazioni da morire, e poi tornare! E rifare il viaggio: ancora nuove droghe per una morte sempre più sensazionale, sempre più stupefacente. E poi il ritorno, ovvero l’uguale. Il luogo dell’uguale è il luogo del nulla, senza la memoria con il suo disturbo, con la sua narrazione e i suoi effetti, senza le sensazioni, senza il lutto, senza il dolore. È il luogo dell’analgesia! E sempre più le droghe diffuse anche fra gli adolescenti valgono a ottenere l’analgesia.
Attorno al concetto di ritorno la fantasmagoria è enorme. Anche le cosiddette teorie economiche sono nella maggior parte dei casi teorie del ritorno. È appena trascorso un decennio dalla crisi finanziaria mondiale del 2008, e in questi anni gli economisti hanno contato quante “bolle” erano intervenute a partire dalla crisi del 1929, quali si erano ripetute ciclicamente, quante se ne potevano prevedere (il cerchio, la sfera, la bolla: la bolla edilizia, la bolla del petrolio, la bolla delle materie prime, la bolla finanziaria, la bolla di internet). Uno degli economisti utilizzati per giustificare l’aspettativa dei cicli economici, pur con alcune differenze, è Joseph Schumpeter (1883-1950) con la sua teoria della distruzione creatrice.
Secondo Schumpeter, lo sviluppo economico comporterebbe un certo grado di distruzione, per cui alcune aziende muoiono, mentre altre nascono, quindi dalla distruzione delle aziende sorgerebbe la creazione di nuove aziende. Ma questa dottrina misterica della distruzionecreazione, che regolerebbe lo sviluppo “naturale” dell’economia e della finanza, il modo naturale del progresso, è un’idea di padronanza della vita, un’idea che agisce per la finalizzazione, un’idea guida, uno spirito guida, quindi un’idea spirituale: gli economisti sono spiritualisti, sono mistici. Le scienze economiche sono scienze misteriche.
La parola in atto, la vita in atto, è parola scientifica, vita scientifica: non è parola misterica. La scienza della parola è senza mistero: è un taglio che non distrugge e non crea, è un’apertura che non inghiotte e non esalta come abisso. È senza necessità del cerchio schiavo-padrone, amico-nemico, farmaco-veleno, il cerchio cosmico. In questa parola senza mistero, il viaggio non ha ritorno, perché noi non apparteniamo a una genealogia familiare o cosmica in cui annullarsi in vista di una fine dei tempi che coincida con il suo inizio. Non stiamo viaggiando verso il big-bang. Il tempo non finisce e non dà origine, non è il genitore che divora i suoi figli o la Parca che dà la vita e la taglia, non è il cerchio cui siamo sottomessi.
Non è quel fato (l’Anánke) a cui i greci hanno assoggettato anche le loro divinità. Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Il tempo è cifrante nel viaggio per la valorizzazione della vita.