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LA MINACCIA DEL MASS-RADICALISMO

Per attenermi al tema dell’incontro, La comunicazione, le fake news, i totalitarismi, vorrei esplorare ciò che tiene insieme questi tre elementi: la comunicazione, le fake news, o le notizie del diavolo – come le chiamavamo quando è uscito Le notizie del diavolo. La parabola ignota della disinformazione (Spirali, 1994) – e i totalitarismi. Per inciso, nel 2019 è uscita una seconda versione del libro, Ultime notizie dal diavolo. I segreti della disinformazione dall’antichità alle fake news (Guerini Scientifica), che tiene in considerazione i nuovi media, internet in primis. Dal 1994 sono trascorsi 29 anni, in cui ho approfondito l’argomento, man mano che aumentava il fastidio e a volte l’indignazione nel vedermi preso per il naso, soprattutto dai media, ma non soltanto.

A proposito di questa triade, “comunicazione, fake news e totalitarismi”, vorrei citare alcuni enunciati. Per esempio, il grido di allarme per la salvezza del pianeta: “Aiuto, aiuto! Il mondo sta andando a fuoco, l’apocalisse sta arrivando, i ghiacciai spariscono al ritmo del 20% all’anno, il pianeta sta andando a fuoco, dobbiamo assolutamente evitare l’apocalisse. Come? Ce lo diranno le menti illuminate, intanto noi prepariamoci a questa certezza e, soprattutto, dobbiamo essere coscienti che le cose stanno andando malissimo, quindi qualsiasi cosa ci proporranno dovremo accoglierla con grande riconoscenza”. È la stessa impostazione che abbiamo sperimentato con l’apartheid, ovvero il “regime sanitario”, durante la pandemia, che ha cambiato in modo radicale le nostre vite. Procede da tale impostazione l’enunciato che ascoltavamo in televisione e sui media: “La scienza dice”. Ma la scienza non dice, la scienza è astrazione e confutazione. Se la scienza non astrae dalla realtà, non è scienza, perché non ha la possibilità di formulare teorie, che devono essere confutabili e falsificabili, secondo il metodo popperiano del trial and error, “prova ed errore”. Chi dice che qualcosa “lo ha detto la scienza” è un nemico della scienza.

E veniamo alla questione della guerra cui stiamo assistendo e che ci riguarda da vicino, anche se qualcuno fino a poco tempo fa credeva non ci riguardasse, perché è la guerra che conosciamo attraverso ciò che ci dicono: il presidente di una federazione di un paese che è il più grande del mondo come estensione geografica, di poco inferiore a un settimo delle terre emerse, si rivolge al suo popolo dicendo che è necessario combattere contro i nazisti, ovvero contro il paese che egli ha invaso. C’è però un piccolo particolare: l’ideologia su cui Putin si sostiene è impregnata fortemente di nazionalsocialismo, di nazismo, perché fa riferimento alla terra sacra, al sangue, all’etnia, alla religione di stato e all’idea che la lingua sia la discriminante: là dove si parla russo là è Russia. Tutti questi principi sarebbero stati accolti con entusiastico favore da parte del suo predecessore Adolf Hitler e anche, in una versione differente, dal suo predecessore Josif Stalin. Si tratta del nazicomunismo, un ibrido ideologico che mette insieme questi due elementi: da una parte, la razza identificata come éthnos, sangue, terra, lingua, più la religione ortodossa secondo i principi di Mosca e di padre Kirill, che benedice le armi, e, dall’altra, l’autocrazia, la presidenza che si autodetermina per decenni. “Noi russi quindi abbiamo un insieme di elementi che ci dicono che del nemico dobbiamo avere paura, perché il nemico è nazista”. È ciò che il filosofo Martin Heidegger, sulla scia dello storico Ernst Nolte, definiva Shreckbild, ovvero l’immagine spaventosa provocata dalla paura del nemico, accanto alla quale veniva proposta la Vorbild, la contro-immagine salvifica rassicurante, suscitata dall’adesione totale a un’opposta verità ideologica. La Shreckbild venne creata per la prima volta nel 1914 per organizzare la mobilitazione degli eserciti nella Grande guerra: si andava al massacro, verso l’inutile strage, come disse il Papa di allora, Benedetto XV, perché il nemico era il terrore, la Shreckbild, la paura.

Un elemento sintomatico in una visione totalitaria è l’idea della pace come concetto ideologico astratto, assoluto, un’idea che deve affermarsi perché si afferma: è pace perché io dico pace e, anche se c’è guerra, io dico pace. Questo è il terreno, l’humus ideale di sviluppo per il virus totalitario. Il virus totalitario ha bisogno di una falsa cortina fumogena dietro cui proseguire la sua attività di erosione, di distruzione, di combustione. Riassumendo, che cosa pone sullo stesso piano l’accusa di razzismo, l’idea che la separazione, l’apartheid sia la libertà, che avere paura sia sintomo di coraggio? “Bisogna avere paura perché il pianeta sta andando a fuoco”, così come si aveva paura dell’anno 1000 nel Medioevo (ricordo il detto “Mille e non più Mille”), come pure negli anni settanta si doveva avere paura dell’inverno nucleare, c’era l’idea che una guerra nucleare avrebbe provocato talmente tanti detriti da oscurare il sole e da provocare il contrario di quello che si dice oggi, cioè la glaciazione della terra. E qualcuno si ricorderà la paura apocalittica informatica del 31 dicembre 1999, quando avrebbero dovuto bloccarsi tutti i sistemi operativi dei computer e gli aerei avrebbero dovuto cadere, il millenium bug. Che cosa collega tutte queste previsioni? La paura. È la paura il primo strumento che il totalitarismo mette in campo. E quando sentiamo che qualcuno vuole farci paura o addirittura vuole farci credere che la paura è il vero coraggio, allora dobbiamo veramente metterci in allarme, perché c’è qualcuno che sta cercando di portarci dove vuole, ma con mezzi che non sono onesti.

Prendiamo altre parole che sentiamo ripetere ogni giorno, con un continuo lavaggio del cervello: ecologia, transizione, green, diversità, inclusione e, soprattutto, sostenibilità. Che cosa unisce queste parole? Che cosa unisce i vari salotti televisivi, dove esiste una sistematica metodica disinformazione basata sul gioco delle parti disuguali? Quando si vuole affermare un principio senza affermarlo e costringere qualcuno a pensare una cosa senza che l’abbia pensata, si convocano cinque esperti, quattro dei quali sostengono l’idea dominante, sono persone note, che sanno parlare bene, sono credibili, di elevato prestigio professionale, mentre il quinto è brutto, parla male, balbetta, non è credibile e copre di discredito l’opinione dissenziente, che in questo modo viene a rafforzare quella dominante.

Nicola Pozzati ha posto il problema dell’autocensura dei giornalisti, che credo si possano definire per moltissimi aspetti dei replicanti, cioè persone che si limitano ad affrontare la realtà senza spirito critico e secondo un vecchio metodo, che purtroppo ho conosciuto molto bene nella mia attività di giornalista militante, ovvero il metodo dell’intervista cosiddetta “a risposta domanda”, in cui prima si concordano le risposte che si vuole siano date e poi si adattano le domande alle risposte. Un metodo che è stato applicato in molte circostanze e, per esempio, ai tempi di Mani pulite.

Vorrei ricordare anche una serie di espedienti linguistici molto interessanti, che ho approfondito principalmente nei libri Dirsi tutto e Ultime notizie dal diavolo, ovvero le “frasi tagliola”, le frasi trappola. Per esempio, sentiamo spesso usare la frase: “scelta di civiltà”. Naturalmente, la civiltà è quella che dico io e, se voi non aderite alla mia scelta di civiltà, allora, per definizione, siete incivili, quindi non avete il diritto di parola: o aderite alla mia scelta di civiltà oppure fate il piacere di restare in silenzio o di uscire.

Un altro elemento importante è l’informatica, questa dea che ci ricorda: “Non avrai altro dio al di fuori di internet”, che fa parte delle nostre vite, che ci condiziona, che ci porta lontano, che a volte ci piace e a volte c’inquieta. Ma quando c’inquieta c’è una ragione: l’informatica è qualcosa che va spesso a raddoppiare la burocrazia nelle cose che facciamo, aggiungendo e moltiplicando i passaggi, complicandoli, selezionando uomini e mezzi a seconda delle capacità informatiche che devono cambiare continuamente, in base agli aggiornamenti. E l’aggiornamento, insieme alla gratificazione di essere riusciti ad acquisirlo, è il modo in cui l’informatica vi ha in pugno. Naturalmente, gli esegeti dell’informatica come miracolo e bene assoluto sono sempre presenti. E quale sarà lo slogan che potrà caratterizzarci tutti e che ci caratterizza tutti? “Scarica l’App!”. Con l’aver scaricato l’App siete a posto.

Che cosa accomuna dunque tutte queste manipolazioni? L’idea del controllo. Dopo la paura, il secondo grande obiettivo del totalitarismo. Quasi più importante della finalità, che è comunque una finalità fittizia, perché sappiamo che nelle alte gerarchie – a suo tempo nazional-socialiste e comuniste-bolsceviche, ma anche all’interno dell’islamismo radicale e persino all’interno del nazi-comunismo putiniano – non si crede a ciò che si predica. E quanto più si sale nella gerarchia, tanto più si ha la possibilità di capire che è tutto strumentale, è tutto finto. In realtà non si va da nessuna parte, si va soltanto a rafforzare il potere. Potere e controllo: ecco il secondo grande elemento che unisce l’informazione, quindi la comunicazione, che determina le fake news e il totalitarismo.

Il totalitarismo deve basarsi sempre su due grandi elementi: un elemento arcaico (utopistico) e un elemento di grande modernità, per poter catturare in pieno la nostra adesione.

Nel caso del nazional-socialismo, l’elemento arcaico era la superiorità della razza ariana e l’elemento scientifico era invece il darwinismo, cioè il fatto che le razze superiori, secondo Darwin, tendono ad affermare il predominio sulle altre.

Nel caso del comunismo leninista, c’era insieme il ritorno al mito della comune russa di villaggio, che poi diventa il soviet di fabbrica e, come diceva Lenin, l’elettrificazione, cioè l’industrializzazione, e quindi anche i piani quinquennali, e così via. Nel caso dell’islamismo radicale, abbiamo invece un’interpretazione radicale del Corano e delle Sure, delle successive applicazioni e interpretazioni, un’interpretazione parziale del Corano, cui si sommano le tecnologie moderne, informatiche e commerciali messe in atto da Al Qaeda in vari modi e anche dai Talebani, in modi un po’ diversi. Che cosa possiamo considerare che stia succedendo in questo momento nell’occidente democratico? Esiste una visione pre-totalitaria, para-totalitaria, che minaccia di diventare realmente totalitaria e che io chiamo mass-radicalismo, ovvero radicalismo di massa o anche massimalismo radicale. Questa visione, come tutte le grandi visioni totalitarie storiche, ha un elemento arcaico-utopistico, cioè l’idea che il mondo debba essere salvato, purificato, portato a una superiore qualità e a un’uguaglianza perfetta. Marx avrebbe detto: “Un mondo in cui ognuno riceve secondo i propri bisogni e a ognuno viene richiesto secondo le proprie capacità”. Questa è la visione di fondo: noi dobbiamo andare verso un mondo verde, un mondo perfetto, un paradiso in terra. Dobbiamo adorare questa divinità: la Terra. Abbiamo un solo pianeta ed è quello che dobbiamo adottare. Questo è a noi superiore, va al di là delle singole vite e noi vi promettiamo che il mondo sarà così, sarà bello, salubre, naturale. Non ci saranno più differenze e ognuno sarà ciò che desidera essere: il desiderio diventa realtà. Io voglio essere una cosa e la sono, e verrò riconosciuto per esserla. E, naturalmente, a questo punto, esiste un’infinita quantità di desideri e di diritti. I diritti sono il nostro futuro e tutti dobbiamo credere nei diritti, è una “scelta di civiltà”: se qualcuno non crede nei diritti, per favore, o taccia o esca dalla porta. C’è un piccolo problema, però: i diritti sono tanti e aumentano continuamente. Come facciamo? Alcuni sono anche contraddittori fra loro e, siccome l’aumento dei diritti, per sua natura, giunge a restringere le libertà di qualcun altro, incomincio a chiedermi: chi parla di diritti contro chi vuole usarli? Comunque il diritto di qualcuno restringe le libertà di altri, per forza, perché il campo di azione non è infinito. Allora, come facciamo? Questo non vi viene detto, ma chi è dentro le cose lo sa: superata la fase della moltiplicazione infinita dei diritti, si richiede l’arrivo di una persona forte, una persona saggia, che sa quali sono i diritti da approvare e quelli da eliminare. Al fondo della visione del mass-radicalismo c’è l’idea del buon legislatore, del padre benevolo o dello stato Leviatano che decide. E chi non è d’accordo non se la passerà bene, perché verrà privato proprio dei diritti di cui altri potranno godere.

Questa è la visione utopistico-arcaica del mass-radicalismo. L’altra invece è quella della manipolazione infinita dell’individuo, cioè vi promettiamo non soltanto che il mondo sarà bellissimo, che tutti saranno uguali e che tutti i desideri saranno soddisfatti, ma anche che la vita si moltiplicherà all’infinito. Noi promettiamo che attraverso la manipolazione la vita sarà bella, che dal momento del concepimento fino alla morte tutto sarà sotto controllo e programmato. Nascerà chi è degno di essere concepito, verrà eliminato invece chi non è all’altezza della situazione, si avrà questa selezione preliminare e in qualsiasi momento della vita si potrà anche decidere di porla a fine, tanto, se è il desiderio che conta, io posso legittimamente e tranquillamente desiderare di porla a conclusione, oppure di farmi ibernare, nella speranza che tra duecento anni la mia vita potrà proseguire all’infinito. Questa idea della manipolazione assoluta dell’individuo è l’altra grande colonna su cui poggia il massimalismo radicale. Detto così potrebbe sembrare una cosa astratta, invece è una cosa estremamente funzionante, perché la caratteristica del totalitarismo, in questo caso del neo-totalitarismo, è di essere affascinante. La gente crede a queste cose, perché vuole crederci. Perché è una speranza. Chi ha perso la speranza in altri ideali ne cerca uno nuovo, e questa potrebbe essere un’ottima occasione per trovarlo.

Quindi, nelle condizioni in cui siamo, che cosa ci rimane da dire? Rimane da dire che noi abbiamo sempre l’opzione di batterci per la libertà che tutte le libertà comprende, per il free speech, per il linguaggio libero, per il rifiuto della correttezza politica, per il rifiuto del linguaggio stereotipato, del linguaggio ideologizzato, di cui neanche ci accorgiamo perché ci viene insufflato continuamente. Pensate per esempio a quel termine che a me fa orrore, “femminicidio”, che implica la riduzione della donna a organo sessuale, e in più è una parola che può essere usata solo se il reato viene commesso da un uomo, mentre, se viene commesso da una donna, non si chiama più così. Non è ciò che avviene in 1984 di Orwell, dove la parola ha un significato a seconda di chi la usa? Pensate a quanto forti sono i condizionamenti cui veniamo sottoposti e a quanto forte dev’essere la nostra capacità di respingerli. Ma noi possiamo respingerli, perché qual è il famoso anello mancante dell’involuzione? È la creatività umana, è la parola. La parola determina la cosa. Noi non sapremmo che cos’è una casa se ci limitassimo a raschiarne le pareti oppure a guardare attraverso il vetro di una finestra. È la parola casa, con tutto ciò che comporta attraverso il tempo e le generazioni, che dà l’idea della casa. Noi creiamo continuamente, non soltanto dal punto di vista artistico, ma creiamo continuamente attraverso il linguaggio e la parola. Questa è una libertà insopprimibile, la libertà della parola: il nemico totale e dichiarato del totalitarismo e del suo campo del potere.

Quindi questo salto qualitativo può in qualsiasi momento salvarci, anche perché noi sappiamo che qualsiasi totalitarismo, anche quello nascente adesso, il mass-radicalismo, anche quello nazi-comunista, che è in azione poco lontano da noi – tra l’altro, vi ricordo che fra Trieste e Palermo c’è la stessa distanza che c’è fra Trieste e Kiev –, questi totalitarismi sono destinati lentamente a perdere forza, perché consumano il loro stesso combustibile. Non sono invincibili. Vogliono farci credere di essere leggi naturali, ma non lo sono. Sono un’imposizione arbitraria che si riproporrà sempre in diverse forme, ma che sempre in diverse forme troverà la nostra possibilità creativa, attraverso la parola, di contestarla e di ridurla alla sua realtà, al fatto cioè che si tratta sempre del re nudo. Quindi usiamo la parola come un aquilone che si alza controvento, ma il controvento la rende inafferrabile. Questa è la nostra speranza.

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DIRSI TUTTO. L’ARTE DELLA COMUNICAZIONE TOTALE

Nel suo ultimo libro, Dirsi tutto. L’arte della comunicazione totale (Lindau), lei scrive che “ogni sistema di segni, anche il più articolato e raffinato, si appoggia a quello della lingua verbale” e che dunque “il mondo per noi esiste veramente soltanto perché lo nominiamo, è un effetto della parola”. Che cosa comporta questo per la vita civile, in particolare per l’economia, l’impresa, la politica, in cui sembra che debbano prevalere, secondo lo slogan, i fatti e non le parole?
È il potere originario della parola che stiamo evocando: cioè il fondamento della nostra umanità. Per questo le cose, per noi, esistono in quanto sono nominate, dando forma al pensiero. Ma l’origine è, appunto, un atto creativo che determina un salto di qualità rispetto alla legge dell’evoluzione darwiniana. Un salto qualitativo non confinato nella notte dei tempi, bensì presente nelle situazioni più diverse che sperimentiamo continuamente. E non alludo soltanto alle emozioni che intervengono nelle esperienze artistiche e amorose o a quelle dolorose che seguono a una perdita. La parola creativa, il verbo, è anche, necessariamente, il punto di partenza e di conclusione di ciascuna esperienza civile, economica, imprenditoriale, politica che non sia soltanto ripetizione sterile del già noto, bensì ricerca del nuovo. I “fatti”, se non sono vivificati dalla parola creativa, dall’invenzione verbale, sono fin dall’inizio destinati a decadere e a spegnersi nel nulla.
Se la parola decide della realtà e della verità, c’è il rischio che chi comunica eserciti il potere su chi riceve il messaggio, e possa stabilire quel che è giusto o sbagliato, o addirittura quel che esiste o meno. Può fare qualche esempio?
Il potere è inseparabile dalla parola: essa, proprio perché centrale nella nostra esperienza umana, genera attorno a sé ciò che nel libro definisco “campo del potere”. È un’utopia la pretesa di liberarsene, come dimostrano purtroppo ampiamente i grandi progetti falliti di redenzione dell’umanità su base totalitaria: nazionalsocialismo, comunismo, islamismo radicale e così via. Il potere della parola è nostro compagno di strada anche attraverso i pregiudizi, le ideologie di cui tutti siamo necessariamente portatori, perché altrimenti non saremmo in grado di scegliere e giudicare quanto ci viene proposto.
Al campo del potere – questo è un asse portante del libro – si contrappone però quello della libertà, collegato alla capacità espressiva e rigeneratrice della parola originaria, cui facevo riferimento prima. In questa dialettica costante fra i due campi si svolge la nostra comunicazione quotidiana.
Esiste però una distinzione fondamentale. Mentre il campo del potere viene incontro ai nostri pregiudizi, alle nostre ideologie, alle nostre empatie, al bisogno di uniformarci alle regole ufficiali, quello della libertà richiede un costante lavoro su se stessi, una sospensione delle nostre certezze, una capacità di uscire dalla nostra corazza ideologica per confrontarci con l’altro, l’inaspettato, l’inquietante, lo spaventoso, il miracoloso. Il prezzo personale da pagare per conseguire questa libertà è alto, ma il risultato che si raggiunge è impagabile.
L’esempio del “neonazismo” inventato da Putin per la sua aggressione a un Paese considerato ostile è quanto mai calzante: serve a far scattare nei cittadini post-sovietici il riflesso condizionato della Schrekbild, del terrore per il nemico feroce in agguato. E naturalmente a occultare il fatto che il nazismo – inteso come culto del sangue, della terra, della lingua e della religione nazionale – è parte integrante precisamente dell’ideologia su cui Putin si sostiene.
Il paradosso del potere è che quanto più trova la sua consistenza nella comunicazione, tanto più cerca di proporsi come reale e naturale, fondando la sua forza su un’apparente naturalezza e necessità obiettiva. Quali sono gli strumenti con cui si costruisce e si mantiene questa impostura?
Questo è un altro degli aspetti centrali che affronto in Dirsi tutto. Il potere che si esprime attraverso la parola, e quindi il comando, ha bisogno di presentarsi come “naturale”. Sfrutta le nostre ansie e i sensi di colpa. Si maschera da legge naturale, cui sarebbe futile opporsi, mentre ne è soltanto un camuffamento, un prolungamento ideologico. Si sforza in realtà d’imporre una sua egemonia totale, o quasi, sugli individui e sulla società di cui vuole prendere possesso.
Questa potenza, se la consideriamo con attenzione, non ha niente di necessario e non è onnipotente: semplicemente si basa sull’interesse dei dominanti, sulla vulnerabilità dei dominati e sulla possibilità di replicare indefinitamente la sua stessa esistenza. Essa continua a suggerirci l’idea che tutti, poiché facciamo parte della natura immutabile, siamo tenuti ad assecondarne i precetti: l’egoismo, la selezione naturale degli esseri, la soppressione di quelli inadatti o superflui, la velocità di adattamento e il mimetismo, la sottomissione al più forte, la libidine del comando e del successo, l’anelito a prolungare il più possibile l’esistenza. Tentazioni cui pochi sfuggono, perché solleticano istinti inconfessabili e profondamente radicati in ciascuno.
Da Platone a Putin, i totalitarismi si fondano sulle fake news di Stato, indicando non solo quel che non si può dire, ma anche quel che si deve dire, stabilendo chi deve parlare, di cosa si deve parlare e di come si deve parlare. In questo modo quel che viene negata è proprio la parola…
È un fenomeno patologico, e inquietante, un incubo della comunicazione che ritroviamo a volte nella letteratura distopica, come in certi esempi di fantascienza cinematografica. Quando esiste un unico sistema ideologico autorizzato – e ad esso si è tenuti ad appartenere – esso genera un disturbo della prospettiva, dà l’impressione che la lingua obbligatoria – la “neolingua”, per dirlo con George Orwell – di cui la parola è prigioniera, includa tutta la realtà. Di conseguenza, chi ne è vittima si convince che è impossibile sfuggirle.
Allora lo spazio mentale di ciascun individuo si restringe, sin quasi a dissolversi. Infatti, se l’ideologia del mio vicino, dell’amico o del collega di lavoro risponde al mio stesso sistema di aspettative e valori – quello ufficiale –, ogni parola che pronuncerò dovrà tenere conto delle possibili sfumature interpretative, come delle probabili reciproche associazioni mentali, avendo cura di non varcare il confine implicito di ciò che è consentito. Andrà così restringendosi progressivamente il campo della comunicazione reale, in modo da escludere preventivamente qualsiasi equivoco e conflitto. Una deviazione dalla norma equivarrebbe a una dichiarazione di dissenso, a una confessione d’incredulità o addirittura a un attentato contro il modo di pensare corrente.
Rinunciare al free speech, alla libertà della parola, è come consegnare le chiavi della libertà espressiva, e di pensiero, a un qualche onnipresente comitato centrale di sorveglianza, che s’insinua in ogni nostro discorso orale, scritto, o persino sognato, spiandoci e inducendoci all’autorepressione della parola. È come se un invisibile censore, appollaiatosi sulla nostra spalla, sindacasse instancabilmente ogni nostra mossa.
Lei sottolinea che il potere comunicativo, piuttosto che con la repressione e la violenza, solletica istinti inconfessabili, predilige il soddisfacimento di inclinazioni e desideri, allo scopo di ottenere spontaneamente il consenso. Gli influencer, le community e i gruppi nei social espandono questa tendenza?
Certamente, ed esiste anche un termine ufficiale che indica questa nostra disposizione ad allinearci: confirmation bias, ovvero “predisposizione alla conferma”. Dal momento che, come sappiamo, tutti noi abbiamo bisogno di pregiudizi e ideologie per decifrare la realtà e reagire tempestivamente ai suoi stimoli, quando troviamo un gruppo, una persona, un partito che viene incontro ai nostri gusti, siamo portati ad accoglierne, approvarne e a rilanciarne il messaggio, traendone anche una sorta di godimento narcisistico. Le community sono il terreno ideale per lo sviluppo, la diffusione di queste verità che si autosuggellano, moltiplicandosi. Se il potere comunicativo viene esercitato da un influencer prestigioso, almeno ai nostri occhi, siamo tentati di farlo nostro senza approfondimento critico, rilanciandolo sotto forma di tweet, post, video, email eccetera. È come se la verità si autoproducesse per conferma numerica. Se la fonte è appetibile, prestante, cool, come può esserlo un leader politico, una modella avvenente o un divo rock, il godimento è anche maggiore, perché induce in noi una sorta di identificazione, noi – per così dire – siamo lui (o lei).
Il campo del potere raggiunge così il suo risultato finale: imprigionare la parola per osmosi ed empatia, senza dover ricorrere alla repressione.
Nel suo libro Perché il mondo arabo non è libero (Spirali), lo psicanalista Moustapha Safouan scrive che i dittatori sanno bene che per dominare un territorio occorre cancellare la sua memoria e la sua lingua. È quello che è accaduto all’Iran di Khomeini, che ha imposto l’obbligo della lingua araba nella scuola e nei test d’ingresso all’Università e quello che vuole fare Putin imponendo la lingua russa nei territori invasi dell’Ucraina. Ma anche la cancel culture, così in voga negli Stati Uniti, e non solo, vuol negare la memoria intervenendo sulle parole, modificando il loro senso e il loro valore, omologando tutto a tutto…
L’omologazione, infatti, è lo strumento principe di ogni ideologia totalitaria. E davvero non la troviamo solo in Iran o in Russia. Oggi in Occidente si è sviluppata una tale ideologia potenzialmente totalitaria, differente da quelle del passato novecentesco e definibile come mass-radicalismo. Essa agisce infettando e riducendo tutti i canali comunicativi al cosiddetto pensiero unico, noto comunemente come “politically correctness”, correttezza politica. La cappa di repressione linguistica del mass-radicalismo si esercita in tutti i campi, specialmente nei media, e in particolare attraverso la neutralizzazione del linguaggio, dal quale devono essere espunti tutti gli indicatori specifici (sesso, età, religione, nome di famiglia eccetera) allo scopo di trasformare i parlanti in una massa amorfa, atomizzata, quindi facilmente controllabile e indirizzabile verso fini prestabiliti. Lo sradicamento del passato dettato dalla cancel culture ne è uno degli esempi più vistosi, come l’ideologia woke che ne è alla base. Ma lo è anche il metodo schwa: si tratta di una de-sessualizzazione del linguaggio inserendo asterischi al posto delle terminazioni di genere delle parole. O, più in generale, sostituendo la parola “sesso” – portatrice di differenze, conflitti, imprevedibilità – con “genere”, termine neutro che invece può essere facilmente addomesticato e manipolabile a piacere. Lo scopo apparente di queste ideologie coincide con la promessa utopistica di realizzare tutti i desideri, consentendo a ciascuno di “essere quello che vuole essere”. Ma in realtà mira all’“uomo nuovo”, risultato di una totale manipolazione degli esseri umani.
Lei scrive che il giornalismo non ha da essere un potere, né un contropotere, ma un antipotere. Qual è l’apporto che il giornalismo può dare alla civiltà della parola, anziché all’incultura della luogocomunicazione?
Il giornalismo, cui è dedicato un capitolo specifico di Dirsi tutto, agisce su un crinale pericolosissimo della comunicazione: si trova cioè al confine fra il campo del potere e quello della libertà. Da sempre i media sono stati creati e utilizzati per esercitare un certo potere: è una loro dimensione ineliminabile. Ma la parola libera, pur sottoposta a così potenti condizionamenti, è anche a disposizione dei giornalisti e dei comunicatori, non esclusi quelli che si occupano di pubblicità, di marketing e di pubbliche relazioni. La creatività originaria del verbo funge da antipotere anarchico e corrosivo e fa sì che nessun mascheramento del potere, per quanto pervasivo, possa operare all’infinito. Prima o poi, ogni dispositivo autoritario esercitato sulla parola decade e muore (o, per usare una espressione comune ad Einstein e a Popper, “viene travolto dalle risate degli dei”). I giornalisti e i comunicatori, dunque, devono fare propria questa creatività della parola, far sì che funga da antipotere. Per farlo sono costretti a rischiare di persona, spesso la carriera, ma a volte anche la vita. Ecco perché stampa, radio, tv e internet non possono essere considerati “Quarto, Quinto o Sesto” potere. Se infatti si traducessero in “contropotere” – rispetto a quelli di istituzioni, politica, economia, finanza, cultura, eccetera –, finirebbero con il riprodurne, rovesciandoli, tutti i difetti. Devono invece esercitare un “antipotere”, liberando negli articoli, nelle inchieste, nelle interviste e nelle recensioni la creatività della parola. Qualsiasi potere, anche in una società democratica, costruisce le sue gabbie ideologiche: il compito pericoloso ed esaltante del libero giornalismo consiste nell’aprirle. Mettendo così il pubblico nella condizione di giungere autonomamente a cogliere la novità e la verità delle notizie, moltiplicando i bit informativi di cui esse sono portatrici.