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L’ETÀ, IL FARE, LA CITTÀ

L’esigenza di organizzare il convegno dal titolo Seniores. L’età, il fare, la città (Bologna, 27 settembre 2022) è nata in occasione della cosiddetta “ripresa”, dopo che, per ben due anni, era accaduto qualcosa di mai avvenuto prima: la chiusura e il blocco di interi paesi stretti dalla morsa delle normative per l’emergenza da Covid-19. All’improvviso, nel silenzio di strade e piazze deserte, i telegiornali hanno incominciato a trasmettere immagini di bare in successione, divenendo spettacolo della morte. Nello sconcerto generale per l’inarrestabile infezione planetaria, è accaduto che il presidente di un paese latino abbia giustificato la sfilata di quelle bare con l’elevato numero di anziani in un paese come l’Italia costituito da una popolazione “vecchia”, come la sua storia. Questo presidente ha fatto forse un calcolo facile, sommando la tradizione italiana di arte e d’invenzione al numero di centenari che fioriscono al sole della penisola. Esclusi dalla vita civile perché cagionevoli di salute, i cosiddetti anziani sono stati soverchiati da quella “tutela” della salute che vorrebbe risparmiare la vita, a partire dalla paura della vita.

Nella vita, invece, ciascuna cosa procede dall’ossimoro, dalla questione che non si chiude mai. Quegli anni hanno dato la chance nel nuovo millennio per l’introduzione di un altro tempo e per l’intervento del modo della vita, della sua modernità (dallo stesso etimo di modus), proprio nel momento in cui la vita sembrava confinata nella sua fine. Mai come oggi, per l’Italia e per ciascuno, urge avviare un processo di valorizzazione della vita attenendosi alla memoria, ovvero all’esperienza, attraverso il modo della parola, la testimonianza. In assenza di questo processo la memoria viene convertita nel deposito del già detto e del già fatto, che diventano subito sinonimo di vecchio. Esattamente come avviene per chi dice dell’Italia che “è stato” un grande paese di artisti e scienziati straordinari. Oggi, per l’Italia e per ciascuno, si apre la scommessa di non accettare la dittatura dello standard della storia, intesa come canone passatista, che nega la memoria, nega l’esperienza in atto, l’attuale della testimonianza, riducendo la vita a ricordo da non dimenticare. Questo canone è retto sempre dall’idea di uguale e, pertanto, dal regime della compensazione secondo cui al periodo up ne corrisponderebbe uno down, decadente. Il lockdown avrebbe rappresentato il segno della decadenza prima dell’Italia, poi dell’Europa e, infine, dell’Occidente. Salvo poi constatare come il Covid, nelle misure di contenimento ancora attive a Oriente, sia il “più rumoroso marchio made in China” (come scrive il dissidente cinese Zhou Qing nel n. 88 del 2020 della rivista “La città del secondo rinascimento”).

Nella Grecia antica, la decadenza era misurata dalle tre Parche, che tessevano il filo della vita dell’uomo, il filo delle età funzionali alla contabilità della vita, secondo l’idea di durata. L’età sarebbe intesa così come segno, che spetta a ognuno – ogni uno sistemato nella serie degli uni – in quanto destinato a diventare via via decadente e poi malato. La vecchiaia sarebbe, allora, la malattia dell’età di ognuno. Malattia incurabile perché “tutti gli uomini sono mortali” (Aristotele) ovvero tutti sarebbero accomunati dalla direzione verso lo stesso destino ineluttabile. Quindi, tutti presi nel regime penale e penitenziario, perché la vita deve arrestarsi al capo-linea, con il taglio del filo. Disturba, allora, chi non sta al giogo di questa comunanza ideale, per esempio perché, anziché ricordare i bei tempi della cosiddetta gioventù perduta – degli anni in cui il fare non era espunto dalla vita –, prosegue a intraprendere nuovi progetti e nuovi programmi e non risparmia il sorriso e la testimonianza di ciò che sta facendo. Sempre secondo questa storiella, anche l’Italia sarebbe destinata alla sua fine, come l’Occidente alla “fine della civiltà”, con grande successo di tutti i Caronte che si danno il compito di traghettare, lentamente, alla buona morte, ovvero al risparmio delle risorse della vita o del pianeta, destinati a finire. Per ciascuno – non per ogni-uno che si allinea nella serie degli uni – la partita da giocare, allora, non è quella a scacchi con la morte, come nel film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo, ma è quella che si attiene alla direzione verso la qualità, lungo i dispositivi da instaurare man mano, lungo l’esperienza in atto. In questi dispositivi del fare la testimonianza sfugge all’imperativo di ricordare e a quello di dimenticare, perché la memoria è nell’atto, non è ideale. Soltanto se ideale la memoria si perde, in assenza di fare. In pratica, quel che non si ricorda resta adiacente e occorre il dispositivo della parola, cercando e facendo, perché sia accolto nell’atto, entri nell’esperienza attuale e non sia considerato perduto. Accettare la vita implica attenersi al progetto e al programma che non sono ideali perché procedono secondo occorrenza. Il decadimento si produce per una non accettazione della vita, cioè quando ognuno è preso dalla sua idea di fine del tempo e si rappresenta in base all’età della convenzione, secondo cui ci sarebbe un’età per fare e un’età per consolarsi, per “concedersi” per esempio qualche viaggetto, la compagnia del nipotino o gli hobbies che “prima” il lavoro impediva. L’età della convenzione è l’età del cedimento, non quella della partita per la riuscita. Basta leggere le biografie degli artisti o quelle degli scienziati per constatare che non c’è mai stato per loro un “prima” e un “dopo”, che essi hanno lavorato ciascun giorno della vita.

La vita non vale secondo il canone della durata o quello dello spazio. La vita vale. Ovvero, la direzione costante della vita è verso il suo valore. La costanza è virtù della vita in atto, mentre il cedimento segue l’idea di fine del tempo, di fine della vita. La vita è ineguagliabile e immisurabile, saranno i risultati di quel che si fa l’approdo della vita al valore assoluto, non al valore convenzionale. Come potremo constatare lungo le testimonianze di questo convegno, l’idea di età è una convenzione funzionale a definire il canone della vita, ad assoggettare la vita all’idea di fine del tempo e, a partire da questa idea, a fabbricare soggetti. La partita della vita, invece, non si specifica a partire dalla sua fine, ma per la tensione verso la salute intellettuale di chi non cede, di chi non ha cedimenti nel progetto e nel programma. Allora, il Senior intende che la partita della vita è costante, con il suo fare, con il suo gioco e le sue invenzioni, non aspetta che questa sia garantita, per esempio, dalla moltiplicazione della somministrazione di farmaci per lenire la vecchiaia, la “malattia dell’età”. E oggi sta nascendo una nuova economia, la Silver Economy, costituita da attività economiche rivolte a cittadini dai sessantacinque anni in su, intesi come nuova risorsa per rilanciare le economie di vari paesi, mentre la Commissione Europea estende la definizione di Silver agli over cinquanta. Questa parte della popolazione ha speso 3700 miliardi di euro in beni e servizi, soltanto nel 2015, contribuendo per 4200 miliardi di euro al PIL europeo e sostenendo 78 milioni di posti di lavoro in tutta l’Unione.

La partita della vita comporta anche che la città sia sempre più la città del tempo, la città del fare, non un luogo-museo in cui fermarsi a contemplarla. La città esige il movimento, questo movimento è anche intellettuale e, come l’acqua, pervade le strade della città, senza più confini, prescrizioni e proibizioni: è la città della salute.

L’età è l’età della vita nel suo narcisismo, è l’età della ginnastica intellettuale della parola in atto. Senza l’idea di fine, le cose si fanno secondo l’occorrenza, senza idealità, senza l’idea di sé e dell’Altro. Allora, ciascuna età è l’età della vita, ciascuna età è costituita dall’accettazione della vita non più presa nelle categorie e nel canone. L’età è l’età della costanza e della tranquillità, dell’accettazione del disturbo, inderogabile e irrimandabile quando è in atto il dispositivo della parola. È l’età della quercia millenaria, che, sul pendio della collina prossima al mare, resistette alla fiumara. La quercia si attiene alla virtù della costanza della vita.

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LA LINGUA DI MACHIAVELLI OLTRE LA NUOVA NORMALITÀ

L’aria leggera inebriava di iodio la carta e perfino il legno della matita da disegno, mentre lievi folate del vento profumato di primavera mediterranea solleticavano le lettere della tastiera del MacBook Air. L’immagine del cielo terso che si apriva sul mare soleggiato del desktop sembrava proseguire oltre il dispositivo, nel cielo immenso della piccola marina salentina. Francesca era fortunata a poter lavorare dal tavolino della terrazza, ombreggiata soltanto dalle altissime palme, che avevano salde radici secolari nel giardino della villa. Altri suoi amici erano rimasti a Bologna, chiusi nella zona rossa con il divieto di allontanarsi dalla residenza e l’unico mare che potevano vedere era quello trasmesso dai video di YouTube.
Incredibili le opportunità che offre la tecnologia – aveva pensato –, adesso ancora più essenziale per non smettere il ritmo di appuntamenti e riunioni, durante le fasi più acute della pandemia da Covid-19. Molti erano sbarcati dalle città per lavorare in remoto dai piccoli borghi e dalle marine generosamente sparsi lungo il Belpaese. Da quando l’Italia era stata dichiarata zona rossa, con la limitazione degli spostamenti e il divieto assoluto di raggiungere altre regioni, la regola era diventata lavorare in smart working per evitare il contagio da coronavirus, mentre il divieto di assembramenti aveva reso pranzi e cene al ristorante un lontano ricordo, come del resto le passeggiate per le vie dello shopping. Ma era stata davvero la pandemia ad avere trasformato così il quotidiano? Se l’era chiesto spesso Francesca, in quella primavera dai colori di pesco, approdata puntualmente al secondo anno della pandemia.
Secondo l’unilingua, la lingua presunta comune, la lingua dell’intesa ideale, l’emergenza sanitaria da Covid-19 deve favorire la cosiddetta “nuova normalità”, segnando una sorta di divisione fra un prima e un dopo. Prima era un tempo felice, perché la credenza nel potere della scienza e lo sfruttamento della natura erano illimitati, e dopo, colpevole di non avere rispettato il debito nei confronti del cosiddetto ecosistema, l’uomo sarà costretto a limitarsi, a utilizzare soltanto i beni che la natura gli ha offerto, magari con l’aiuto delle tecnologie, ma rigorosamente finalizzate alla salvezza dell’ambiente e alla salute sociale.
Questo ipotetico stile di vita, che dà per superati il luogo di lavoro, l’incontro, la festa, sembra più che una novità uno scampolo della vecchia normalità, la riproposizione dei vecchi canoni puristi e radicalisti, secondo cui l’infezione globale impone il sacrificio totale, la punizione egualitaria, per lo spazio che l’uomo si sarebbe accaparrato attraverso la speculazione scientifica e finanziaria.
Ancora una volta la ricerca e l’impresa, quindi, sono colpite dal pregiudizio purista, che segue l’idea di esclusione e il principio negazionista, e dal pregiudizio radicalista, che si attiene all’idea di inclusione e al suo principio posizionista. Non a caso prospera nei mass e social media quella che Leonardo da Vinci chiamava la lingua dei litiganti, fra negazionisti della pandemia e posizionisti pro o contro i vaccini. In questo modo la nuova normalità a schermi unificati e messaggi moltiplicati conferma il sistema dell’unilingua.
Cosa c’è di nuovo nei canoni che riducono tutto all’unità ideale, secondo la coppia dei litiganti? I Latini chiamavano norma la squadra che serviva per misurare gli angoli retti. Oggi, la presunta nuova normalità serve a misurare, e a stabilire, quali sono gli angoli retti della vita, ovvero i nuovi canoni entro cui la vita deve svolgersi. La nuova normalità si doppia quindi sullo standard della normalità, in cui il nuovo sarebbe tale rispetto a qualcosa di già avvenuto, fra il prima e il dopo. Questa è la diversità, misurata a partire dall’ideale di uguaglianza.
Tolta l’anomalia prospera la diversità, basata sempre su un criterio comparativo fra due cose ridotte su uno stesso piano, fra due cose ridotte a uno, rispetto alla coppia ideale. La nuova normalità sembra il business del riduttivismo, la reductio ad unum per scartare ciò che non è mai stato.
Ma la memoria come esperienza, la vita differente e varia, con il suo nomadismo intellettuale, con il suo narcisismo non sottostà al riduttivismo, che riduce all’unità l’anomalia, l’ineguale. Unificare il narcisismo della parola non riesce, perché nessuno parla la propria lingua o la lingua dell’Altro. In altre parole, qualcosa della lingua non cessa di disturbare il canone della normalità, il riduttivismo contro l’invenzione e la novità. Lo constata Machiavelli, quando scrive a Francesco Vettori: “Sogni e favole io fingo”; e altrove, quando annota “fuora de’ discorsi et concetti che si fanno”, “fuora d’ogni umana coniettura”. Il segretario fiorentino scrive legazioni, lettere diplomatiche, indirizzate al papa, agli imperatori, ai principi e ai signori delle corti d’Italia e d’Europa, senza l’oscillazione fra la fatalità e il volontarismo tipici del riduttivismo.
In quale lingua scrive Machiavelli? Egli scrive nella lingua del fare, la lingua che coglie la differenza e la varietà delle cose che si fanno, la lingua dell’esperienza. La lingua dell’esperienza non è la lingua tratta dai libri, non procede da un sapere precostituito. L’esperienza è l’esperienza in atto di cui nessuno può dare consiglio.
La lingua del fare non è appannaggio di chi sarebbe presunto detenere un sapere. La parola non è un affare professionale o confessionale. Sarebbe il viaggio iniziatico con il Virgilio o con la Beatrice di turno, conduttori attraverso i gironi e i cieli danteschi, a seconda dell’idea di pena o di spirito che animano il soggetto, soggetto a una guida, a un navigatore che indichi la strada. Ma la strada non è mai piana e non esclude ciò che disturba, come dimostra l’esperienza dell’impresa. Ecco perché l’imprenditore diviene tale quando incomincia a percorrere la strada commerciale, la strada in cui per un equivoco, per uno sbaglio nella ricerca, trova qualcosa che differisce e interviene una lingua che non è propria. Non è forse questo il bello del mercato? Il segretario fiorentino scrive alle cancellerie d’Europa nella lingua di chi è nell’occorrenza di stringere alleanze e di concludere. È una lingua che non è propria, perché trova il verso e segue una piega delle cose che non sono mai le stesse. È la lingua di chi non vede un prima e un dopo, è la lingua dell’attuale, la lingua pragmatica. Machiavelli inventa la lingua dell’industria della parola, lingua diplomatica perché si attiene alla piega delle cose che si fanno, lingua dell’impresa.
E Machiavelli non scrive secondo la polemologia, secondo la politica dei litiganti, dei riduttivisti.
Il segretario inventa la politica, la lingua dell’industria della parola, non quella del politichese, esperta nell’incertezza e nell’oscillazione, secondo cui tutto sembra finire, secondo cui è sempre il tempo dell’ultimo tempo. Differente e varia è invece la lingua di chi rischia l’impresa, di chi ha l’urgenza di trovare la piega per costruire, per proseguire, per non vendere l’azienda, per cercare nuovi interlocutori, per intraprendere, ancora, un’altra strada, la strada della parola, quella in cui l’industria della parola trova la sua piega, la sua poesia, la sua impresa e la sua politica.
La politica è la politica del tempo pragmatico, il tempo che non finisce.
La nuova normalità è gravata dall’idea di sapere cosa sarebbe finito, nella credenza che l’esperienza non valga nulla perché conta ciò che sta scritto nel libro di riferimento.
Ma il cielo, il mare, le palme, i ristoranti, le imprese e i viaggi non sono finiti per chi non si riduce e non scarta la differenza e la varietà dell’esperienza pragmatica. E Francesca s’accorse che quel tavolino era a Bologna, in mezzo al cantiere dei nuovi progetti e dei nuovi programmi – senza prima e dopo, senza più nostalgie e arcaismi – in cui avrebbe incontrato ancora nuovi interlocutori del suo viaggio pragmatico, il viaggio che non smarrisce la direzione.

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LA MEMORIA PRAGMATICA, LE SUE ARTI E LE SUE INVENZIONI

La memoria non consente l’unità. Così accade che della memoria giungano fino a noi dalla Grecia antica miti diversi intorno a Mnemosine, la dea della memoria. Figlia di Urano (il cielo) e di Gea (la terra), dopo aver giaciuto nove notti con Zeus, la dea partorisce le Muse, divinità delle arti, che danzano e cantano in musica e in versi racconti intorno alla nascita del mondo, degli uomini, degli dèi e delle imprese del padre, Zeus. Secondo altri autori, come Pausania, Mnemosine è invece il nome di una delle due fontane site all’ingresso degli Inferi. Bevendo l’acqua da una fonte è concesso ricordare, mentre, bevendo l’acqua dell’altra fonte, Lete, è possibile dimenticare.
La memoria procede dall’apertura originaria, cielo e terra come ossimoro.
Il mito insiste: la memoria esige il cielo come apertura. Altrimenti che ne sarebbe delle Muse e dell’arte? Anche l’arte, infatti, come l’invenzione procede dalla questione aperta.
L’articolazione e l’invenzione della memoria intervengono nel processo linguistico narrativo pragmatico. Il viaggio della parola, nella sua struttura pragmatica, avviene nella combinazione della tecnica come arte e della macchina come invenzione (secondo l’etimo greco). Altrimenti sarebbe la memoria come riproduzione del fatto penale nel processo. Occorre distinguere la memoria dal ricordo che riproduce il fatto secondo un’idea di pena. Questo ricordo è penoso e la vita rivolta ai ricordi come fatti vissuti è sempre in pena, ne è un esempio quanto sta accadendo con il Covid-19, nella gara fra i media a ricordare l’altra vita del Novecento.
Non sul ricordo poggia la memoria ma sulla dimenticanza, come nota Machiavelli: “Sdimentico ogni affanno”, quando ciascuna sera “entro nelle antique corti degli antiqui huomini”, con la lettura. La memoria si fa di sogno e dimenticanza, con cui le cose entrano nel racconto, nel fare, procedendo per integrazione. È con l’emergenza del rinascimento che la memoria come esperienza di ciò che si fa non è più ricordo. Anche nell’umanesimo era considerata come ricordo, e umanisti come Raimondo Lullo si ingegnavano per inventare macchine e tecniche per ricordare. Oggi i transumanisti come Raymond Kurzweil cercano con le tecnologie prossime venture la macchina perfetta, che consenta di gestire la memoria di tutte le macchine e di tutti gli umani del pianeta.
Ma la lezione del mito, secondo cui Mnemosine è la madre delle Muse, dunque delle arti e delle invenzioni, indica che la memoria pragmatica è la struttura delle arti e delle invenzioni, delle tecniche e delle macchine, non viceversa, come ritiene ogni umanesimo.
La memoria non è gestibile perché non è un deposito di dati. La memoria è esperienza pragmatica in atto, atto proprio del fare, del raccontare, del costruire. E, mentre il ricordo punta sempre all’unità ideale, a chiudere la questione per confermare un’identità ideale – come per esempio l’idea di origine, il ghénos ideale –, la memoria si specifica come esperienza pragmatica dell’avvenire in atto, non del già avvenuto, secondo la nozione comune di esperienza fondata sul passato. Credere nell’accumulazione dell’esperienza è limitarsi, perché esclude quanto di nuovo accade e il destino, così, anziché destino di valore diviene destino ineluttabile.
Lo notiamo quando, ascoltando l’interlocutore che crediamo di conoscere, riportiamo quanto dice ai ricordi, a schemi prefissati. In questo caso, l’avvenire si conforma al ricordo, la memoria in atto è cancellata e l’Altro è escluso. Non c’è ascolto e non c’è novità, perché interviene l’idea di conoscenza, ovvero l’idea di male, perché per la gnosi l’idea di bene si fonda sulla conoscenza del male.
Ma, senza la memoria dell’avvenire, senza l’ascolto (che non procede dalla conoscenza) e il racconto, anche il rischio assoluto come rischio di riuscita è tolto. Accade spesso, nell’impresa, di ascoltare il racconto del progetto e del programma dell’imprenditore. Il bello dell’impresa è già nel racconto dell’esperienza in atto, nel racconto pragmatico, come possiamo leggere negli interventi degli imprenditori della “Città del secondo rinascimento”. Non è la case history che qualifica l’impresa, ma la direzione in cui va la scommessa di riuscita di ciascuno. Questa scommessa si gioca nell’industria, che implica la combinazione indispensabile fra la macchina e la tecnica, fra l’invenzione della memoria e l’arte della memoria: l’ingegno interviene nel modo del gerundio, facendo. L’ingegno non è il congegno per misurare o per risparmiare la memoria.
Il fare senza l’industria è soggetto all’idea di creatività, ovvero all’ideale del creare dal nulla, a partire dalla cancellazione della memoria, cui seguono tutti i blocchi e i contraccolpi di chi crede che occorra avere o essere per fare. La memoria senza il fare, invece, è guidata dall’ideale, non dall’idea che opera alla riuscita.
Lo statuto di imprenditore sfata queste credenze. Non a caso la memoria come invenzione è la formazione dell’imprenditore e la memoria come arte è l’insegnamento dell’imprenditore.
L’invenzione e la tecnica, la formazione e l’insegnamento, senza la memoria diventano la cosiddetta innovazione e il tecnicismo, ideologie della macchina e della tecnica secondo l’idea di fine del tempo, senza il modo del ritmo proprio al fare.
La mnemomacchina e la mnemotecnica, prodotti dell’umanesimo, escludono l’esperienza pragmatica.
Questa esperienza è stata introdotta dalle botteghe rinascimentali con Leonardo da Vinci e Machiavelli e ripresa dai nostri artigiani e imprenditori. È esperienza non purista, senza epurazione dell’errore di calcolo costitutivo dell’industria. L’ingegneria della memoria non corregge l’errore in nome di un sapere ideale perché è ingegneria del fare, delle cose che si fanno secondo occorrenza, proprio perché il fare segue il racconto industriale.
La forza dell’industria, anche durante le crisi, è la sua tensione verso la cifra, la qualità e un’altra salute.
Per questo è essenziale l’analisi della struttura direttiva nel dispositivo di brainworking, dispositivo di arte e d’invenzione, dispositivo della memoria pragmatica in atto, dispositivo industriale.

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LA CIVILTÀ DEL DIRITTO ANZICHÉ L’INCULTURA DEL SOSPETTO

Nel libro Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa (il Mulino), scritto da un fine giurista come Filippo Sgubbi, sono raccolte venti tesi dalla cui lettura risalta come, da alcuni decenni in Italia, sia in atto la metamorfosi del diritto in diritto penale totale: un diritto sempre più rivolto contro l’Altro, orientato più dalla vendetta contro il cittadino che dalla giustizia. Il diritto penale totale riguarda ciascuno, avverte l’autore: “Ad analogo sviluppo penalistico si presta la logica della violenza strutturale: razzismo, sessismo, omofobia, e perfino subordinazione in materia di rapporto di lavoro, sono fenomeni che aumentano il tasso di vulnerabilità di alcune categorie. Chiunque si senta discriminato da una condotta di un altro soggetto e si senta trattato in modo non paritario, è legittimato a sentirsi vittima di un illecito. (…) In tale contesto – prosegue l’autore –, il pregiudizio maggiore è subìto dal diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e dalle altre forme di creatività umana, pur trattandosi di cardini di un sistema democratico. Le censure dettate dal politically correct sono ben note e colpiscono la libertà di parola e la libertà dell’arte”.
Come meravigliarsi che la struttura produttiva del paese, costituita da un tessuto di PMI unico al mondo, negli ultimi decenni abbia subìto un attacco giudiziario e fiscale senza precedenti? Oggi viviamo in un paese che stigmatizza, persegue e mette al bando, attraverso vere e proprie persecuzioni da parte di tribunali e PA, imprenditori e professionisti – la cosiddetta media borghesia – perché il loro fare è sottoposto a un’idea penalistica: la mano di chi fa non è mai abbastanza pura dal momento che ha bisogno di costruire, d’inventare, di produrre e di vendere i prodotti della propria industria.
Scrive ancora Sgubbi: “La responsabilità penale si può allora spiegare anche con le categorie puro/impuro, come nella visione selvaggia del peccato. Il reato è divenuto una colpa per alcune categorie sociali (…), come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società.
(…) Il reato e la colpa sono uno stato: uno stato che precede la commissione di un fatto. Assomiglia al peccato originale proprio della tradizione di talune religioni. Con una peculiarità: non si tratta di una colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia di attività (non, si badi, a uno specifico fatto) che svolge nella vita”.
È un diritto penale totale specializzato nella ricerca della macchia, come nota ancora l’autore: “I soggetti impuri appartengono a una specifica categoria sociale. Sono coloro che hanno una colpa/peccato insita nel ruolo sociale ricoperto. Questa macchia originale – prosegue l’autore – è rappresentata dall’autorità, dal potere decisionale sugli altri consociati di cui necessariamente alcuni soggetti sono investiti”.
Non è forse questo il leitmotiv della litania sociale che vuole criminalizzare l’autorità dell’imprenditore, sottoponendola al principio del “fare gruppo” a tutti costi? Questo criterio non vale quando l’imprenditore deve pagare per aver assunto decisioni non “condivise” dai collaboratori o per foraggiare un welfare aziendale che dovrebbe essere finanziato dalle tasse dei cittadini.
L’imprenditore non è una categoria sociale, ma, se lo fosse, sarebbe l’unica a non essere indicata come “socialmente protetta”, anzi “penalmente sospetta”.
Ecco perché “si moltiplicano protocolli di comportamento, decaloghi di trasparenza, codici etici e di autodisciplina, modelli organizzativi nei più svariati settori”, nota ancora Sgubbi, che aggiunge: “I privati titolari di determinati ruoli sociali sono gravati da compiti di polizia a favore dello Stato, da svolgere sulla base di parametri incerti (…).
La dimensione pubblica prevale sugli interessi privati”.
Nel libro Il gusto dell’onestà (Spirali) Armando Verdiglione scrive: “Il penalpopulismo chiama “rivoluzione culturale” la deroga alle garanzie, ai diritti, alle ragioni civili, alla politica civile, la prolessi ideale della pena affidata all’arbitrio del sospetto, la morte preventiva, la soluzione della questione della parola attraverso la confisca, il carcere preventivo, il sistema preventivo come migliore sistema di polizia e di pulizia, lo Stato nel suo radicalismo e nel suo purismo”.
E il sospetto si fonda sul principio della prevenzione proprio al penalismo religioso. A proposito dei Diritti dell’uomo contro il popolo (Liberilibri), nota infatti Jean-Louis Harouel un nuovo “diritto penale della religione dei diritti dell’uomo”, che “imbavaglia l’opinione tanto efficacemente quanto un regime totalitario”, indossando i panni di una religione di stato, quella dello stato etico, tanto più intollerante verso chi non si conforma ai suoi precetti.
Sgubbi scrive che la cultura del sospetto dilaga anche, per esempio, tramite “la normativa c.d. antimafia: misure di prevenzione personale e patrimoniale fondate sul sospetto e sui meri indizi che – nonostante i moniti della Corte EDU – sono esorbitate dal perimetro mafioso, per investire anche delitti quali l’art. 640-bis c.p. e l’associazione per delinquere semplice purché finalizzata alla commissione di numerosi delitti contro la pubblica amministrazione”. Il sospetto, allora, “può essere rafforzato proprio dall’assenza di prove, in quanto dimostrativa di abile callidità”.
Fino al formante algoritmico proprio ai big data che “assumono centralità nell’operato della giustizia, anche penale: tutti gli elementi di fatto e di diritto entrano in database in grado di utilizzare e di elaborare tali dati a fini predittivi. (...) La libertà perde il suo primato e tende a diventare eccezione...”, conclude l’autore.
Ma il diritto è questione di civiltà – come già notava Giambattista Vico a proposito degli antichi Romani, che considerava inventori del diritto e della poesia –, non una questione di stato etico e tanto meno sociale.

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IL RITO SACRIFICALE DELLA PURIFICAZIONE SOCIALE

Il libro La gabbia delle idee. Il grande inganno del politicamente corretto esplora un tema di cui si parla molto, ma su cui è stato scritto poco: il politicamente corretto. È un libro politico, nell’accezione della polis, della città, perché avvia un dibattito di civiltà, in cui gli interventi degli autori offrono diverse letture sul tema.
I princìpi del politicamente corretto, nati come stortura dei princìpi della rivoluzione francese e proseguiti nelle ideologie del Novecento, hanno promosso la dittatura delle “differenze” per unificarle, parificandole nell’equivalenza. È il grande inganno del multiculturalismo, nota nel libro Guglielmo Piombini, a proposito dell’apparente ammissione delle differenze nel multiculturalismo. Per questo oggi sentiamo parlare di nuove categorie di cittadini, parcellizzate in specifici gruppi che sono funzionali all’annullamento della differenza e della varietà nell’uguaglianza delle “differenze”. Non a caso i partiti politici – che pure hanno rappresentato istanze diverse – oggi sono osteggiati da gruppi di attivisti, portatori di interessi sempre più particolari per la tutela di diritti universali che, in quanto universali, ci rendono tutti uguali, al punto da causare una vera e propria crisi del diritto e delle democrazie.
Emblematico del politicamente corretto è il caso di Greta Thunberg, che a quindici anni lascia la scuola perché ritiene più giusto incominciare uno “sciopero della scuola per il clima”.
Cosa è più politicamente corretto di una giovane donna che, dalla Svezia e dalla sua bicicletta, ammonisce: “Il clima è la questione più importante”? Già nel 2006, nel saggio La regressione democratica (Spirali), Alain Gerard Slama indicava il politicamente corretto come il totalitarismo del XXI secolo, implacabile quanto il comunismo e il fascismo, ma “con l’unica differenza che le telecamere di videosorveglianza, i rilevatori elettronici, gli stage di rieducazione e i trattamenti psichiatrici avranno sostituito i campi”. A cosa punta il politicamente corretto, quando, per esempio tramite il welfare state, diventa un modo per acquisire consenso elettorale, anche rischiando di paralizzare l’economia e l’impresa? Nel suo saggio pubblicato in questo libro, La gabbia delle idee, Carlo Zucchi annota: “In un ordinamento democratico gli incentivi legati alla ricerca del consenso favoriscono la formazione di un dispotismo materno in cui il legislatore – che come una mamma per definizione sa cosa è meglio per i propri figli – pretende di sapere cos’è meglio per ogni categoria sociale e professionale, così dà vita a una fittissima quanto caotica selva di privilegi ed eccezioni legali e fiscali, la cui incertezza finisce per complicare, e talvolta paralizzare, l’attività degli imprenditori e perfino degli stessi professionisti chiamati a interpretare le normative vigenti”. Interviene così l’ideologia del salvatore: “Il magistrato è diventato il novello filosofo-re di Platone, ossia colui che governa in quanto sa.
Ma cosa sa il magistrato? Sa la cosa più importante, la gnosi che svela il mistero e che ‘assicura’ la salvezza della società: sa tutto delle malefatte dei disonesti. Sì, conosce il male e i meccanismi attraverso cui opera, e avendo visto in faccia il diavolo, lui e lui soltanto può esorcizzare la società dalla dannazione eterna”.
Ecco allora che, in nome della pulizia dalla corruzione, il politicamente corretto brandisce il bastone sacerdotale, mettendo al bando e al rogo chi a esso non si conforma. Accade così che, per esempio, qualche imprenditore sia costretto a fare appello a quel welfare, per mezzo di cui avviene la “redistribuzione della ricchezza”, per legittimare le strategie dell’azienda dinanzi all’“opinione pubblica”. La logica è questa: a partire da una ingiusta “discriminazione positiva”, che fonda la vittima da salvare, il politicamente corretto codifica regole preventive e modi di vivere. Farsi vittima, allora, è accettare il pettegolezzo dilagante del politicamente corretto, ovvero accettare di non pensare o di pensare nel modo conforme alla salute di stato.
E chi è più conforme della vittima? L’idea di vittima è funzionale al regno del tribunale, che se ne avvale per avviare in Occidente il rito sacrificale della purificazione sociale.
Ray Bradbury fa dire al capo dei pompieri: “Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno viene fatto uguale. (…) Ecco perché un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe essere il bersaglio dell’uomo istruito? Cosicché, quando le case cominciarono a essere costruite a prova di fuoco, non c’è stato più bisogno dei vigili del fuoco, dei pompieri (…).
Furono assegnati loro nuovi compiti, li si designò custodi della nostra pace spirituale (…): censori, giudici, esecutori.” (Fahrenheit 451, 1951). Il fuoco purificava le streghe dalla blasfemia, dando loro la salvezza con la morte.
Così, l’idea di salvezza diventa idea di sacrificio e della buona morte. E allora: “Libri bruciati e schermi accesi.
Robotizzazione. Umanaio globale”, nota Verdiglione nella Grammatica dello spirito europeo. L’androgino trinitario e la bilancia dell’orrore (Spirali, 2017).
Il politicamente corretto si organizza, vanamente, contro la partita della salute, partita non purista e senza nemico.
Alla salute, alla qualità della vita, non si approda tramite la purificazione del fuoco e l’intelligenza si coltiva con la lettura, non con la dittatura del politicamente corretto. Slama: “Con il politicamente corretto incominciamo a capire che la libertà può perdersi senza essere stata strappata e senza che nessuno abbia la sensazione di averla persa, allo stesso modo in cui un individuo può cacciarsi in una situazione inestricabile, senza essere vittima di nessuno e senza averlo voluto. Per semplice ignoranza o per abulia”.

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L’EMILIA ROMAGNA E IL RILANCIO INDUSTRIALE DELL’ITALIA

In Emilia Romagna non è ancora possibile tracciare una mappa della rivoluzione annunciata con la digitalizzazione manifatturiera di Industria 4.0 – promossa in Europa nel 2011 dalla Germania per finanziare le aziende nazionali che necessitavano di un ammodernamento tecnologico – perché è un processo ancora in atto. L’Italia, che già nel rinascimento aveva inventato un nuovo modo di commerciare e di produrre (il termine “impresa” è rinascimentale), tramite Industria 4.0 può inventare un modo specifico, un altro modo di fare industria e un altro modo di fare impresa.
Si dice che l’Italia non riesca a “fare sistema”, ma questo per tanti versi è un vantaggio, perché ha comportato la proliferazione di una quantità di piccole e medie imprese, che viaggiano ciascun giorno in direzione di nuovi approdi, in un pullulare di scambi internazionali e invenzioni che non ha eguali altrove e costituisce la ricchezza peculiare del nostro paese.
Le imprese italiane non temono l’innovazione, sono altre le ragioni della loro cautela, che spesso risulta una dissidenza, una necessità di non uniformarsi agli standard. Qualche mese fa, un imprenditore che produce stampi rilevava che la stampa 3D non è in concorrenza con quella tradizionale, perché ha il vantaggio di produrre con la tecnologia additiva delle polveri particolari meccanici di dimensioni molto ridotte, mentre gli stampi che costruisce nella sua azienda sono il risultato di progetti e procedure che inventa di volta in volta su misura per il cliente. A proposito dell’Internet delle cose (IoT), si chiedeva invece con quali criteri e da chi siano raccolti e gestiti i dati, non escludendo l’eventualità che possa diventare un altro modo per controllare il lavoro delle imprese.
Questo imprenditore enunciava forse un pregiudizio contro le tecnologie? Oppure la questione è un’altra, e cioè come avere fiducia in strutture predisposte da apparati istituzionali, in un contesto in cui la politica è impegnata a costruire muri di burocrazia in ogni ambito che non segua lo standard, com’è necessariamente quello dell’impresa italiana, scelta come partner di progetti internazionali proprio perché offre una grande duttilità e proposte inventive? In Italia, poi, la durata media di poco più di un anno dei governi ha convinto gli imprenditori a non aspettare l’attuazione di una politica industriale da parte di istituzioni così restie all’innovazione.
La forza delle nostre imprese 4.0 è la forza di quel rinascimento italiano che vive ancora nelle nostre moderne botteghe industriali.
L’economia 4.0 corrisponderà all’attuazione di nuovi standard o avvierà la loro messa in questione? In entrambi i casi, costituirà l’opportunità per uno sforzo d’invenzione, ancora una volta, per produrre in un altro modo, un modo che esige il cervello dell’impresa. Occorre trarre il meglio dal progetto Industria 4.0, forzando la normativa laddove dispone procedure che bloccano l’azienda. Oggi, quando un’azienda chiede di produrre, per esempio, uno stampo su misura, non propone il suo progetto, ma la sua idea. Spetta all’imprenditore portare a scrittura quell’idea costruendo lo stampo, valutando, per esempio, se i materiali da impiegare possano modificare il progetto stesso dello stampo e, quindi, anche la domanda del cliente.
L’economia 4.0 metterà in questione sempre di più l’idea di luogo, annullando le distanze: il cervello delle imprese non è più localizzabile.
Questa economia potrà avviare la trasformazione anche di aree del paese tradizionalmente lontane dai grandi centri produttivi, se però non si chiuderà nella mera tecnologia. Che il cervello non sia più localizzabile implica che non possa più essere inteso come sistema. Ma, allora, perché continuare a credere che le tecnologie possano assicurare un nuovo sistema per unificare e uniformare? Il libro Europa 4.0. Il futuro è già qui (Livingston) avvia un dibattito e indaga come le tecnologie possano rilanciare la particolarità, l’invenzione, la parola, anziché negarle e standardizzarle.
Alcuni tecnologi annunciano che l’approccio inevitabile è il system engineering, l’ingegneria dei sistemi che s’integrano fra loro? Ma non è quello che già facciamo attraverso il nostro cervello, quel cervello che è nella logica della parola, quando integriamo informazioni differenti, durante la giornata? Allora, l’economia 4.0 è un’opportunità nella misura in cui non nega la logica della parola e il suo cervello. In questa logica anche il lavoratore non è più il dipendente, inteso come mero esecutore, perché l’economia 4.0 ha bisogno di lavoratori allenati al ragionamento e all’invenzione, caso per caso, così come di venditori che non vendano più soltanto il prodotto. Nei prossimi anni assisteremo quindi a un divario netto fra questi lavoratori e la massa di altri lavoratori che, invece, subiranno la trasformazione. Il cervello industriale metterà sempre più in crisi proprio gli apparati e le burocrazie, che da sempre hanno orrore del movimento e per questo impongono la localizzazione e la parcellizzazione in campi sempre più specifici. La nostra era, l’era intellettuale, è l’era industriale.
Lungo questa direzione, e nonostante la burocrazia, l’Emilia Romagna è candidata a diventare la Data Valley europea, con la costruzione del Tecnopolo di Bologna, che sarà il più grande di una rete di altri dieci e ospiterà il Data Center del Centro Europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine, oltre al nuovo super computer da 120 milioni di euro, Leonardo, che raccoglierà i Big Data del nostro paese, e non solo. Ma nel Tecnopolo avranno sede anche il Centro di competenze Industria 4.0 BIREX, le biobanche dell’Istituto Rizzoli, l’Agenzia nazionale Italia Meteo, ARPA Emilia-Romagna, ENEA e altre imprese. L’Emilia Romagna, e quindi l’Italia, costituirà il laboratorio europeo in cui avverrà questa trasformazione. Spetta a noi cogliere la nuova sfida per il rilancio industriale del nostro paese.

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COME LA CITTÀ SI SCRIVE SULL’ACQUA

“L’acqua nella terra non ha loco”, scrive Leonardo da Vinci nel Codice Leicester (1506-1510).

L’acqua non ha luogo, non sta ferma.
Nemmeno l’acqua stagnante è acqua immobile. L’acqua si combina con la terra. Dal mare nascono le antiche montagne dell’Appennino bolognese.
Dalla terra sgorga l’acqua, che, lungo il viaggio, si arricchisce di nuovi elementi. Ecco le acque termali.
L’acqua è frutto della combinatoria degli elementi perché non riposa mai: gli elementi si integrano nel viaggio dell’acqua. “Nessuna cosa sanza lei si move” e “in essa forza è vita attiva”, scrive ancora Leonardo.
La forza dell’acqua è invisibile, è la tensione pragmatica dell’acqua.
Quando le cose si fanno entrano in un ritmo, nell’automazione propria dell’industria: l’acqua è indice dell’automazione.
Non è un caso che nell’area di Alto Reno Terme si sia sviluppata una fiorente attività metalmeccanica e siano nate le ferriere per la lavorazione del ferro: sfruttando la tensione propria dell’acqua, era possibile azionare un maglio che permetteva di forgiare il ferro, producendo utensili e attrezzi per l’agricoltura, in particolare per procurare il legno dei boschi necessario all’attività delle carbonaie.
Le ferriere, le carbonaie di Porretta, ma altrove, a Bologna, le filande e l’industria della seta. Quando Bologna era città di canali, avviarono la sua fortuna gli oltre cento mulini ad acqua per la lavorazione della seta, che nella città aveva l’industria più fiorente d’Europa, fra il XVI e il XVII secolo, com’è oggi l’attuale industria delle macchine automatiche. L’acqua produce energia elettrica attraverso le dighe, l’acqua macina il grano nei mulini, l’acqua diventava il vapore che alimentava il motore dei treni.
Dove c’è acqua c’è automazione, c’è industria, c’è il fare: c’è vita. Non a caso le città sono sorte lungo i fiumi, sulle loro foci, lungo il mare. L’acqua, l’automazione, l’industria, la città.
Come indice dell’automazione, l’acqua indica la direzione delle cose che si fanno. L’automazione non ha nulla di naturale. Con l’automazione anche la natura è artificiale, come provano i paesaggi, le montagne e le valli, le strade e i borghi delle città della nostra penisola: paesaggi d’arte e d’invenzione, frutto del ritmo del fare.
Tutto ciò che incontra il viandante, il navigante, il migrante non ha nulla di naturale, il viaggio è costruttivo.
La città del fare si scrive sull’acqua, che non ha loco e non ha posa, sfugge alla possessione e alla padronanza, puntando al compimento di quel che si fa e di quel che si scrive. L’artista, il poeta, il ricercatore, il viandante, l’imprenditore constatano che nulla è immobile. La casa e la città che sono idealizzate rovinano nell’immobilismo.
E trionfa la burocrazia, che sostituisce al governo, proprietà del tempo, la paralisi, negando il pubblico.
L’acqua indica la direzione. L’adagio secondo cui “l’acqua va dove ce n’è di più” indica la fluenza del fare senza fine, indica i flussi. L’acqua è finanziaria: non si tratta di “avere” tempo, ma, facendo, interviene il tempo per concludere. Il tempo del fare non è una linea, non è misurabile nella durata, secondo l’automatismo dell’orologio. Altro è il tempo pragmatico, tempo industriale. Tempo è taglio, temno, squarcio, divisione, partitura. Essenziale questa partitura alla musica. Lungo questa partitura, sette note si combinano all’infinito.
Non a caso Porretta si qualifica anche come città della musica. La divisione è essenziale alla metrica, alla struttura ritmica del componimento poetico.
Senza il fare nemmeno la poesia.
Poiésis si traduce con fare, inventare.
L’ingegno sta dove le cose si fanno: nella poesia.
Ma l’acqua dissipa anche la dicotomia tra il cosiddetto tempo del riposo, il tempo libero, e il tempo del lavoro, o del fare, fra l’otiume il negotium.
L’otium e il negotium sono il processo di valorizzazione fino all’approdo alla salute. I Romani avevano inteso qualcosa, quando introducevano la biblioteca, i giochi e la politica nell’incontro alle terme. Le terme indicano proprio questo: l’acqua è la vita nel suo ritmo incessante, in un moto continuo e in una combinazione di elementi che la qualifica. La città del fare è allora anche la città della salute, la città che si scrive sull’acqua. La città, l’industria, la natura viaggiano in una trasformazione incessante, come ciascuno che osa viaggiare lungo i sentieri e i bordi, il filo e la corda della parola, raccontando e facendo: questo il tessuto industriale che non conosce crisi. Questa la città del secondo rinascimento. Le città italiane nascono attorno al “centro storico”, dove sono la piazza e il mercato, la piazza della parola e le botteghe, dove si combinano arte e invenzione. Non a caso Porretta e Granaglione sono nate attorno al mercato. Nel mercato avviene lo scambio, scambio nella parola, scambio nell’equivoco costitutivo della merce, ma anche scambio pragmatico, scambio non sostanziale, bensì temporale, finanziario, scambio proprio al programma per la riuscita di quel che si fa. Questa è un’altra politica, è la politica con cui si scrive la città, è la politica che non è ideologica, perché non è politica della sostanza.
La politica dell’acqua spazza via la burocrazia, la possessione e la padronanza del nulla. La politica dell’acqua è politica del fare e del concludere, lungo la via diplomatica, quindi senza personalismi, puntando al risultato e alla qualità delle cose che si fanno.

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COME L’INDUSTRIA DISSIPA LA MITOLOGIA DELL’IMPERO

La guerra in corso fra Ucraina e Russia, incominciata con l’occupazione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha posto all’attenzione della politica internazionale, ancora una volta, la questione Europa.
Se, infatti, sia lecito o no che uno stato si annetta un paese contravvenendo non soltanto ai trattati internazionali (Memorandum di Budapest del 1994), ma anche alla dichiarazione di indipendenza sancita dagli ucraini nel Referendum del 1991 (con il 90,32 per cento di consensi), all’indomani della caduta del muro di Berlino, non è soltanto la legge a stabilirlo.
La questione Ucraina è la questione della cultura e dell’arte dell’Europa – e di quell’Europa orientale che da troppo tempo è stata ignorata –, ma è anche la questione dell’industria: come avvengono le cose e qual è la loro struttura, di cui l’invenzione è un aspetto.
Il “granaio d’Europa”, altro nome dell’Ucraina, si è sempre distinto rispetto a paesi che dell’industria hanno avuto orrore, reprimendo quella che in economia è chiamata “iniziativa privata” o “libera iniziativa”, peculiarità dell’occidente. I prodotti degli imperi sono stati i campi di lavoro forzato, i campi di concentramento, i lager, i gulag, i laogai, istituti di negazione dell’industria, dell’intelligenza e dell’ingegno. L’industria non può essere sottoposta all’idea di sistema, di copertura, proprio perché esige la differenza e la variazione costanti.
Chi non ha capito questo, oggi, predispone la burocratura fiscale, penale e carceraria contro tutto quello che non si unifica, che non si uniforma, che differisce e varia perché non corrisponde all’uniforme dell’impero.
La mitologia dell’impero, che ritorna nell’ammirazione di molti esponenti della “provincia Italia” nei confronti della Russia e della Cina, diffida dell’invenzione perché non è controllabile, non è secondo il sistema.
Per questo erige l’origine a feticcio e ne affida la custodia a un capo supremo, per assicurare l’arcaismo funzionale al sistema di controllo. La struttura pragmatica della vita, l’industria, non rispetta l’appartenenza ai circoli e alle caste. Si fa d’arte e d’invenzione.
Si alimenta dell’ingegno e non teme di disperderlo, non costruisce il campo di concentramento in cui imprigionare l’Altro. Chi ragiona ancora oggi in termini d’impero, di sfere d’influenza, occupando territori e città nel tentativo di cancellare nazioni come la Georgia e la Crimea, tenta di annientare la cultura, l’arte, l’industria, per depredare, sfruttare, sottomettere le nazioni sovrane.
Con il libro Abbecedario ucraino. Rivoluzione, cultura e indipendenza di un popolo (Gaspari), Massimiliano Di Pasquale restituisce all’Ucraina il mito della sua memoria, il mito del suo rinascimento e della sua industria, il mito dell’Ucraina come regione d’Europa.
L’autore ci consegna un lavoro finissimo di ricerca filologica che riguarda l’Europa, la cultura e l’arte delle sue regioni. Ci racconta dell’antichissima cultura di Trypillian, che risale a 7400 anni fa, anteriore a quella egiziana e greca. Poi della Rus di Kyiv, sorta attorno all’anno 800 d. C., una combinazione fra vichinghi, normanni, variaghi detti ruotzi, e slavi, il primo nucleo di quella che sarà chiamata Rossiya soltanto con Pietro I il Grande nel XVIII secolo. Ma ci parla anche dell’attuale, per esempio della questione Crimea, dimostrando la combinazione tra sovranità e industria.
“L’anno cruciale – scrive Di Pasquale – per le sorti della Crimea è il 1944, quando, con la deportazione dei tatari a opera di Stalin, si realizza il vecchio sogno russo di una ‘Crimea senza Tatari’. (…) Dieci anni più tardi la penisola è ridotta a un cumulo di macerie a causa della guerra e passa sotto l’egida di Kyiv. (…) Nel 1954, la Crimea fu infatti annessa alla Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina.
(…) Nonostante la leggenda russa, tornata in voga nel marzo 2014, parli di un regalo fatto all’Ucraina da un Nikita Khrushchev ubriaco, la realtà dei fatti è diversa. All’inizio degli anni cinquanta i leader sovietici si resero conto che la situazione economica della Crimea, annessa nel 1945 alla Russia, era particolarmente drammatica. (…) Il governo centrale di Mosca decise allora di trasferirla all’Ucraina in modo che fosse Kyiv a provvedere alla sua ricostruzione e a una migliore gestione economica dal momento che la regione era diretta estensione del territorio ucraino.
(...) Non si trattò di un dono, ma di uno scambio di territori – la Russia ricevette in cambio i fertili terreni della regione di Taganrog – e non fu opera del solo Krushchev, ma fu una decisione collegiale. Spettò quindi a Kyiv ricostruire la Crimea (...). In pochi anni l’Ucraina dotò la Crimea di moderne infrastrutture idriche ed elettriche”.
L’autore conclude: “La Crimea è dunque appartenuta appena dieci anni, dal 1945 al 1954 alla Repubblica socialista sovietica russa. Le oblast di Lunhansk e Donetsk (che costituiscono il Donbas, ndr) al contrario, non hanno mai fatto parte della Russia”.
(…) “Le più marcate differenze tra le due regioni sono di carattere industriale.
La Crimea, grazie soprattutto agli investimenti infrastrutturali dal 1954 in poi, quando entrò a far parte della Repubblica socialista sovietica ucraina, si caratterizza per un’economia prevalentemente turistica (...).
L’immagine del Donbas è invece associata a miniere di carbone e acciaierie che, unitamente agli impianti chimici, hanno fatto di questa zona uno dei principali centri dell’industria pesante sovietica”.
L’impero si specifica per occupazione, depredando l’industria, ma questa invece si qualifica sempre per via d’invenzione, ingegno e intelligenza.
Ecco perché l’industria è senza l’idea di fine, mentre tutti gli imperi sono destinati a soccombere perché costruiscono campi di sterminio per la paura della fine.

N. 83 - Apr. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO

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IL DISPOSITIVO DI BRAINWORKING DELL’ESPERIENZA

La realtà della parola non è conformista, non si conforma al senso comune o alla volontà del soggetto, ma si attiene alla logica dell’apertura.
Dicendo e facendo, le cose non sono fisse, entrano in una trasformazione che procede dall’apertura, per integrazione e non per unificazione, non per affermare o per negare qualcosa, in modo da significarla. Questo avviene nel sociale, nei social e nella burocratura, e quel che non risponde a questi canoni è automaticamente escluso, ovvero è inesistente.
Ecco lo scacco dell’epoca: la parola non è misurata dall’affermazione o dalla negazione, quindi dal principio del terzo escluso, tanto di successo nei reality, funzionali allo show della realtà a partire dalla sua eliminazione.
Proprio nell’epoca del trionfo di social network e di nuove applicazioni per cellulari, che offrono piattaforme umanitarie per parole senza controllo, proprio quando la quarta rivoluzione industriale dello Smart Manufacturing annuncia l’opportunità di nuovi sistemi di produzione automatizzati, proprio quando la sanità pubblica sembra aver raggiunto la massima efficienza con nuovi protocolli per la tutela della salute individuale, ecco che si pone più che mai la questione della parola e dei suoi dispositivi.
Il dispositivo di parola non ha nulla di automatico o di naturalistico o di umanistico.
Nel dispositivo di accoglienza, il dispositivo del racconto, risalta l’Altro, l’Altro non rappresentato, l’Altro assoluto.
Le cose che entrano nella parola procedono dall’apertura. Questa è la novità: instaurare l’apertura, l’accoglienza: dicendo, facendo, raccontando. Questione di occorrenza, non di volontà: fare come occorre fare, non fare come so, voglio, posso o devo fare. Fare, quindi, senza l’ideale, che invece impedisce l’apertura.
Negata l’occorrenza, interviene l’idea di tempo come durata, in cui le cose finiscono.
Lungo l’occorrenza, le cose che man mano si concludono consentono di trovare il ritmo per incominciarne altre, senza fine. Fare non è questione di titoli, di età o di salute ideale, di cui la malattia segna lo scacco.
Il dispositivo di parola si rivolge alla novità e all’innovazione, alla salute non più ideale e alla qualificazione, perché procede dall’apertura. Quest’apertura sembra venire meno, per esempio, con l’avvento della cosiddetta malattia, definita come “alterazione” di una o più funzioni del corpo. Quando interviene, la malattia sembra togliere l’ascolto, e dunque la parola, perché prevale l’idea di fine del tempo: la questione sembra chiusa e la speranza confiscata. È interessante ascoltare le diverse “reazioni” alla notizia della malattia, che trasformano il cosiddetto malato in soggetto, appunto, soggetto alla sopportazione del peso della malattia. La medicina finisce così per diventare il Caronte dantesco, il traghettatore nella pena da espiare durante il programma della cura. La cura per sfuggire alla morte, quindi, la cura come pena.
E quali sono gli acciacchi e i contraccolpi dello schema sociale della coppia medico-paziente di cui assumono il peso, per esempio, anche alcuni medici? La medicina trova il suo statuto clinico e intellettuale quando è in atto il dispositivo di parola, oltre il rapporto professionale e sociale medico-paziente, basato sullo schema attivo-passivo, superiore- inferiore. Ma proprio quel che non funziona e quel che non va, esigendo l’ascolto senza schemi precostituiti, dissipano le classificazioni nosografiche, postulate per confermare una verità da professare.
Nessuno detiene la verità, né il paziente, né il medico né, tanto meno, internet, il luogo in cui sembra facilitata la parola.
Nessuno può stabilire cosa avviene e diviene nell’incontro. Nel dispositivo di parola, chiamato colloquio, ogni aspetto della vita è messo in questione, perché non si tratta di procedere per schemi prefissati, professionali o comportamentali, si tratta della logica e del modo della parola particolare a ciascuno, che è anche il modo della sua struttura, è il modo del tempo ed è il modo dell’industria della parola – il termine “industria”, secondo l’etimo, nel rinascimento significava “struttura”.
Il brainworker indica come il dispositivo della salute sia il cervello: non un organo biologico, bensì un dispositivo intellettuale, non naturale, dispositivo di forza in cui si enuncia l’ipotesi pragmatica, l’ipotesi dell’avvenire, lungo l’occorrenza. Per questa via s’instaura l’istanza della qualità della vita per ciascuno.
Non basta infatti l’idea di bene o di buona volontà per andare in direzione della qualità, occorre proprio il dispositivo di brainworking per trovare un altro modo della vita, non soltanto rispetto alla malattia, ma anche rispetto al progetto e al programma, alle scadenze della vita.
Nel caso per esempio della medicina, quell’“impaziente” – che avverte un altro tempo avviato dalla malattia, oltre la propria volontà – incontrerà quel medico per la vita non soltanto perché lo stabiliscono i protocolli, ma perché la parola non finisce tra un appuntamento e l’altro. Nel dispositivo intellettuale non importano l’empatia, la condivisione, la personalizzazione, ma è indispensabile attenersi alla particolarità della parola senza personalismi e senza rappresentazioni.
Non conta la brevità, intesa come cura veloce, non conta il compatimento, cum patire, per condividere il peso, ma occorre il cervello come dispositivo di direzione verso la qualità.
La medicina tradizionale intende curare “il” paziente. Le teorie relazionali dicono che la cura si fa “con” il paziente.
La cifrematica giunge a dire che la cura interviene con l’Altro tempo. L’Altro tempo che irrompe nella parola, dicendo e facendo, avvalendosi del dispositivo intellettuale, che è anche dispositivo temporale. Questo dispositivo instaura non la cordialità o l’amicizia o l’intesa, ma l’Altro tempo con un progetto e un programma di vita. Con la cifrematica, come scienza della parola, e con il brainworking dell’esperienza, la parola trova la sua industria, la sua struttura, per instaurare dispositivi di riuscita con gli interlocutori della giornata, in direzione della qualità.

N. 82 - Feb. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO