anna-spadafora

post image

L’ODIO DI SÉ FA IL GIOCO DELLE DITTATURE

Fra i libri di Dario Fertilio che hanno dato lo spunto per il dibattito La comunicazione, le fake news, i totalitarismi – ovvero Le notizie del diavolo. La parabola ignota della disinformazione (Spirali), Il virus totalitario (Rubbettino), Dirsi tutto (Lindau) e Fabbricare le menzogne (Licosia) – mi soffermo in particolare intorno a Il virus totalitario, in cui l’autore analizza la natura del totalitarismo e lo paragona a un virus che, come quello biologico, ha il solo scopo di “prolungare la propria esistenza a spese di tutto il resto” e che adotta gli stessi modi di procedere, tanto nel nazismo quanto nel comunismo, nell’islamismo radicale e nel nazicomunismo post-sovietico. Fertilio compie una traversata essenziale, che prende le distanze da qualsiasi approccio rivelante o smascherante, anzi, nella sua scrittura prevale la narrazione pacata di quanto egli ha acquisito in tanti anni di ricerche e di battaglie culturali per la libertà e per la civiltà della parola. Lontano da ogni intento di “risvegliare le coscienze”, egli dà un contributo all’analisi del termine “consapevolezza” quando nota come: “L’immagine di un mondo perfetto accomuna il terzo grande totalitarismo moderno, l’islamismo, ai due che l’hanno preceduto, il comunismo e il nazionalsocialismo. Si può anzi sostenere che la fonte autentica di ognuno dei tre […] sia utopica e visionaria”. E aggiunge che “per ciascuno dei tre totalitarismi, come per le religioni trascendenti, esiste un libro della conoscenza retta: Il Manifesto, il Mein Kampf e il Pietre miliaridi Sayyid Qutb, l’ideologo egiziano dei Fratelli musulmani per il quale la fede è garanzia dell’essere più interiore del vero credente, il quale è circondato da un mondo di inautenticità e alienazione. Il termine jahiliyya, usato da Maometto per indicare i pagani, si allarga nella filosofia di Qutb a comprendere il caos ottenebrato dei non credenti moderni, e di tutti coloro che nel mondo islamico ‘sono da essi contaminati’, compresi dunque gli interpreti moderati del Corano.

Su questa base avviene l’incrocio, la contaminazione fatale con il totalitarismo rosso. Qutb indica infatti il ruolo di un’avanguardia illuminata e pia, destinata a invertire l’inclinazione del mondo alla deboscia, ristabilendo la purezza perduta. Il che non è nient’altro se non la versione islamista dell’idea marxista-leninista di avanguardia rivoluzionaria il cui ruolo è quello di elevare il livello di consapevolezza dei potenziali seguaci ancora ottenebrati [l’emancipazione del proletariato, delle masse di sfruttati e oppressi]”.

E pensare che, come nota l’autore, c’è voluto l’11 settembre 2001 per accorgersi che l’islamismo costituiva “una realtà nuova, un’esplosione virale che certo si era giovata di molti precedenti storici […], ma attingeva direttamente la sua forza nel qui e ora del mondo islamico, nelle condizioni esistenziali di frustrazione e vergogna vissute da milioni di persone escluse dai benefici della cultura occidentale, nella riattivazione di miti antichi e nella promessa di redenzione e purificazione collettiva riservata ai suoi seguaci”.

In breve, l’Occidente non si era accorto, e forse tuttora continua a non accorgersi, che l’odio di sé, diffuso in ogni ambito della vita civile – lo stesso che ha portato alla cancel culture, al politically correct, al negazionismo e alla dittatura delle minoranze in Europa –, era alimentato dal virus totalitario, che opponeva una realtà pantoclastica, distruttrice, alla realtà che invidiava. Fertilio chiama virus l’agente del totalitarismo, ma potremmo aggiungere che è l’ideologia dell’invidia ciò per cui il fantasma del totalitarismo passa all’azione. La stessa ideologia che troviamo nelle più antiche persecuzioni degli ebrei e nei più moderni apparati inquisitoriali. L’inquisitore non è interessato alla realtà intellettuale e non solo non l’accetta, perché gli ricorda ciò cui egli crede di avere dovuto rinunciare, ma rovescia su questa realtà il proprio spettro, quindi deve dimostrare che il male esiste, ma è al di fuori di sé, mentre egli rappresenta il bene, egli è l’angelo che porta la verità e la giustizia in un mondo corrotto e marcio. L’impalcatura è la stessa e si avvale di tutte le procedure che l’autore ha descritto nel suo libro e che troviamo anche in 1984 di Orwell: imposizione di una neolingua, fabbrica delle menzogne, rovesciamento del senso delle parole e torture per affermare la propria realtà pantoclastica e annientare l’imputato costringendolo al silenzio, se non alla morte civile. Con il pretesto di avere cacciato e bandito per sempre un diavolo dalla comunità.

Per invidia sociale sorge non solo l’odio di sé, ma anche e soprattutto l’idea del male dell’Altro: “Non è possibile che il tale abbia successo nella vita (e io no). Deve avere fatto qualche patto con il diavolo”. La caccia alle streghe prende avvio così: vengono chiamate streghe donne che avrebbero firmato un patto con il diavolo per permettersi cose che alla gente comune sono negate. Per esempio, nel Martello delle streghe degli inquisitori Heinrich Institor e Jakob Sprenger, come possiamo intendere dall’edizione curata da Armando Verdiglione con il sottotitolo La sessualità femminile nel transfert degli inquisitori (Marsilio, 1977, Spirali, 2003), le donne sono invidiate perché rappresenterebbero una sessualità anomala, che non risponde ai canoni dell’epoca.

Ma la caccia alle streghe può dirigersi anche verso coloro che, come gli imprenditori, vengono invidiati e presi di mira come se fossero predatori che traggono profitto illecito dal lavoro altrui, pertanto devono pagare dazio prima di trovare attenzione da parte delle istituzioni, devono esibire qualche forma di compensazione del male che sarebbe insito nella loro riuscita e nella loro anomalia rispetto al conformismo imperante. Chi non accetta la vita, con la sua particolarità, con la sua differenza, con la sua varietà e con la sua trasformazione incessante, chi non accetta la realtà intellettuale e ne ha invidia getta addosso all’Altro il proprio spettro e fabbrica le menzogne funzionali alla propria difesa rispetto al pericolo della differenza.

L’odio di sé dell’Occidente procede dall’ideologia dell’invidia sociale, che crede nella vita ideale, nell’utopia, anziché accettare la vita. L’idea di purezza, che Fertilio trova alla base di tutti i totalitarismi, punta il dito contro la corruzione e quindi diviene paladina della vendetta contro il presunto male dell’Altro, per poi incarnare il demone buono, l’angelo vendicatore che porterà la salvezza. Da qui nascono i totalitarismi. Lo illustra anche Giorgio Israel, nel suo libro Liberarsi dei demoni. Odio di sé, scientismo e relativismo: “I demoni sono il mito della palingenesi sociale e il mito della gestione scientifica dei processi sociali. Essi hanno alimentato le ideologie dei totalitarismi del secolo scorso, sono all’origine delle tragedie che hanno squassato l’Europa e l’hanno condotta verso un declino di cui è da temere l’irreversibilità. Tanto più il timore è fondato quanto più i demoni sono ancora vivi e vegeti e contagiano l’Occidente sotto la forma dell’ideologia del relativismo assoluto, di uno scientismo meccanicista che mina alle basi una visione umanistica della società e di un corrosivo ‘odio di sé’ [che] si manifesta in forme marcate nelle ideologie del post-comunismo e del pacifismo altero globalista e antioccidentale”.

Oltre all’ideologia dell’invidia, ciò che agisce come catalizzatore del totalitarismo è la paura dell’influenza, che può intervenire come paura dell’infezione virale, appunto, ma anche come paura del plagio, della contaminazione o della telepatia. Una paura che costruisce “macchine”, che dovrebbero imporre un’influenza positiva a quella negativa. Sarebbe interessante indagare in che modo, nelle differenti epoche e in vari periodi storici, sia possibile distinguere differenti forme di paura dell’influenza. Il nemico da sterminare è, di volta in volta, chi dà prova di riuscita, d’intraprendenza, d’intelligenza. Perché Hitler altrimenti avrebbe dovuto temere gli ebrei, se non per la loro influenza? E perché i comunisti avrebbe dovuto temere i capitalisti, così come l’islam dovrebbe temere gli infedeli? Pensiamo all’arretratezza in cui versano alcuni popoli sottomessi al credo di Allah: come può inventare, ingegnarsi e riuscire chi è costretto a leggere un solo libro nella sua vita e per giunta con la mediazione dell’Imam?

È essenziale ciò che Dario Fertilio precisa in un altro capitolo del libro, ovvero che i militanti di queste tremende orde che hanno sconquassato l’Europa non intendono che il segreto tanto celato dai propri leader è il nulla, in cui essi si dissolveranno come daímon al termine del proprio cammino: “Tutto, compresa l’esibizione di fede religiosa e la chiamata al martirio, è solo materiale di combustione, il cui sacrificio è indifferente al grande fuochista totalitario; egli non crede alla bontà e alla possibilità di realizzare i suoi stessi precetti. Questi ultimi gli servono soltanto a mobilitare gli animi e come trampolino verso il potere, e inoltre gli forniscono il collante necessario a rendere salda e duratura la sua costruzione. Il sancta sanctorum di questa religione è il controllo sociale, la presa sulla realtà, il mantenimento del potere più a lungo possibile. Intimamente, ogni capo totalitario dotato di intelligenza è ben conscio della fine inevitabile che lo aspetta al termine del cammino, ma non se ne cura perché gli interessa soltanto compierlo […]. Le élite totalitarie sanno che non è possibile né auspicabile rivelare al popolo la verità. Come potrebbe essere accettato da persone normali che ciò verso cui si tende è irrealizzabile e maschera l’abisso del nulla?”.

Ecco, allora, come l’odio di sé fa il gioco delle dittature che hanno invidia dell’Occidente.

post image

IL CASO DI VALORE NON RIENTRA NELL’ORDINE DEL MONDO

La medicalizzazione della società passa anche attraverso quella formazione manageriale che, con l’aiuto dell’approccio neuroscientifico, elude il caso di qualità, la differenza e la varietà, e propone sempre più ricette generiche, camuffate da “personalizzazione”, finalizzate a intendere “la diversità nel modo di funzionare individuale”. In questo approccio, gli umani sono automobili: a seconda di quella che devi guidare, serve più o meno carburante, olio, acqua, pressione sui freni o sull’acceleratore; poi, se è una Ferrari, la tieni in garage, se è una Cinquecento, puoi anche lasciarla all’aperto: il trattamento dipende dalla diversità dell’oggetto che devi manipolare. Niente di più lontano dall’intelligenza, quando dall’atto di parola è tolto il racconto a vantaggio della finalità salvifica, proiettata al miglioramento, al cambiamento e alla soluzione.
L’approccio neuroscientifico – come la maggior parte dei metodi di comunicazione sempre più diffusi nelle aziende – vorrebbe ridurre la parola e lo scambio alla manipolazione meccanicistica degli umani: è una forma di trattamento, che elude la differenza e la varietà, proprio quando sembra esaltarne le virtù attraverso l’attenzione alla diversità. Ma la diversità non è la differenza, è la base del razzismo, perché intende la differenza come ciò che costituirebbe l’essere di ognuno rispetto a quello di ogni altro. Per questa via, la diversità è un concetto che comporta la discriminazione del bianco dal nero, dell’ebreo dall’ariano, dell’uomo dalla donna.
Ogni trattamento mira a neutralizzare la differenza e la varietà della vita, per paura della loro imprevedibilità e ingovernabilità. Invece, la differenza e la varietà sono fonti di ricchezza inaudita e inesauribile nella poesia, nell’impresa e nella politica, ovvero nelle tre proprietà dell’industria. Togliete la differenza e la varietà e avrete la necropoli, al posto della città planetaria; avrete la politica delle piccole differenze, il provincialismo, al posto della politica del tempo che non finisce; avrete l’unilingua, la lingua dei litiganti, al posto della lingua diplomatica e della poesia; avrete la finanza come sostanza presunta limitata che penalizza il fare, anziché come istanza di scrittura dell’impresa, in cui le cose che si fanno giungono alla riuscita e approdano al valore.
Ogni trattamento pretende di dare agli umani gli strumenti per divenire uguali o per rincorrere la differenza, quando essa è intesa come segno di qualcosa che dovrebbe servire a divenire più uguali, ovvero ad assimilarsi a chi è presunto portare il segno della differenza come status sociale.
Ma la parola non si lascia trattare, non c’è nulla da correggere né da rettificare parlando, facendo, scrivendo.
Niente e nessuno potrà mai prendere la cosa, l’esperienza, e manipolarla, trattenerla o abbandonarla, allontanarla o avvicinarla. Nel viaggio della vita, ciascuno instaura dispositivi di parola, ma la traduzione, la trasmissione e la trasposizione restano intransitive, sono scrittura della memoria, non puntano a tradurre, a trasmettere o a trasporre la cosa, l’esperienza. Si scrivono la differenza e la varietà in cui ciascuno s’imbatte vivendo, non ciò che ognuno vuole, sa, può o deve scrivere. Si scrive la vita, con il suo viaggio narrativo, contro cui nulla può il totalitarismo, da sempre impegnato nella caccia all’Altro, rappresentato come diverso, come capro espiatorio rispetto al male, al peccato e all’incesto di cui è presunta soffrire la comunità degli uguali.
Il caso di cifra, il caso di valore, invece, esige l’invenzione e l’arte, il viaggio intellettuale e i suoi dispositivi, ciascun giorno, in modo incessante, senza l’idea di miglioramento o di cambiamento, di evoluzione o di progresso, che veicolano l’idea di fine del tempo. Come fa anche il concetto di disruptive innovation, termine coniato nel 1995 dal professore di Harvard Clayton Christensen per fotografare ciò che egli constatava nelle imprese: “un’innovazione dirompente in grado di distruggere aziende consolidate a favore di realtà emergenti”. In Italia questo concetto è arrivato di recente ed è stato assunto dall’ideologia che imperversa sulle piccole e medie imprese – sempre considerate realtà emergenti – come un nuovo metodo per essere innovative e per avere successo, mentre in realtà è una fotografia di ciò che accade.
Impossibile perdere l’equilibrio, perché ciascuno, come ciascuna impresa, procede dall’equilibrio, dall’apertura originaria, che sta alle spalle.
Tuttavia, chi ha dinanzi l’idea di fine del tempo, ovvero l’idea di rottura o di cambiamento, ha la tentazione di abbattersi, di abbandonarsi, quando scambia l’equilibrio con un “ordine del mondo” che gli sembra irraggiungibile o irrimediabilmente perduto.
Ma anche l’idea di “fine del mondo” non sfugge alla sua scrittura, all’arte e all’invenzione, che nutrono la memoria costantemente, senza bisogno di essere situate nel mondo e nelle sue rappresentazioni.
In questo senso, nemmeno la pandemia (pan viene dal greco παν, che vuol dire “tutto”) evita occasioni di elaborazione dell’idea di mondo come “un tutto”: proprio mentre i media diffondono immagini degli abitanti del pianeta omologati e uniformati dalla scure implacabile del coronavirus, accadono cose differenti e varie, nuove, inedite, rivoluzionarie, in ciascun angolo del pianeta. Sta a noi darne notizia.

post image

IL DISTURBO È LA MEMORIA

Nel saggio Psicopatologia della vita quotidiana (1901), accanto ai lapsus, alle sbadataggini e agli atti mancati, Freud analizza la dimenticanza di nomi propri. E narra un episodio accaduto in Dalmazia, mentre viaggiava in treno in compagnia di uno sconosciuto. Parlando delle visite in Italia, domandò all’uomo se fosse mai stato a Orvieto a vedere i celebri affreschi di… Al posto del nome cercato, Signorelli, gli venivano in mente Botticelli e Boltraffio. Che cosa aveva “disturbato” la memoria di quel nome? Riflettendo sull’argomento immediatamente precedente della loro conversazione, Freud si accorse che l’aveva lasciato in sospeso perché era troppo delicato per essere affrontato con un estraneo. Dopo avere narrato un aneddoto sulle usanze dei turchi che vivevano in Bosnia Herzegovina, “gente che soleva mostrarsi rassegnata al proprio destino”, Freud avrebbe voluto raccontare un secondo aneddoto, che si collegava al primo nella sua memoria: “Questi turchi pongono il godimento erotico al di sopra di tutto e, in caso di disturbi sessuali, si lasciano prendere da una disperazione che stranamente contrasta con la loro rassegnazione di fronte al pericolo di morte: ‘Tu lo sai, Herr – aveva detto un paziente al suo medico –, quando non si può più fare quello la vita non ha più valore’”.
Freud scrive che, oltre ad avere rinunciato a raccontare questo aneddoto, aveva distratto la sua attenzione dalle idee che potevano connettersi al tema “morte e sessualità”, perché si trovava ancora sotto l’effetto della notizia di un paziente per il quale egli si era tanto prodigato, ma che si era tolto la vita “a causa di un inguaribile disturbo sessuale”. Bosnia, Herzegovina e Herr si erano inseriti in una serie di associazioni tra Signorelli, Botticelli e Boltraffio, così, Freud, che qualcosa “voleva” dimenticare, qualcos’altro aveva dimenticato, contro la sua volontà.
Risultato: la sua intenzione di dimenticare non era né interamente riuscita né interamente fallita. O, meglio, era quella che chiamava rimozione a non essere riuscita né fallita interamente: pur attirando il nome Signorelli nella dimenticanza, ne aveva lasciato traccia nei due nomi sostitutivi, Botticelli e Boltraffio, che erano divenuti vere e proprie “formazioni di compromesso”.
Perché c’è chi crede che qualcosa possa mettere in discussione il valore della vita? Forse, era questa la domanda che si poneva Freud e, forse, si rammaricava di non essere riuscito a fornire al suo paziente nessun appiglio per lasciare che il disturbo (nel testo tedesco Störung) sessuale entrasse nel racconto e divenisse, tutt’al più, un semplice disturbo (Störung) linguistico, un nome che entra nella dimenticanza, anziché un segno della fine della virilità.
Chi si rappresenta la vita ideale trova sempre qualcosa che ne disturba la realizzazione. Ed è qualcosa ritenuto sostanziale, fondamentale e fondante.
Il disturbo è strutturale, non può essere eliminato a favore della padronanza sulla parola e sulla vita. Tuttavia, c’è chi crede nella perfomance e nella facoltà come mezzi per la riuscita, da cui si ritiene escluso, per ciò invidia il lusso, il piacere, la gioia, la vita stessa. E si fa vittima, soggetto della predestinazione, della scelta obbligata. “Se mia figlia non vuole più parlare con me da cinque anni, che cosa posso fare? Non mi resta che togliere il disturbo”, scrisse quel padre prima di puntarsi una pistola alla tempia. La figlia che si nega o la figlia negata? La figlia come bambolamamma è la ghigliottina, quella per cui perdere la testa (o la memoria?).
Questo può accadere nel realismo della soggettività, che sta in luogo della cosa, del narcisismo della parola.
Allora, aggrappandosi alla causalità e all’obiettività, ognuno si presta ai cerimoniali e ai precetti funzionali alla metamorfosi: deve colmare le proprie presunte mancanze, femminilizzarsi o virilizzarsi, per fare uno, per divenire androgino.
Ma la memoria originaria non può perdersi e ciascuno – nella parodia della guerra di famiglia, dei ricordi che pesano e del ghenos familiare – può trovare la linguistica dell’esperienza e la linguistica della riuscita.
Ciascuno, non ognuno, può divenire capitale, perché ciascuno non è soggetto ma statuto intellettuale. In che modo? Non vincolandosi a un luogo ideale, in cui rifugiarsi, nel tentativo di liberarsi dal disturbo, ma viaggiando: parlando, facendo, scrivendo e leggendo, ovvero, restituendo in qualità le acquisizioni della ricerca e dell’impresa. Leggendo, ciascuno diviene capitale, non facendosi soggetto del dialogo, non cercando la dimostrazione, il riconoscimento e la conferma dell’idea di sé e dell’Altro come padrone o schiavo, vittima o carnefice.
Il disturbo è la memoria stessa nel suo tramandarsi e nel suo tradirsi.
In virtù della tradizione e del tradimento della memoria, la rimozione non è mai né interamente riuscita né interamente fallita. E la dimenticanza non è un disturbo, ma la memoria che mostra la corda nel contingente.
In nessun caso il disturbo è il negativo da eliminare per vivere una vita tutta positiva. Impossibile togliere il disturbo perché il disturbo è libero, come la memoria, che sfocia nell’arte e nell’invenzione e si scrive. Soltanto così la scrittura risulta scrittura della memoria, scrittura dell’esperienza, anziché strumento a supporto della mnemomacchina e della mnemotecnica.

post image

LA MACCHINA E LA TECNICA. L’INVENZIONE, L’ARTE, LA LIBERTÀ D’IMPRESA

Il forum La macchina e la tecnica. L’invenzione, l’arte, la libertà d’impresa (Modena, 10 settembre 2020), i cui interventi sono pubblicati in questo numero, ha esplorato un’accezione non comune di macchina (in greco mechané) come invenzione, come cultura, e di tecnica (in greco téchne) come arte. Accezione indagata in particolare da Sergio Dalla Val nel suo editoriale.
Nell’antica Grecia, macchina e tecnica si riferivano alle opere d’ingegno, ai manufatti e alle costruzioni che richiedevano l’intelligenza della mano: sono i due aspetti dell’industria. Ma di quale industria? Quella di cui parla Niccolò Machiavelli quando scrive: “Non déi pertanto sperare in alcuna cosa, fuora che nella tua industria”.
In ciascun istante della vita – anche in un momento in cui il circo mediatico è concentrato sulla pandemia – come fare, come riuscire, come approdare al piacere e divenire caso di cifra? Con industria, ovvero con l’invenzione e l’arte, con la macchina e la tecnica, che non sono i macchinari e le tecnologie, ma la struttura della parola, struttura materiale (“industria” viene dal latino endo struere), intoglibile dal racconto.
Raccontando, facendo e scrivendo, instaurando dispositivi di parola, non c’è più la separazione antirinascimentale fra arti liberali e arti meccaniche, che relegava la pittura, in quanto si avvale della mano, in secondo piano rispetto alla letteratura, in quanto potrebbe fare a meno della materia.
Come prova l’itinerario di Leonardo da Vinci – il quale affermava che con la stessa mano scriveva e dipingeva – questa separazione è contro la scienza che sorge proprio con il rinascimento.
Con Leonardo, la scienza non ha più alcun debito nei confronti dell’ontologia, dell’essere, che aveva dominato nel discorso occidentale, almeno a partire dalla filosofia di Platone e di Aristotele.
Con il rinascimento, anziché l’essere, importa il fare nella parola – le cose che si dicono si fanno e si scrivono –, importano le opere d’ingegno, i dispositivi delle botteghe, i viaggi, la ricerca e la scienza. L’arte e l’invenzione non sono più al servizio di un senso, di un sapere e di una verità precostituiti, ma contribuiscono al senso, al sapere e alla verità come effetti di un cammino e di un percorso particolari a ciascuno.
Così, Ludovico Ariosto incomincia il suo Orlando furioso cantando: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese”, Così, si producono i capolavori che distingueranno per sempre l’ingegno italiano nel pianeta. E, così, ereditando la scienza, l’arte e l’invenzione delle botteghe del rinascimento, gli imprenditori nel nostro paese non hanno bisogno di fare sistema, come propongono le ideologie di matrice anglosassone che gravano sulle piccole e medie imprese, ritenendole troppo piccole per competere sul mercato globale. Esse trascurano che la loro forza sta proprio nella particolarità, nella varietà e nella specificità.
Per valorizzare il nostro patrimonio industriale, quindi scientifico, culturale e artistico, occorre procedere per integrazione, dall’apertura, non ricorrere al sistema. Procedere dall’apertura, ancora una volta, vuol dire parlare e ascoltare, raccontare, perché nessuna azienda, nessuna squadra può giungere alla qualità del risultato di un processo senza la parola. Soltanto parlando, le cose si specificano e giungono a compimento. Ma parlare non è facile: la scienza della parola sta proprio nell’assenza di facilità, di facoltà, di padronanza sulla parola.
Dire, per esempio, che l’opera d’arte è “creazione” o che l’imprenditore dev’essere un “visionario” non va da sé. Il concetto di creazione, come quello di visione, è ideologico, riporta all’idea di mondo, di realtà ineffabile, fuori dalla parola, che se ne starebbe lì, come sostanza inerte o nascosta, in attesa di essere espressa o rivelata. E quanti sono coloro che amano definirsi “creativi” o “visionari”? La scienza che sorge con il rinascimento concerne le cose nel loro viaggio, un viaggio narrativo in cui importa come le cose si dicono, non una realtà, presente o futura, da osservare e da illuminare.
Chi attacca l’impresa, compresi alcuni esponenti dei sindacati, come nota Pietro Ichino nel suo intervento, si riferisce a un modello che ormai non esiste più, quello in cui il lavoro del proletario era lontanissimo dall’arte intesa come “libertà di espressione”, ma era al servizio del “desiderio artistico” del datore di lavoro. Siamo sicuri però che non esista più questa idea di “repressione della creatività”? Quanti sono i giovani che cercano un lavoro “creativo” e confondono l’arte con la creazione, pretendendo così di abolire la disciplina, la tecnica (la stessa arte in quanto tecnica, téchne), a vantaggio dell’ispirazione, che il daìmon, la divinità, dovrebbe infondere attraverso la visione dell’opera da realizzare? È impossibile dare un contributo alla civiltà senza l’analisi di questi luoghi comuni e di questi arcaismi, che esaltano la cosiddetta intelligenza emotiva come elemento indispensabile alla riuscita.
Le cose riescono perché entrano in un processo narrativo di qualificazione e di scrittura della memoria, non perché, all’improvviso, qualcuno ha un lampo di genio. L’idea opera alla riuscita, ma l’idea interviene parlando, narrando, facendo, non è, platonicamente, l’origine e la sede dell’essere.

post image

LA VIA AMMINISTRATIVA, LA VIA DELLA SALUTE

L’amministrazione pubblica è imprescindibile dalla società civile e sempre più dovrebbe contribuire al valore, anziché limitarsi a controllare che i cittadini e le imprese seguano le regole. Purtroppo, però, in Italia, quando si parla di amministrazione pubblica, il riferimento immediato è a una mentalità che Armando Verdiglione definisce “burocratura”, dittatura della burocrazia.
L’amministrazione è essenziale per la memoria: non ci sarebbe scrittura delle cose che si fanno, non ci sarebbe formalizzazione senza l’amministrazione.
Le fatture, per esempio, sono la scrittura di ciò che si fa. Nulla giungerebbe al valore senza questa scrittura. Ma che cosa sarebbe l’amministrazione aziendale, per esempio, se pretendesse di mettere un freno al programma dell’imprenditore? Sarebbe un limite per la vita stessa dell’impresa.
L’impresa poggia sull’infinito, e l’infinito non si conta. Nell’impresa, è il fare a instaurare la quantità, l’imprenditore non si basa su una quantità già data. Facendo, incontra l’aumento, l’abbondanza e il flusso infinito. Se l’amministrazione pretendesse di quantificare, dosare, misurare le cosiddette risorse in base alle quali stabilire cosa fare, l’impresa si bloccherebbe, perché è impossibile sapere in anticipo l’esito delle cose che si fanno. Caso per caso, l’imprenditore e i suoi interlocutori valutano, ragionano e scommettono, prendendo decisioni difficilmente applicabili in un altro caso e in un altro momento. L’amministrazione che punti all’ordine ideale, all’armonia sociale, non tollera l’infinito su cui poggia l’impresa. Considera l’infinito come portatore di anomalia. Allora, può accadere che l’amministrazione pubblica veda l’anomalia dell’impresa o dei cittadini come una minaccia per lo stato e faccia appello alla burocrazia come strumento di salvezza per garantire la normalità, mettendo tutti in riga, sulla base del buon senso, del consenso, del senso comune.
Ma quale artista, poeta, scienziato, imprenditore ha mai prodotto le sue opere limitandosi al rispetto dei canoni dell’epoca? Gli imprenditori che intervistiamo sul nostro giornale, “La città del secondo rinascimento”, nell’incontro con i clienti, i fornitori, i collaboratori, ciascun giorno, vivono nel racconto di un’avventura che non parte mai dall’idea di fine del tempo, di limite soggettivo, di stanchezza o di economia delle energie, ma fanno le cose secondo l’occorrenza. Non è escluso che questo sia fonte d’invidia per chi crede nella normalizzazione della società e nella sua omologazione.
L’anomalia, la differenza e la varietà, l’infinito dell’impresa alimentano l’ideologia dell’invidia, che nella provincia Italia non è mai stata sconfitta.
Nel nostro paese, la casta in tutta la sua burocrazia è giudiziaria, penalpopulista.
Non è una novità che l’Italia sia ostaggio delle corporazioni.
I politici e i loro movimenti si sono avvicendati nel corso dei decenni, ma i funzionari e gli impiegati della pubblica amministrazione sono rimasti sempre al loro posto nei ministeri, nei tribunali, nella pubblica sicurezza, nei comuni, nelle regioni, nelle sovrintendenze e negli altri enti territoriali.
Sono all’ordine del giorno gli esempi di pratiche bloccate che si traducono nel venir meno di guadagno, sviluppo e crescita nella vita di cittadini, aziende, scuole, università e associazioni.
È chiaro che non si tratta di dichiarare guerra a qualcuno in particolare: spesso sono i nostri stessi amici e parenti che lavorano come impiegati negli uffici pubblici. Ma la burocrazia a volte è stata usata per distruggere ciò che non rientrava nella logica del sistema, non rendeva omaggio all’“onorata società”, non pagava il dazio alle bande organizzate per la partecipazione al privilegio del potere.
Una cosa è certa: la burocratura non tollera l’impresa libera, dove le cose si fanno secondo l’occorrenza e il fare poggia sull’humanitas come terreno dell’Altro. L’impresa libera disturba, è sospetta, perché non sottostà ai canoni del pensiero unico. Le arti e le invenzioni che intervengono in ciascuna impresa sono sospette, possono portare a un valore incalcolabile e non riconducibile al compenso mercenario della “pena” assegnata al soggetto per produrre “beni di prima necessità”.
In breve, la burocratura non tollera il caso di qualità, che sfugge alla casistica e alle classificazioni e non rientra negli standard.
La burocrazia nasce con la cosiddetta riforma cattolica, contro il rinascimento, contro l’humanitas delle botteghe, contro la combinazione di cultura, arte, scienza, ricerca e impresa. Allora, dopo cinque secoli di ostracismo, è venuto il momento di valorizzare quel capitalismo intellettuale nato con il rinascimento ed ereditato dalle nostre piccole e medie imprese, dove il talento e l’ingegno danno frutti straordinari che conquistano il pianeta, senza bisogno di aggrapparsi all’idea d’impero.
L’Italia e l’Europa non provinciali oggi hanno il compito di promuovere il secondo rinascimento e non possono esimersi dalla battaglia per dissipare la mentalità burocratica. In che modo? Sta a noi trovare la via amministrativa, la via della salute, con i dispositivi di parola che instauriamo ciascun giorno.

post image

IL DISAGIO E LA COMUNICAZIONE NELL’EPOCA SOCIAL

Nell’epoca della condivisione, i mezzi di comunicazione consentono di trasmettere messaggi e immagini in tempo reale, promettono una maggiore facilità nel passaggio di informazioni da una persona all’altra e possibilità illimitate di accesso a un numero infinito di persone anche grazie ai social media. Nell’epoca dell’accesso, parlare, ascoltare e farsi ascoltare sembra diventato facile, sembra che basti connettersi e rimanere connessi. Ma, fino a che punto la rete favorisce l’incontro? Forse giova allo scambio di informazioni fra persone che già sono in rete per altri motivi, ma, anche se oggi è sempre più diffusa la credenza che il web faccia risparmiare il tempo e lo sforzo delle prime fasi della comunicazione, non può certo sostituire l’incontro. E perché l’incontro è così temuto e aggirato? Addirittura, lo stesso popolo dei social, così avido di amicizie, di contatti e di connessioni, da qualche anno, si dichiara fedele alla moda hygge, che in danese vuol dire “comodo”.
Disagio, dis-agio, è l’assenza di agio, di comodità. Per evitare il disagio, la difficoltà di parola, l’incontro e l’imprevisto, la tendenza hygge suggerisce di starsene comodamente a casa la sera, magari leggendo un buon libro (buono nel senso che non faccia pensare troppo), anziché uscire per incontrare persone che potrebbero turbare il proprio ideale di armonia.
E il quadretto della famiglia hygge prevede che durante le feste non si parli di politica o di altri argomenti che possano produrre contrasti fra le persone riunite a tavola, e portare disagio.
Il popolo dei social crede nella comunicazione diretta, in tempo reale, comunicazione per contatto, senza disturbi e senza interferenze. E che cosa fa al mattino appena si sveglia? Guarda il telefono, sperando che sia arrivato il messaggio che stava aspettando o che qualcuno abbia aggiunto un like all’ultimo post pubblicato su Facebook. E una risposta che non è arrivata diventa la prova di non essere considerati o amati abbastanza e c’è chi arriva a sentirsi una nullità in questo caso. Al contrario, l’idea di una “corrispondenza di amorosi sensi” diventa motivo di orgoglio e dà la cosiddetta “carica quotidiana”: “Oggi mi sento carico” è come dire “oggi qualcuno mi ha confermato come soggetto attraverso un sentimento condiviso”. Ovvero: “Io sono perché tu mi fai esistere”, nella coppia ideale, nell’androgino; oppure, “Io sono perché voi mi fate esistere”, nella comunità ideale.
Il film di Tornatore La corrispondenza sottolinea qualcosa che troviamo già nel carme Dei sepolcri di Foscolo: la più grande corrispondenza di amorosi sensi è quella dei vivi con i morti. L’amore originario non ha nulla a che fare con la corrispondenza di amorosi sensi, con il sentimento, che poggia sullo schema del dialogo, in cui la domanda deve essere formulata correttamente per ricevere la risposta corretta: “Mi ami?”; “Certo che ti amo”, “Ma quanto mi ami?”, “Tantissimo”. La risposta non potrebbe essere: “Neanche un po’”, perché deve confermare l’essere, l’essere per l’amore, attraverso il dialogo, il botta e risposta.
Uno degli stereotipi più comuni del discorso amoroso descritti da Roland Barthes nel suo libro Frammenti del discorso amoroso è quello dell’immobilismo legato all’attesa vicino al telefono, quando ancora non esistevano i cellulari. Questo immobilismo non è stato sconfitto dall’avvento dei telefoni portatili, anzi, in alcuni casi l’ossessione per il messaggio che tarda ad arrivare tocca punte inimmaginabili e diventa la prima, se non l’unica occupazione. Il tempo reale diviene così il tempo spazializzato, tempo abitabile ed eternizzato, in cui ogni rito va ricondotto a un’unica preoccupazione: quella di non prendere impegni a lungo termine, di non “spezzare il filo con l’altro e farsi trovare pronti per il suo ‘arrivo’, che potrebbe realizzarsi, in modo talvolta del tutto imprevedibile, da un momento all’altro”.
La cifrematica constata che il tempo interviene nel fare, ma il soggetto che vive nell’attesa costruisce attorno a sé un sistema di riti per evitare il fare e la sessualità, per preservarsi dall’incontro e dall’imprevisto. Questo è il tornaconto secondario di tutte le sue pene d’amore, sofferenza come godimento dal volto umano. L’Altro è rappresentato nell’altro che è atteso.
Ma l’attesa, invece, è la speranza assoluta, non la speranza che qualcosa di positivo accada e qualcosa di negativo sia scongiurato. L’attesa è l’apertura, è la questione aperta.
Questa è la lezione della psicanalisi prima e della cifrematica, la scienza della parola, oggi: nessuna questione è mai chiusa, definitiva. E sta qui la gioia della vita come gioia dell’incontro e dell’imprevedibile, sta qui la bellezza della conversazione, della lettura, della scrittura, anche avvalendosi dei nuovi mezzi di comunicazione e dei social. I social sono utili quando non diventano strumenti di controllo e di conferma dei luoghi comuni dell’epoca.
Il disagio è inevitabile parlando, anzi, è una virtù della parola, e chi si barrica in casa per seguire la moda hygge della comodità va incontro a contraccolpi e contrappassi, cui segue una sfilza di acciacchi.
“Vivere senza disagio è l’utopia”, scrive Armando Verdiglione nel libro In nome del nulla. L’accusa di blasfemia.
Se l’utopia che propone ancora oggi l’ideologia marxista è la fine del lavoro in quanto presunta fonte delle umane sofferenze (dimenticando che Marx si sollevava contro le terribili condizioni di lavoro di milioni di persone impiegate in massa come bestie da soma all’epoca della prima rivoluzione industriale), quella propugnata dal transumanesimo è l’utopia dell’uomo cyborg, che dovrebbe sconfiggere la vecchiaia e la morte.
Ancora una volta, l’utopia avalla l’idea di fine del tempo, di fine della storia, di fine dell’umanità, a vantaggio della padronanza assoluta sulla vita.
Padronanza dell’algoritmo, senza la parola, la sua difficoltà, il suo disagio.
Ma non ci sarà vita senza la parola.

N. 82 - Feb. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO