L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LA GENETICA DELLA VITA
Calmate il vostro cuore; purificate la vostra anima; liberatevi della vostra intelligenza”. Questo precetto tratto dallo Zhuangzi è uno dei tanti esempi della diffidenza nei confronti dell’intelligenza che pervade il pensiero orientale. L’autore, il maestro Zhuang (369-286 a.C.), riformatore del taoismo cinese, prosegue: “Correggete il vostro corpo e unificate i vostri sguardi, l’armonia celeste scenderà in voi; frenate la vostra intelligenza e rettificate il vostro atteggiamento, lo spirito trascendente vi visiterà.
La virtù vi abbellirà; il Tao abiterà in voi”. Per il taoismo, l’intelligenza impedisce la Via perché viene opposta all’intuizione, alla spontaneità, all’armonia con la natura. Come è scritto nel trattato Huainanzi, il libro del maestro Huainan (139 a.C.), soltanto “colui che segue l’ordine naturale fluisce nella corrente del Tao”.
Il pregiudizio contro l’intelligenza è condiviso anche nel discorso occidentale, e non solo da filosofi affascinati dall’orientalismo come Arthur Schopenhauer, che scrive: “Più intelligenza avrai, più soffrirai”. “Ci vuole qualcosa di più che l’intelligenza per agire in modo intelligente”, annota lo scrittore Fëdor Dostoevskij, mentre il filosofo Henri Bergson sostiene: “Ci sono cose che l’intelligenza è capace di cercare, ma che, da sola, non troverà mai”.
Da oriente a occidente l’intelligenza fa soffrire, è limitata e limitante, si oppone all’ordine naturale, allo spirito e alla virtù: questa intolleranza dell’intelligenza discende da un’ideologia mistica, che considera l’intelligenza troppo umana, come il corpo, come la parola, come la scrittura. Allo stesso modo viene considerato il libro nel romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451: il libro disturba, fa riflettere, fa soffrire, si oppone a un’umanità burocratizzata, robotizzata, un’umanità pura e radicale, pronta all’armonia celeste, al regno dell’utopia.
“I tre quarti delle malattie delle persone intelligenti provengono dalla loro intelligenza”, scrive Marcel Proust nel romanzo All’ombra delle fanciulle in fiore. Ma se l’intelligenza è la fonte della malattia, estirparla è la cura ideale. Così il campo è libero per l’inintellettualità positivista o spiritualista, per il cacciatore di teste e per lo strizzacervelli: non a caso, l’inventore della lobotomia, lo psichiatra portoghese Antonio Moniz, dell’Università di Lisbona, ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1949.
Il pregiudizio contro l’intelligenza è un pregiudizio contro la parola, l’artificio, l’intellettualità. Anche l’introduzione della formulazione “intelligenza artificiale”, ad opera di John McCarthy in un convegno del 1956, immagina un’intelligenza senza l’uomo, prodotta dalla tecnologia, dunque illimitata, presunta opposta a un’intelligenza dell’uomo, prodotta dalla natura, limitata. Questa contrapposizione postula la dicotomia uomo-macchina per poi ricomporla in un androgino tecnologico. Così nella nostra epoca il transumanesimo promette l’upload della mente, o la robotizzazione degli arti, o la rinascita dopo l’ibernazione (criogenetica), perché solo così l’uomo può divenire iperumano, spirituale e dunque divinizzato. Come in ogni mistica, l’uomo nuovo esige la morte dell’uomo: muori per non morire, per divenire eterno. In questo modo l’intelligenza artificiale diventa intelligenza iniziatica, intelligenza per l’accesso, intelligenza sociale.
Questa intelligenza sarebbe artificiale in quanto sorta dall’idea di sistema, segnatamente dai sistemi intelligenti: sistemi basati sul calcolo binario, sull’alternativa tra il sì e il no, per un’intelligenza che si sviluppi da sé, senza bisogno dell’uomo. I sistemi intelligenti sono i sistemi contro l’intelligenza, poggiano sull’algebra e sugli algoritmi, su una logica oppositiva, che esclude il terzo, di cui la logica fuzzy è una variante. Con le sue opposizioni, il sistema è unitario, procede dall’uno e ritorna all’uno, in modo circolare, espungendo il due e l’Altro, l’apertura e l’adiacenza che sono indispensabili per l’intelligenza.
L’intelligenza è data dalla memoria o dall’esperienza? Incrementare la capacità di memoria della macchina può portarla all’intelligenza? E un sistema esperto, un sistema che impara dall’esperienza, può divenire intelligente? Nel sistema la memoria è la capacità di ordinare e di richiamare dati, e l’esperienza è l’accumulo e la ricombinazione di conoscenza.
Ma in questa accezione di memoria e di esperienza, così contrapposte, tutto è dato e pronto per essere padroneggiato: non c’è posto per l’invenzione e per l’arte, per il sogno e la dimenticanza, per la poesia e la scrittura. “Sistema intelligente” è un ossimoro: solo in assenza dell’idea di sistema l’intelligenza è artificiale, è arte, prescinde dall’alternativa uomo-macchina, naturale-artificiale. Senza l’idea di iniziazione, cioè di una memoria come reminiscenza e di un’esperienza come pratica accessibile, l’intelligenza non abbisogna del segreto, in questa accezione è artificiale. Questa intelligenza non iniziatica non cerca complicità né intesa, è “arte del malinteso”, come la definisce Armando Verdiglione. Un’arte poetica, pragmatica, non una facoltà soggettiva, per questo non può risultare una sofferenza o una malattia. Non serve a governare i sentimenti o a trarre profitto dalle emozioni: l’intelligenza poetica, pragmatica (dal greco poiéin, fare) non è l’intelligenza emotiva, che nega l’intelligenza perché basata sulla competenza, sul dominio di sé e delle motivazioni.
L’intelligenza emotiva, iniziatica e mistica, è l’altra faccia della sottomissione dell’intelligenza all’ontologia, per potere sottoporla a un quoziente. Invano: l’intelligenza interviene facendo, secondo l’occorrenza, esige il tempo in atto, il taglio, la divisione che solo se si algebrizza diviene quoziente.
La memoria e l’esperienza non si oppongono: la cifrematica constata che la memoria è l’esperienza in atto, l’esperienza come ricerca e come impresa. Questa memoria è incancellabile, non ha disturbi, è il disturbo stesso. La memoria è disturbo, intollerabile perché, enunciandosi e scrivendosi, è memoria dell’avvenire, non del passato. L’avvenire non è ciò che viene dopo: la memoria dell’avvenire è memoria in atto, l’avvenire è in atto.
Scrive Tacito negli Annales: “Tanto è degna di scherno la cecità di coloro che credono si possa spegnere con un atto di prepotenza anche la memoria dei posteri.
In realtà, la condanna accresce il prestigio dei nobili ingegni”.
La memoria, l’intelligenza, la nobiltà d’ingegno. L’intelligenza esige l’ingegneria, arte e invenzione del fare, proprietà dell’industria, come indicano le interviste agli imprenditori in questo numero. L’ingegneria: nulla è più pragmatico dell’astrazione, che non dipende dall’algebra o dalla geometria, che non può ridursi a deduzione o induzione, non è un procedimento. La procedura per astrazione esige, facendo, il racconto, il calcolo, l’azzardo, non i dati, le sintesi, gli standard che devono esorcizzarli e – al servizio della paura dell’invenzione, dell’arte, della novità – non tollerano l’Altro e l’adiacenza.
Facendo, nessuna contrapposizione tra ingegneria e poesia, che esigono il racconto. L’ingegno è virtù del fare, virtù poetica: facendo, l’ingegno, che nutre l’industria, la struttura in cui l’Altro funziona e varia, e da cui non può essere escluso. La genialità conferma la supremazia della stirpe? L’ingegneria non esorcizza l’anomalia, la esige lungo una genetica non selettiva né elettiva, una genetica della vita e non della razza.
La genetica della parola. Questa genetica non combatte l’anomalia: quale vita, quale industria, quale città se trionfasse l’eguale sociale, ovvero se venisse abolita l’anomalia? La genetica del secondo rinascimento non toglie la genitalità dalla generazione: la genitalità secondo questa genetica, secondo la logica particolare a ciascuno, non ha più bisogno della mistica erotica occidentale o orientale, con la sua intimità e i suoi segreti, dunque non rispetta più il tabù dei bambini, della generazione, della sessualità, dell’infinito richiesti da questa imperante mistica della morte. Secondo questa genetica i genitori non devono essere aboliti in nome di un’umanità purificata e aumentata, di una sovrumanità biologica: con i genitori il tempo non finisce, perché la genealogia non può fermare il fare, e i genitori dimorano nel fare, non nella camera oscura. Secondo l’occorrenza.
“Genitore può dirsi il transfinito!”, scrive Armando Verdiglione nel Giardino dell’automa. Nobiltà dell’ingegneria.
Genialità di ciascuno in direzione della riuscita.
L’intelligenza è arte dell’ingegneria.
Per questo, se l’ingegno venisse sostituito dall’algoritmo, dall’artificio senza intelligenza, l’industria sarebbe in balia della predestinazione, presa nel sistema e nel cerchio, soggetta al ciclo della sua nascita, della sua crescita e della sua fine, come nel concetto di organismo. L’impresa non è un organismo, per questo chi collabora con l’impresa non è un organo: ciascuno è statuto intellettuale e pragmatico, è indispensabile, con i propri talenti, alla scrittura dell’impresa, non all’organigramma, l’impossibile disegno delle relazioni aziendali.
Quando le cose si fanno secondo l’occorrenza, qui sta il talento. Quando le cose che si fanno secondo l’occorrenza riescono, è l’ingegno. Con il talento e l’ingegno la prova non è da superare, secondo la mistica eroica: la prova riesce, con l’astuzia. Chi dice “Io voglio riuscire” fallisce, perché il talento, il fare, la prova non dipendono dalla volontà, non sono soggettivi. I talenti sono ignoti e sono le proprietà pragmatiche, gli strumenti pragmatici, i dispositivi pragmatici. I talenti: ciascuno come talento, oppure i talenti per ciascuno. Ciò che noi facciamo non rientra in nessuna delle nostre possibilità. E il talento sta nella prova, per potere affrontare l’occorrenza, che non è mai uguale. L’occorrenza trae con sé l’anomalia, l’ineguale, mai l’uguale.
Proprio perché esige il talento e l’ingegno l’intelligenza non può riportarsi agli algoritmi.
Sotto il canone occidentale, i talenti sono automatici, giovano alla robotizzazione degli umani. Ma quando la memoria è in atto, quando l’occorrenza esige la contingenza, i talenti, che sono ignoti, sono dispositivi intellettuali: dispositivi pragmatici, dispositivi industriali. Sono propri del fare e non del soggetto. Niente talenti senza la memoria e l’esperienza in atto, senza il racconto. Il racconto dell’avvenire, che non dipende da quel che era prima. Nessuno sa far buon uso dei talenti, che intervengono nell’abuso – cioè nell’uso mai corretto e mai definibile – proprio del fare. Non sono naturali i talenti e l’ingegno: sono quelli che l’occorrenza esige.