LA PAROLA, L’ESPERIENZA COME DISTURBO, LA CURA
L’idea di reciprocità propone un bilancio in pareggio, una misurazione, una possibile contabilità delle cose che si dicono, che si danno e si ricevono, del loro valore, in uno scambio che deve essere, quindi, alla pari.
Uno scambio senza disturbo. Uno scambio senza aiuto, dove al massimo può intervenire l’altruismo come modo di rappresentare l’Altro e sé, facendo coincidere le due rappresentazioni.
Con l’altruismo, avviene l’obiettivazione dell’Altro. Ma, non c’è aiuto in questo. L’aiuto sta in ciò che interviene senza rappresentazione, in ciò che si dice e si fa, in ciò che giunge nuovo. Dal “nuovo” giunge l’aiuto, per la via dell’Altro. Giunge l’indicazione di quale sia il modo opportuno, in quel preciso caso, per trarsi d’impaccio, per capire, per intendere, per fare, per la riuscita. Questo modo dell’aiuto è fuori dal territorio della conoscenza. È fuori dalla coppia canonica maestro-allievo, sapientediscente, medico-paziente, dove chi sa deve riversare il suo sapere su chi non sa, perché faccia le cose che deve fare, che la conoscenza suggerisce, che il canone suggerisce, per il caso ritenuto generale, il caso della letteratura, il caso riportato in letteratura, che ognuno spera sia anche il suo.
Negli apparati sanitari istituzionali, raramente c’è chi possa dedicare a un caso specifico il tempo necessario allo svolgimento, all’articolazione e alla scommessa di un’invenzione, adducendo per questo la mancanza di tempo e i protocolli. Nessuno ha tempo perché le cose si rivolgano al caso specifico, che è fatto rientrare nel caso sanitario generale.
E, allora, l’appello è alla reciprocità, alla specularità, nella speranza che ciò che si applica a un caso, come cura, si possa applicare anche a un altro caso.
L’idea del reciproco ha in sé l’idea che il tempo è già finito. L’idea di due casi analoghi, simili, identici comporta l’idea che il tempo sia finito, che le cose siano fisse, l’idea di vivere in un mondo immobile, in assenza di domanda, in assenza del viaggio della domanda, nell’ontologia, dove le cose sono, ma non divengono. E la cura sarebbe il ripristino dell’essere. Ma, vivere non è essere. Per ciascuno, si tratta di vivere.
Come vivere. Che cosa è opportuno per vivere. Cosa esige vivere.
Vivere è in assenza di sistematica.
Vivere trascorre tra l’accadere, l’avvenire, il divenire e, dunque, è senza sistema. È senza la finitezza, esige lo sforzo, l’invenzione, esige tenere conto della domanda, delle istanze, del progetto e del programma di vita, una miriade di cose. Esige di trovare il modo, perché questa miriade di cose, nella loro combinatoria, giunga alla qualificazione, alla qualità, alla riuscita, al valore. Qui ha sede la cura: nel cammino, nel percorso, nell’itinerario, nel viaggio che si rivolge al valore.
La cura non è il rimedio all’andamento irregolare del viaggio, è modo temporale del viaggio, cura intransitiva. C’è un grosso fraintendimento negli apparati, a proposito del termine cura, che ne fa una sorta di rieducazione, una sorta di contenimento e di correzione delle svolte, delle sbandate: la via del viaggio non è la via retta, non è rettilinea. Non segue l’intenzione o la prescrizione. Avviene in un altro modo, avviene con aggiunte, lacune, variazioni, differenze, avviene altrimenti da ciò che ognuno presume.
Ma questo non introduce l’alternativa fra giusto e sbagliato, né che bisogna applicare la giustezza.
Questo è il retaggio del mito greco di Procuste, personaggio che stava nei pressi di Atene con il suo letto di contenzione e misurava i viandanti che arrivavano, perché fossero conformi alla misura comune.
Chi era troppo corto veniva allungato, chi era troppo lungo veniva accorciato, in modo che corrispondesse alla misura. Non è questo il criterio della cura: portare tutti alla stessa misura.
Vivendo nella parola, è altra la cura, che non ha la caratteristica di rappresentare la soluzione.
Sempre più è diffusa la credenza di dovere individuare il problema e, una volta individuato, applicare la soluzione. Questo è il modo proprio allo zelo del funzionario che si deve mostrare efficiente. C’è una disfunzione, la toglie, c’è un problema, lo toglie, perché deve ottenere il massimo con il minimo sforzo. Il funzionario zelante, il funzionario che ritiene di essere esso stesso l’apparato che rappresenta, la macchina, il sistema, il meccanismo. Questa è la mentalità meccanicistica, dove la parola è tolta, e il riferimento è l’apparato termodinamico, il contenimento dello sforzo, la ripetizione della dinamica, il contenimento dell’informazione; le cose devono essere ridotte al minimo, per garantire l’efficienza del sistema. E quindi deve essere trovata e applicata la soluzione.
Questa è la modalità algoritmica, che è sempre più diffusa grazie alla tecnologia cibernetica e informatica. Nella modalità algoritmica domina proprio ciò che contrasta la parola, le sue virtù e le virtù del principio. Nell’algoritmo è essenziale l’assenza di ambiguità e di dubbio. E, quindi, già nella promessa algoritmica c’è la negazione del due.
Il due è alla base della procedura della parola. Le cose procedono dal due e si rivolgono alla loro qualità. Questa è la procedura della parola.
Nella modalità che tenta l’applicazione della soluzione al problema, il due deve essere tolto, perché non deve esserci ambiguità. Non ci deve essere contraddizione, ma unità. Ci deve essere finitezza del processo, con un tempo limitato, applicazione dell’algebra e della geometria del tempo, e l’univocità del risultato, pur nella ripetizione.
Impossibili la variazione e la differenza, impossibili l’intervento artistico e l’intervento culturale; impossibile l’altro modo. E, ancora, importa il determinismo. Non ci devono essere né dubbio, né equivoco, né menzogna, né malinteso, ma la riproduzione dell’identico.
Tutto ciò nega che possa avvenire la cura, nega che possa avvenire l’esperienza, perché l’algoritmo è una scorciatoia verso il risultato prestabilito e prefissato. Il fatto è che questa modalità non avviene soltanto nel terreno dell’informatica, ma ha ispirato le linee guida della medicina moderna, con la standardizzazione diagnostica, con l’applicazione di un codice unilinguistico, perché le diagnosi possano essere identiche su tutto il pianeta e consentire, l’applicazione delle stesse linee guida alla cura. Questo metodo doveva facilitare diagnostica, terapia, cura, secondo il canone organicistico, ma ha prodotto un altro inconveniente: la creazione del malato professionista.
Il malato che “sa” qual è il suo male prima ancora di averlo indagato, prima ancora di avere avviato un dispositivo di ricerca intorno a ciò che non va e a ciò che non funziona, per capire quali interventi attuare nei dispositivi del vivere.
Il male è comune, è generale e nessuna importanza è accordata alla ricerca inerente la combinatoria, per accogliere, capire, intendere quel che non va e quel che non funziona.
Questa semplice formulazione – qualcosa non va e qualcosa non funziona – instaura la ricerca intorno alla logica della parola e alla sua struttura, perché esige la ricerca su ciò che nella parola fa da causa, quindi sull’oggetto nella parola, sulla provocazione da cui muove la domanda, per esempio; su come funziona la domanda che si avvia e come, nonostante il funzionamento, quel che funziona possa non andare secondo le aspettative; qualcosa non va, qualcosa non funziona, dunque, qualcosa “non”.
Qualcosa va, qualcosa funziona, qualcosa non va, qualcosa non funziona.
Non c’è più sistema, non c’è più sistema di riferimento, ma funzione di “non”. E l’occorrenza dell’Altro.
La questione sta nella parola. Quel che non va e quel che non funziona giunge a dirsi. Come si strutturano le cose, dicendosi? Che cosa si dice, parlando? Qualcosa funziona e qualcosa non funziona. Le cose non sono le stesse, le cose, dicendosi, si piegano.
Dunque, interviene la molteplicità.
Quale educazione, quale insegnamento e quale formazione fornisce l’apparato sociale per chi si trova a ascoltare chi racconta quel che non va e quel che non funziona, partendo dall’idea di raccontare i suoi mali, i suoi beni, le sue vicende, le sue avventure, le sue disavventure, ignorando che ciò che si pone come disavventura può divenire fortuna e avventura a condizione di non fermarsi lì, ma di proseguire, di accogliere quanto sta avvenendo nel dispositivo della solidarietà. E non si tratta dell’assistenza, dell’altruismo, dell’empatia, che dovrebbero consentire di mettersi nei panni altrui, per fare una melma comune.
Come uscire dagli impicci, quale aiuto, mettendosi nei panni altrui? Nessun aiuto. Impossibile che s’instauri l’Altro, se l’ascolto è impedito, se la procedura, il processo, la processione, la strutturazione sono stoppati dall’idea di aver già capito, anzi, di sapere già, di dovere applicare la soluzione.
La soluzione è la mia fantasia su di te, la mia fantasia sulla cosa che mi hai detto, la mia fantasia sulla cosa che tu hai fatto, la mia fantasia sulla base di ciò che ho sentito dire, ossia il pettegolezzo.
Tutto ciò vale a creare i malati professionisti che credono di potere curarsi da sé.
Con la soluzione, si applica l’idea della meta alla domanda, l’idea di fine.
Un’idea di fine del tempo. È allora comprensibile il dilagare dell’etichetta del male dell’Altro chiamato depressione. Se ogni altruista applica la conferma della fine del tempo all’idea di male che gli viene riferita, non c’è più medicina. C’è una concezione sanitaria apocalittica, ma non c’è la medicina quale ricchezza dei mezzi e degli strumenti della parola, per la scommessa di vivere. Scommessa, non già promessa.
Che s’instauri la scommessa di vivere è già una cosa straordinaria, quando dilaga come male del secolo la negazione dell’istanza di vivere.
L’abolizione del disturbo trae con sé l’abolizione della domanda, con, l’abolizione del paradosso del desiderio, del godimento, dell’effetto di verità.
Togliete la domanda e avrete l’inerzia.
Con l’analisi, la domanda è tensione, è sforzo. Domanda è il modo linguistico, narrativo con cui si formula la questione pulsionale, tensionale della vivenza.
Non c’è vivere senza la lingua, senza la parola, senza la domanda, senza il progetto e il programma di vita, senza l’esperienza in cui le cose si dicono e si rivolgono alla cifra.
Di cosa si tratta nel disturbo? Il disturbo è lo sbaglio di conto nella struttura sintattica della domanda. È la svista nella struttura frastica nella domanda, è l’errore di calcolo nella struttura pragmatica della domanda.
Il disturbo è assoluto. È strutturale. Il canone non precede la parola. Il canone è il rimedio dei fautori della sistematica del discorso, dei presunti conoscitori del mondo, rivolto al disturbo strutturale che avviene parlando. Il disturbo è parlando e facendo. Per abolire il disturbo occorre eliminare la parola. Questo è il tentativo che sta avvenendo a livello planetario nella saldatura tra canoni morali, spirituali, ideologici e tecnologia, per una visione del mondo, per il pensiero unico.
La nostra esperienza è l’esperienza come disturbo, l’esperienza dove avviene il disturbo strutturale, cioè lo sbaglio di conto, la svista, l’errore di calcolo, senza rimedio, perché intervengono nella metafora, nella metonimia nella catacresi, nella memoria, nella scrittura delle cose. Quanto dico è testimonianza e frutto dell’esperienza della parola originaria che con Armando Verdiglione si chiama cifrematica, esperienza che non è né verificabile né falsificabile. Esperienza, quindi, originaria. L’atto è originario, l’esperienza è originaria, non c’è riproduzione dell’atto, non c’è riproduzione dell’esperienza. Allora, la questione della cura e dell’esperienza come disturbo è la questione della parola, la questione della parola originaria. La cura non toglie il disturbo strutturale della parola.