IL DISPOSITIVO DI BRAINWORKING DELL’ESPERIENZA
La realtà della parola non è conformista, non si conforma al senso comune o alla volontà del soggetto, ma si attiene alla logica dell’apertura.
Dicendo e facendo, le cose non sono fisse, entrano in una trasformazione che procede dall’apertura, per integrazione e non per unificazione, non per affermare o per negare qualcosa, in modo da significarla. Questo avviene nel sociale, nei social e nella burocratura, e quel che non risponde a questi canoni è automaticamente escluso, ovvero è inesistente.
Ecco lo scacco dell’epoca: la parola non è misurata dall’affermazione o dalla negazione, quindi dal principio del terzo escluso, tanto di successo nei reality, funzionali allo show della realtà a partire dalla sua eliminazione.
Proprio nell’epoca del trionfo di social network e di nuove applicazioni per cellulari, che offrono piattaforme umanitarie per parole senza controllo, proprio quando la quarta rivoluzione industriale dello Smart Manufacturing annuncia l’opportunità di nuovi sistemi di produzione automatizzati, proprio quando la sanità pubblica sembra aver raggiunto la massima efficienza con nuovi protocolli per la tutela della salute individuale, ecco che si pone più che mai la questione della parola e dei suoi dispositivi.
Il dispositivo di parola non ha nulla di automatico o di naturalistico o di umanistico.
Nel dispositivo di accoglienza, il dispositivo del racconto, risalta l’Altro, l’Altro non rappresentato, l’Altro assoluto.
Le cose che entrano nella parola procedono dall’apertura. Questa è la novità: instaurare l’apertura, l’accoglienza: dicendo, facendo, raccontando. Questione di occorrenza, non di volontà: fare come occorre fare, non fare come so, voglio, posso o devo fare. Fare, quindi, senza l’ideale, che invece impedisce l’apertura.
Negata l’occorrenza, interviene l’idea di tempo come durata, in cui le cose finiscono.
Lungo l’occorrenza, le cose che man mano si concludono consentono di trovare il ritmo per incominciarne altre, senza fine. Fare non è questione di titoli, di età o di salute ideale, di cui la malattia segna lo scacco.
Il dispositivo di parola si rivolge alla novità e all’innovazione, alla salute non più ideale e alla qualificazione, perché procede dall’apertura. Quest’apertura sembra venire meno, per esempio, con l’avvento della cosiddetta malattia, definita come “alterazione” di una o più funzioni del corpo. Quando interviene, la malattia sembra togliere l’ascolto, e dunque la parola, perché prevale l’idea di fine del tempo: la questione sembra chiusa e la speranza confiscata. È interessante ascoltare le diverse “reazioni” alla notizia della malattia, che trasformano il cosiddetto malato in soggetto, appunto, soggetto alla sopportazione del peso della malattia. La medicina finisce così per diventare il Caronte dantesco, il traghettatore nella pena da espiare durante il programma della cura. La cura per sfuggire alla morte, quindi, la cura come pena.
E quali sono gli acciacchi e i contraccolpi dello schema sociale della coppia medico-paziente di cui assumono il peso, per esempio, anche alcuni medici? La medicina trova il suo statuto clinico e intellettuale quando è in atto il dispositivo di parola, oltre il rapporto professionale e sociale medico-paziente, basato sullo schema attivo-passivo, superiore- inferiore. Ma proprio quel che non funziona e quel che non va, esigendo l’ascolto senza schemi precostituiti, dissipano le classificazioni nosografiche, postulate per confermare una verità da professare.
Nessuno detiene la verità, né il paziente, né il medico né, tanto meno, internet, il luogo in cui sembra facilitata la parola.
Nessuno può stabilire cosa avviene e diviene nell’incontro. Nel dispositivo di parola, chiamato colloquio, ogni aspetto della vita è messo in questione, perché non si tratta di procedere per schemi prefissati, professionali o comportamentali, si tratta della logica e del modo della parola particolare a ciascuno, che è anche il modo della sua struttura, è il modo del tempo ed è il modo dell’industria della parola – il termine “industria”, secondo l’etimo, nel rinascimento significava “struttura”.
Il brainworker indica come il dispositivo della salute sia il cervello: non un organo biologico, bensì un dispositivo intellettuale, non naturale, dispositivo di forza in cui si enuncia l’ipotesi pragmatica, l’ipotesi dell’avvenire, lungo l’occorrenza. Per questa via s’instaura l’istanza della qualità della vita per ciascuno.
Non basta infatti l’idea di bene o di buona volontà per andare in direzione della qualità, occorre proprio il dispositivo di brainworking per trovare un altro modo della vita, non soltanto rispetto alla malattia, ma anche rispetto al progetto e al programma, alle scadenze della vita.
Nel caso per esempio della medicina, quell’“impaziente” – che avverte un altro tempo avviato dalla malattia, oltre la propria volontà – incontrerà quel medico per la vita non soltanto perché lo stabiliscono i protocolli, ma perché la parola non finisce tra un appuntamento e l’altro. Nel dispositivo intellettuale non importano l’empatia, la condivisione, la personalizzazione, ma è indispensabile attenersi alla particolarità della parola senza personalismi e senza rappresentazioni.
Non conta la brevità, intesa come cura veloce, non conta il compatimento, cum patire, per condividere il peso, ma occorre il cervello come dispositivo di direzione verso la qualità.
La medicina tradizionale intende curare “il” paziente. Le teorie relazionali dicono che la cura si fa “con” il paziente.
La cifrematica giunge a dire che la cura interviene con l’Altro tempo. L’Altro tempo che irrompe nella parola, dicendo e facendo, avvalendosi del dispositivo intellettuale, che è anche dispositivo temporale. Questo dispositivo instaura non la cordialità o l’amicizia o l’intesa, ma l’Altro tempo con un progetto e un programma di vita. Con la cifrematica, come scienza della parola, e con il brainworking dell’esperienza, la parola trova la sua industria, la sua struttura, per instaurare dispositivi di riuscita con gli interlocutori della giornata, in direzione della qualità.