IL BELLO DEL SUPERFLUO

Nell’epoca della condivisione sociale e della predazione fiscale, del taglio agli investimenti e della caccia allo spreco, dove tutto, dal tempo all’energia, deve essere misurato e risparmiato, il superfluo viene, idealmente, bandito: nulla di troppo, nulla di futile e di frivolo, occorre limitarsi a quel che è strettamente necessario, in base ai criteri di accettabilità e di sostenibilità. Con questi criteri nullificanti, il necessario diventa il minimo necessario: il minimo male necessario, il minimo sacrificio necessario, il minimo spreco necessario. In tal modo, in nome della propria idea di bene, il male, il sacrificio, lo spreco diventano indispensabili per sancire il limite e la frontiera del dire, del fare, della vita stessa. Il principio di necessità, la necessità preventiva, è finalistico, presuppone che le cose siano sottoposte a un fine intrinseco, dunque pre-destinate, e che i mezzi e i modi possano essere prestabiliti: è il principio del terzo escluso, dell’Altro rappresentato, che si avvale dei principi di selezione e di elezione a cui dovrebbero essere sottoposti l’avvenire e il divenire. Con questo rasoio di Occam l’avvenire e il divenire si dissolvono nel presente, perché solo partendo dal presente, dall’idea di presente, possiamo stabilire quel che sarà necessario.
Ma abolire l’avvenire e il divenire è abolire il contingente, il tempo in atto, il tempo pragmatico, che nulla ha a che fare con il presente, con il tempo presunto presente, visibile, osservabile, rappresentabile.
Il tempo contingente è il tempo dell’impresa.
Nell’Urkommunismus di molti ideologi alla moda la critica al superfluo diventa un modo per criminalizzare l’impresa, rea di non limitarsi a produrre beni per soddisfare i bisogni presunti naturali perché tesa a inventare nuovi bisogni, per produrre e vendere beni presunti non necessari.
Bisogni superflui? Beni superflui? L’invenzione e l’arte indicano che quel che è superfluo, quel che non è solito, usuale, conosciuto, risulta necessario, non se ne può fare a meno. Come stabilire quel che è superfluo? Ciascuno può constatare che è il fare con il tempo a decidere del superfluo: nell’atto (e nell’attuale) nessuno sa quel che è superfluo, quel che sembrava superfluo in un determinato momento, con il tempo può risultare indispensabile. La necessità del superfluo esige il tempo pragmatico: facendo, s’intende che quel che sembrava superfluo (nel senso di inutile) diviene necessario, e un’altra accezione di superfluo s’impone.
Ciascuno ignora l’avvenire e il divenire: per questo è impossibile evitare il superfluo, e il vero spreco sta nell’impegnarsi in questo evitamento, in questo risparmio, sottoponendo il fare a previsioni e a finalismo.
Anziché la scommessa sul divenire e sull’avvenire, allora importa la convenienza: conviene la ricerca? Conviene l’arte? Conviene finanziare i viaggi spaziali? Conviene la TAV? Conviene sostenere Radio Radicale? Per l’immobilismo, ciascuna cosa, anche l’impresa, deve giustificarsi socialmente e sostanzialmente, redimere la propria produzione e il proprio profitto (come fossero una colpa), assumendo una funzione etica e un ruolo sociale (che diventano una pena). L’ideologia della convenienza è ideologia della colpa e della pena, mira a trasformare la necessità come esigenza e occorrenza pragmatiche in principio di necessità, ovvero principio di sottomissione alla presunta mancanza e al finalismo. Il principio di necessità è il principio di ragione sufficiente, poggia sull’idea di salvezza, come nota Antonella Silvestrini nel suo articolo in questo numero. La necessità senza principio, la necessità che interviene facendo, è pragmatica.
Il superfluo che non si sottopone al principio di necessità è proprietà pragmatica, proprietà del fare e del tempo che interviene facendo. Facendo: il gerundio. Come vivere? Facendo. Chi vive non è il vivente, lo zôon della dottrina misterica, è il ciascuno: ciascuno, facendo, vive di superfluo, non di eternità. L’eternità, promessa misterica, è l’assenza di tempo, di superfluo, per questo non ciascuno, ma ognuno muore d’eternità, che abita nel cerchio, nel ritorno, nel finito.
Il concetto di finito è intollerante rispetto al superfluo, al fluire infinito del tempo: postulando che il tempo passi e scorra, deve misurarlo e risparmiarlo, ha orrore del futile e del frivolo che si combinano nel superfluo, nel tempo libero, in assenza di causalismo e finalismo, da convenienza e accettabilità.
Quando il flusso del tempo non si può più misurare e non si può più risparmiare, la sua fluenza è superfluenza, da cui il superfluo e la sua necessità: necessità dei flussi di cassa, dei flussi finanziari, di cui ogni fiscalismo, ovvero la burocratura, ha orrore tanto da tenerli sotto giudizio, cioè sotto critica (critica; dal greco krino, giudico). Ma se il giudizio è dettato dal tabù del tempo, se vuole sottoporre il fare all’idea di bene, la critica diventa sociale, diventa critica del superfluo, critica del lusso, critica dell’infinito del tempo, critica del fare, critica dell’industria, critica dell’intellettualità.
Quando non basta più la criminalizzazione ideologica, questa critica si avvale del tribunale, come nel caso di molti imprenditori e di un intellettuale imprenditore, Armando Verdiglione, accusato prima di “eccesso di influenza”, poi di “ingenti flussi di cassa”. I flussi, la fluenza, l’influenza, la superfluenza, il superfluo. La denuncia del frivolo, da sempre criminalizzato da chi si attiene al principio del risparmio, imperversa dai tempi di Lutero: troppo lusso, troppa arte, troppo spreco a Roma per i principi tedeschi, allora come ora.
“Ovunque è presente qualcosa di frivolo, lì è presente il profondo”, scrive Osho Rajneesh. Ma il frivolo non rimanda a una profondità iniziatica e misterica. La burocratura fiscale, in nome di una presunta profondità, mira a colpire o a monopolizzare il superfluo, il futile e il frivolo, e dunque il lusso; in tal modo esclude, idealmente, il fare, il tempo, l’Altro. Per questo risulta devastante per l’impresa, la città e la vita civile. “La prima necessità dell’uomo è il superfluo”, scrive Albert Einstein.
L’Altro non può escludersi né includersi: questa tolleranza dell’Altro non si commisura al principio di ragione sufficiente, esige il superfluo per non diventare circolare, assimilante, asfissiante, parificante e purificante, come nella città necropolitana.
Il bello del superfluo, secondo l’occorrenza, è il bello della differenza e della varietà, invise a ogni regime, ma imprescindibili per la vita civile. Nessuna riuscita pragmatica senza il superfluo: parlando, l’avvenire e il divenire sono dinanzi, senza risparmiabilità né misurabilità.

N. 84 - Giu. 2019 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO