DALL’ANALISI DELL’EPOCA AL TESTO DELLA CIVILTÀ
Nel libro La repubblica, Platone s’interroga se sia meglio che la città venga amministrata dai politici o dai sophòi, ovvero dai filosofi. E scrive che spetta a quest’ultimi, depositari della conoscenza che trae al bene, la guida della città. 2600 anni dopo, nel pieno della pandemia di Covid-19, si è riproposta la questione: al posto dei filosofi, la guida dei destini della nazione è stata delegata ai virologi e ai comitati dei tecnici. Con un’aggiunta: il conflitto si è spostato anche tra i medici, di varie specialità, ciascuno con la sua valutazione, la sua eziologia, la sua ricetta, spesso opposte fra loro. Polmonite interstiziale o coagulazione intramuscolare? Idrossiclorina, iperventilazione o plasma iperimmune? La scienza da sempre procede non per falsificazioni, come scrive l’epistemologo Karl Popper in Congetture e confutazioni, bensì di cantonata in cantonata, come coglie l’astrofisico Mario Livio nel suo libro Cantonate. E sta qui la chance della scienza.
Ma il calderone mediatico è pronto a sostenere ora l’una ora l’altra tesi sul coronavirus come fossero verità rivelate, con un tifo assordante tra gli utenti dei social, ignari di medicina, ma pronti a giurare sulla validità di questa o di quella diagnosi, di questo o di quel farmaco. Al punto che al primo ministro, per correre in soccorso dei suoi esperti, non è restato altro che, anziché a Platone, fare appello a Aristotele e alla sua distinzione tra la dóxa, l’opinione, e la presunta vera scienza, l’epistéme. Appello vano: in barba all’epistéme, ora la presunta volontà popolare si scaglia contro i vaccini e le App per tracciare il virus, prima ancora che gli uni e le altre siano stati sperimentati.
Non a caso: un governo che fa leva sulle paure del virus per imporre, in nome del bene sociale, ricette devastanti per le imprese, le famiglie, le città, come può sorprendersi se queste paure trovano altri oggetti, in direzione opposta agli auspici di una volontà politica che tanto più impazza quanto più è senza autorità, senza capacità, senza direzione? Così, nella provincia Italia, i virologi hanno imperversato con la loro saccenza e la loro spocchiosità, gli avatar della loro conoscenza. E per ogni scienziato sacerdote, funzionale alla classe dominante, la classe dei più uguali, c’è sempre uno scienziato stregone, adatto per la classe dominata, la classe dei meno uguali: alla medicina che si pretenda sacra, ufficiale, si contrapporrà sempre una medicina che si ritenga profana, alternativa. E ciascuna, in una gara di arroganza, proporrà i suoi farmaci, considerando rimedio la propria sostanza e veleno quella altrui; la loro contrapposizione inscenerà la definizione stessa del phármakon greco, che designava sia il veleno sia il rimedio.
La questione è che il phármakon è utile alla volontà di bene, fa sempre bene, sia come veleno sia come rimedio. È funzionale al bene pubblico, dunque alla salute pubblica, ora per costruire distruggendo, ora per distruggere costruendo. Per la volontà di bene non importano le istanze del privato, ma la salute pubblica, che poggia su tre precetti: purificare, punire, risparmiare. La politica senza arte e senza cultura, la politica penalpopulista dettata dalla volontà di bene è la volontà politica come volontà dell’Altro, la volontà del male come pena, fra predazione e redenzione, magari con l’ausilio dei sophòi di turno. Il governo penalpopulista è il più distante dalla libertà della ricerca e dalla libertà dell’impresa, è il più distante dalla salute come istanza di valore della vita, dall’istanza del capitalismo della vita civile.
Il governo, ma anche l’opposizione, che si attenga al bene ideale è penalpopulista perché l’idea di bene è idea di pena. In riferimento al bene ideale tutto è in pena, è messo in pena: per esempio, innanzi al bene ideale, ogni piacere deve mutarsi nella pena. Se tutto è in pena, ognuno è in colpa e in debito. Ciò che è invidiato è sospetto: e la pena deve provare la colpa, e la colpa deve provare il reato. Per questo, chi non sta in pena è sospetto di pena: l’impresa, l’arte, l’invenzione, il profitto sono invidiati, dunque sono sospetti di pena. La volontà di bene è la volontà di pena, è questo il realismo della volontà dell’Altro. E che ci sia sempre chi “deve marcire in carcere”, nonostante il pericolo di morte o il rischio d’epidemia, deve indicare quanto l’idea di pena con il carcere divenga idea penitenziaria. “E quel che ti è concesso è la tua dose di pena”, scrive Armando Verdiglione.
La vita come concessione, la vita messa in pena, la vita come prigione è la vita calunniata, denigrata, degradata rispetto a un luogo puro. La volontà di bene come volontà dell’Altro, la volontà politica, dovrebbe realizzare quel che è idealmente necessario per i sudditi: dovrebbe realizzare la necessità ideale. Il riferimento ideale è il riferimento puro e radicale. Rispetto a questa purezza, la terra, il tempo, l’impresa, la vita intervengono come rottura, come degrado, come corruzione. Per questo non sono tollerati: non è tollerato il tempo, non è tollerata l’impresa, non è tollerata la modernità, il modo dell’esperienza e della sua scrittura.
La volontà politica non è la politica pragmatica, la politica civile. Il fare sottoposto all’imperativo della volontà, dunque all’ideale, è annullato per essere ricreato come fare sottoposto alla concessione, sotto il canone dell’uguale, che è il canone della gerarchia e dell’egemonia.
Il riferimento al luogo puro, al puro, in particolare, sorregge il radicalismo, il determinismo, il positivismo, il primato dell’azione, tanto più determinata quanto più si riferisce all’indeterminazione, tanto più positiva quanto più dipende dalla negatività. Così il virus, la malattia, l’ignoto diventano segni del male, non pongono una questione di salute: innanzi al male, alla corruzione, la politica penalpopulista cerca nel virus il pretesto del suo potere unico, spazzando via il diritto e la ragione civile. Mandato dal dio puro, il Figlio del sole prende il virus e si fa phármakon, muore per rinnovarsi e per salvare il mondo. Come Osiride, Zagreus, Dioniso, Prajapati, Cristo. Questo è il primato della politica, l’autarchia, l’autofagia con cui lo spirito del cerimoniale realizza l’unione mistica del sacrificante e del sacrificato. Questo androgino dà luogo al dàimon, che si dissolve nel precetto ultimo di divenire un puro nulla. Per questo Maometto dice: “Devo divenire un puro nulla”. Questo il nullismo delle dottrine religiose che sono dottrine politiche e sociali. Il dio radicale che muore e si rinnova è mandato dal dio puro, la sua determinazione è funzionale al principio d’indeterminazione che regna nella scienza e al principio d’inazione che domina la politica, princìpi che dissolvono scienza e politica nella purezza iniziatica e misterica.
Con il pretesto del virus, il governo che non agisce per mantenersi puro e che agisce per salvare ha attuato il suo piano antindustriale, antioccidentale, antieuropeo, inintellettuale, illiberale per cui era sorto. Piano contro la scienza, l’arte, la cultura, la poesia, l’impresa. Il tempo dell’emergenza del coronavirus è diventato il tempo economizzato senza la parola.
Il tempo, il fare, l’impresa, il viaggio, l’incontro: tutto bloccato, sospeso, mutato.
La burocrazia anticovid è pesante: viene usata per mantenere il potere e per bloccare, non per favorire, la ripartenza. Prove tecniche di una società utopica di salariati e assistiti, prove tecniche di realizzazione feriale del nulla. E la morte è funzionale e benefica, giustifica la casta e l’anticasta.
Non c’è partita per questa provincia Italia, pronta alle lusinghe del totalitarismo cinese o russo, mentre vanta i loro aiuti e non fa parola di quelli americani o tedeschi. È un’Italia autoreferenziale, senza tempo, chiusa nella dialettica mortifera tra i più uguali e i meno uguali, tra chi assiste e chi è assistito: la dialettica del nulla. Il ricercatore, l’imprenditore, l’artista, lo scrittore non hanno tempo di chiedersi qual è il farmaco giusto o quando finirà la pandemia: è la produzione a decidere della partita, non la coppia unitaria, circolare, significante sacrificato.
Altra è l’Italia la cui partita è la partita del tempo, del fare, dell’impresa.
Il pittore italiano Alfonso Frasnedi, lo scrittore cinese Zhou Qing, gli imprenditori italiani interpellati per questo numero non hanno aspettano il tempo giusto per fare: il tempo non è il tempo per fare, ma il tempo del fare, il tempo della poesia, il tempo dell’impresa. Nessuno ha il tempo, nessuno è il tempo: facendo, interviene il tempo, il tempo pragmatico, il tempo inviso ai salariati e agli assistiti, alla casta dei burocrati e dei sindacati. Il tempo dell’occorrenza, con il suo rischio incalcolabile e la sua scommessa improbabile, anziché la necessità ideale, con la sua pena certa e la sua penitenza eterna.
E c’è chi è in pena per qualsiasi cosa, dal lockdown alle mascherine, dal vaccino alle App traccianti. Il tempo del fare non porta pena perché non è in riferimento all’ideale, all’origine, al centro, al sé, all’Altro, all’Unico, ovvero alle ipostasi del nullismo imperante.
Vi è chi, anche tra gli imprenditori e i commercianti, per paura di rischiare e di scommettere, mantiene anche oggi la chiusura che prima era stata imposta dal governo. Aspetta circostanze migliori, aspetta i contributi, aspetta i doni di morte del penalpopulismo. Aspetta, nutrendosi della morte bianca. Ma vivere senza rischio e senza scommessa è mortificarsi nel perpetuo pericolo di morte, nella penosa speranza di sopravvivenza.
Vivendo, non c’è alternativa alla riuscita.
Nei prossimi mesi e anni, fioriranno in Italia imprese e mestieri nuovi, nuovi dispositivi della vita civile, come non accadeva da molto: fioriranno contro ogni blocco e nonostante la burocrazia. In questo tempo, il tempo del fare, la nostra rivista, e gli imprenditori che vi scrivono, non aspetta né subisce le circostanze, non critica e non subisce la burocrazia: noi analizziamo, noi constatiamo, noi cogliamo gl’indici, gl’indizi, i segnali, gli asterischi del processo linguistico di scrittura della ricerca e dell’impresa, noi cogliamo le proprietà della vita. A noi spetta restituire, con la lettura, oltre l’analisi dell’epoca e oltre l’esperienza, il testo civile, il testo della civiltà della vita.