Dalla solitudine alla salute. La vera cura
L’idea di salute dell’epoca si fonda e si regge sul principio dell’amore transitivo e mira alla salvezza dell’Altro, scambiata per salute. Il discorso della salvezza ruota intorno all’idea dell’essere umano, ora sano, ora ammalabile, ora guaribile, ora mortale.
Il riferimento di questa idea di salute è la mortalità. E, considerata una possibilità umana, questa salute rientra tra i casi di mortalità, avendo il suo limite nella morte. È celebre il motto cinico del medico secondo cui “di qualcosa bisogna pur morire”.
L’idea della mortalità e della morte come certezza costituisce lo sbarramento alla salute. Sia nella teologia della salvezza sia nella medicina di quest’epoca, si tratta della salute relativa, non della salute assoluta.
La salute relativa ha come riferimento il male e la morte.
La relativizzazione della salute rispetto alla morte è ciò per cui sorge la tecnologia della salute e della cura: per abolire la morte. La morte diventa la bussola dell’umano.
È il frutto del relativismo culturale che dilaga con la socializzazione dell’arte, della cultura, della scienza, con la socializzazione della differenza, che è intesa non come differenza assoluta di ciascuna cosa, anche da se stessa, ma come differenza di una cosa da un’altra o di ognuno dagli altri, con paragoni e confronti relativi. Ma nella parola il confronto è con l’assoluto e il paragone è ironico, perché ciascuna cosa ha uno statuto particolare e specifico.
Imparagonabile e inconfrontabile con altri.
La salute nella parola non ha riferimento o paragone con la morte e, quindi, non mira alla sua abolizione.
L’esperienza della parola non attua nessuna guerra di liberazione dalla morte, nessuna crociata contro la morte, perché la morte non è la direzione o il destino dell’esperienza.
La salute non è un bene da mantenere o che si possa perdere, che debba essere stabile per garantire un regime di vita sana, ma è istanza della qualità, che esige il progetto e il programma di vita.
È la salute che sta in un processo, non nell’essere, non in una situazione, né nell’ontologia. Il processo della salute è vitale. È il processo che sta nella tensione della vita, nel viaggio, nella tendenza, dove ciascuna cosa accade e diviene in direzione del valore. La salute è l’istanza del valore. Esige la valorizzazione, non la denuncia, la denigrazione, il lamento delle cose che non vanno o non funzionano come idealmente dovrebbero.
Il processo di qualificazione è processo di salute, pulsionale; e coinvolge il progetto e il programma, che non sono innati; nessuno nasce destinato a qualcosa, ma è la domanda, con il suo svolgimento, con la sua articolazione, con le vicende del suo corso, che aggiorna progetto e programma nella rivoluzione verso la qualità: essi non sono spiritualmente destinati alla qualità.
Ciò contrasta con l’ideologia vigente, che giustifica chi, avendo un compito da svolgere, avendo affidati una mansione o un incarico, dice: “No, questo non posso farlo, perché non sono portato”.
Queste giustificazioni sono assegnate a sé e all’Altro da genitori, insegnanti, psicologi dell’orientamento, medici, e così via, ognuno vi ricorre: chi non è portato per la matematica, chi non è portato per le lingue straniere, chi non è portato per lo studio, chi non è portato per il lavoro, chi per far fatica, chi per ragionare. Ma chi “è portato”? E chi sarebbe il portatore? Questa idea del portatore ha la sua ragione nel daímon innato del soggetto, il soggetto portato, debole, incapace e irresponsabile, anche malato.
Soggetto de-portato verso qualcosa che bisogna sia facile facile, senza sforzo e senza fatica. Deportato alla morte. In questa idea d’innatismo, di predestinazione, di fatalismo agisce la salute sociologica, antropologica, religiosa: la salute sociale.
Nella parola, la salute è globale, è salute della vita, in ciascun istante, nel gerundio. L’istante non è pensabile, né immaginabile come cronologia. La cronologia compie l’economia del tempo e dell’istante, e quindi fonda la salute relativa. La salute nel gerundio è senza economia, perché parlando e facendo sono impossibili la contabilità e l’economia.
L’intero, l’integrazione, la solitudine, la solidarietà non sono tappe o fasi del viaggio, sono proprietà, virtù e indici del dispositivo di salute, che con la parola si avvia. La salute non è prescritta, né promessa, non è un bene che possa essere erogato o comminato da altri, non segue il principio dell’amore transitivo o dell’altruismo. Non c’è sciamanesimo.
Importa il viaggio, non dove arriva.
Importa nella sua interezza, nella sua globalità, nel suo corso, nel suo sforzo, non la sua fine. L’idea di sufficienza toglie la salute. Per la salute occorre il criterio della qualità che esige l’analisi con il teorema: “non c’è più sostanza”, per ciascuna cosa, con la dissipazione della credenza nella sostanzialità, nell’origine, nella fine del tempo.
Il processo intellettuale dissipa anche l’idea di sé e l’idea dell’Altro, l’idea del nulla come idea relativa.
Esige lo sforzo, l’afasia originaria, l’invenzione e la reinvenzione del glossario e del dizionario, come glossario e dizionario della salute.
È processo di affinamento linguistico che si attua con l’analisi e con la cifratura: con la teorematica e con la clinica, non c’è più cosa sostanziale, né l’idea di male dell’Altro, di malessere, né il lamento su ciò che non va come dovrebbe, né l’idealità sul modo corretto in cui le cose dovrebbero svolgersi.
L’apparato diagnostico medico che si arricchisce ogni giorno di disturbi nuovi non tiene conto della natura del disturbo, ne fa una classificazione su base relativistica e statistica, con un criterio generale, senza tenere conto, per esempio, che non ogni aritmia cardiaca corrisponde alla sua etichetta generica, non ogni disturbo della pressione o del sonno è uguale in una persona e in un’altra. Non è lo stesso disturbo.
Non ha la stessa causa. La conferma è data dal racconto. Non c’è mai un racconto uguale a un altro. Bisogna ascoltare, capire, intendere la ricchezza narrativa che ha il disturbo come struttura del suo svolgimento.
Il disturbo si scrive: sta qui la ricchezza con cui prende avvio il processo di salute.
Invece, con la negazione della parola originaria e dell’oralità, cresce il catalogo dei mali, cresce anche il “business” connesso a questo catalogo, cresce anche la somministrazione di sostanze, ma non cresce, invece, l’elaborazione che riguarda la cura, la terapia, la salute. È paradossale che, proprio quest’epoca che si definisce della comunicazione, punti ad abolire l’oralità, la lingua, la narrazione, il racconto, a favore del nominalismo tecnico, per definire sempre più numerose sintomatologie. Ogni sintomo è etichettato come male.
In quest’epoca organicistica, scientista e tecnologica, importa la diagnosi, non la cura. Importante è la diagnosi da mettere in elenco, la cura può anche non riuscire, ma seguirà il protocollo, che impedisce l’arte e l’invenzione, rispetto all’esigenza.
Ma, se è abolita l’arte – la variazione, il cammino artistico –, è abolita anche la terapia, che è la vicenda del cammino artistico. Il cammino artistico procede dall’apertura in direzione della qualità. La solitudine è virtù dell’oggetto, che è condizione del cammino e del percorso, ovvero del viaggio, procede dalla sua forza, dalla pulsione, che ha la sua formalizzazione linguistica nella domanda. La domanda è inerente il progetto e il programma di ciascuno.
Con la domanda, la tensione, l’istanza della qualità, è la salute.
Ciò esige il dispositivo della parola, dove la domanda di ciascuno si svolge, si articola, ha il suo corso, con le cose che si dicono, con le cose che si fanno; è dispositivo di ricerca e d’impresa, dove le cose si dispongono: accadono, avvengono, divengono. Un dispositivo mobile, sessuale, non riproducibile. Non sperimentale.
Tutto ciò nulla ha a che vedere con l’ideale psicoterapico. La parola è negata da ogni dottrina, ideologia o disciplina, perché impedisce l’ideale sperimentale della riproducibilità degli atti, impedisce l’economia della cura, la sua standardizzazione, impedisce l’applicazione dello stesso modello, dello stesso schema.
L’economia del tempo fonda l’economia della cura. L’ideologia vigente della cura è altruista: la cura breve, la cura finalizzata, la cura economica, sul modello della guerra al male; è la cura contro il disturbo.
La cura che, presumendo la conoscenza di quel che non va nel “meccanismo mentale”, mira al disturbo, per abolirlo. Questo non è il modo della terapia, ma della pratica venatoria. Si tratta della caccia al disturbo per estinguerlo. E, una volta abolito il disturbo? Ne sorgerà un altro, perché il disturbo è irrinunciabile.
Il disturbo è della parola, è la sua struttura, la sua memoria.
S’istituisce sulla variazione artistica e sulla differenza culturale. Il disturbo assicura la ricchezza narrativa.
Da cosa s’incomincia a parlare? Da quel che non va e da quel che non funziona. Da ciò che, intervenendo, fa incominciare la conversazione, la narrazione, il racconto. Il racconto è un registro di scrittura del disturbo. Registro infinito.
L’enciclopedia e il vocabolario definiscono disturbo qualcosa che rompe la quiete, incaglia la scorrevolezza funzionale di una macchina, di un apparato sociale.
Il disturbo procede dal caos, virtù del principio, dalla simmetriaasimmetria, della relazione originaria.
Come togliere il disturbo? C’è chi dice: “Tolgo il disturbo”, e se ne va. Dove va? Molti che tolgono il disturbo, se ne vanno per sempre.
Il disturbo è essenziale alla parlanza, per ciò che integra l’afasia originaria e la lingua nel dispositivo di parola. La parlanza è impossibile da conoscere, impossibile da prevedere, è la combinazione dell’idioma e della domanda nel dispositivo di salute, dispositivo di ricerca, dispositivo d’impresa, dispositivo di valorizzazione. Con la parlanza, è vana l’idea dell’intenzionalità e della volontarietà degli atti, della loro ontologia e standardizzazione; è vana l’assegnazione di un’origine all’atto.
Ora si può capire quale sia la cura nella parola: cura temporale, cura immunitaria, cura in assenza di peso, in assenza di carico, in assenza di presa in carico.
Nulla e nessuno può essere preso in carico; con l’analisi, non c’è più carico. La cura procede con il teorema del peso che non c’è più e con l’immunità data dal tempo. La cura non ha fine di bene, non deve cancellare il male. Non è una sanatoria e non ha la sua sede nel sanatorio.
È la cura che consente di trovare il modo di vivere nel gerundio.
Non è la cura contro il disturbo, ma è la cura per non togliere il disturbo.
Questa è la vera cura.