LA FAMIGLIA E LA LINGUISTICA DELLA PAROLA

La padronanza in nome dell’Altro, in nome del nome, in nome del nulla si esercita nella community, nella comunità idealmente esente dalla contraddizione, dall’ostacolo e dall’Altro. È la padronanza che risalta dall’esorcismo idealmente riuscito.
La community: la padronanza sulla parola è convenzionale, richiede che ognuno ci stia, dentro o fuori, richiede il postulato dell’”ognuno”, dell’”ogni uomo è mortale”. La comunanza è umana, è la comunanza della morte come pena, la comunanza del limite soggettivo. La community non tollera la famiglia che non sia inclusiva e esclusiva, che non unifichi il molteplice né moltiplichi l’uno. In nome dell’armonia ideale, la community abolisce la famiglia, la traccia della parola, ma abolisce anche il padre con il suo mito, il figlio con il suo mito, la madre con il suo mito, abolisce l’apertura e lo squarcio, abolisce l’adiacenza, abolisce l’intervallo. La community guarda al Partito come famiglia ideale, fondata sul rinnegamento del mito del padre, del mito del figlio, del mito della madre, famiglia antirinascimentale e antindustriale.
In nome dell’armonia ideale, la community esercita il razzismo virtuoso, antirazzista, il sessismo virtuoso, antisessista, il fascismo virtuoso, antifascista.
Il “bene comune” è la pena comune, la pena che uguaglia e pareggia, la pena che non basta infliggere, la pena che richiede l’accettazione, la soggezione. La pena non è mai abbastanza ai fini della chiusura, dell’equazione e della soluzione.
Il sacrificio sull’altare di Agni, l’altare della purificazione, è il sacrificio del figlio. La morte del figlio trae con sé la morte del padre, la morte dell’Altro e la morte della madre. L’arcaismo si fonda sull’ idea di famiglia che muore e rinasce per negare la parola in atto.
Della vittima sacrificale ha bisogno la community. Ha bisogno, continuamente, di chi eliminare dal gioco. Continuamente: cioè per l’ultima volta. Che è sempre l’ultima. Salvato o perduto: ognuno partecipa al gioco di morte, al gioco in cui sa che può toccare a lui l’eliminazione, la caduta della testa. La community: la civiltà risulta incompatibile con la religiosità, con l’arcaismo. La condivisione è la condivisione dell’ultimo tempo.
Una bambina è in coma, ma non è morta? I genitori autorizzano, subito, l’espianto degli organi. Chi l’ha chiesto? La complicità fra i medici e i parenti pertiene alla community, è ligia alla prassi sacrificale. L’espianto: per salvare altri, muoia l’uno. Muoia il frater a vantaggio dell’unità del molteplice e della molteplicità dell’uno, a vantaggio dell’identità ideale.
L’epoca aborrisce il cattolicesimo perché troppo occidentale (in realtà, troppo propenso all’intersezione fra oriente e occidente), troppo compromesso con l’arte e con la cultura, troppo esposto all’equivoco strutturale, all’ambiguità strutturale, al malinteso strutturale. Troppi effetti di senso, di sapere, di verità. È respinto il discorso che, suo malgrado, manca la padronanza sull’atto di parola. Nonostante duemila anni di potere, la Chiesa non è riuscita a confermare e a consolidare il sistema ideale, la scelta del bene ideale.
E c’è chi nel declino della Chiesa vede il segnale della propria ascesa, c’è chi ritiene di riuscire dove la Chiesa non è riuscita. Ma resta l’ekklesìa, l’assemblea, il dispositivo della parola originaria, che nulla a che fare con la community.
Nonostante la comunità burocratica, gioco e lavoro possono essere presi in una dicotomia? Possono ricondursi all’unità ideale? La burocrazia del gioco è l’altra faccia della burocrazia del lavoro. Entrambe le facce professano il limite soggettivo che preclude la riuscita, professano il realismo della pena dell’Altro. Il precarismo è il burocratismo dell’homo ludens dedito all’epurazione del labirinto e del giardino del tempo. Il burocratismo si nutre della conversione delle norme in normative, delle regole in regolamenti e dei motivi in dottrina della buona motivazione. Ovvero, il burocratismo erige a cause i pretesti del gioco. Finalizza il gioco e la partita. Ha orrore del gioco che non sia di morte, che non sia lo scherzo con la morte, che non sia il gioco al massacro, che non sia mai l’ultimo, del gioco in cui ne va dell’effetto di riso.
La metafora, la metonimia e la catacresi seguono la combinazione del corpo e della scena. Non sono artifici gratuiti, intenzionali, non si scelgono e non intervengono ad libitum, ovvero a volontà, a volontà dell’Altro e a volontà del nulla ideale. Tanto la catacresi quanto la metafora e la metonimia esigono l’adiacenza, non l’unità. La metafora non risponde alla necessità inclusiva, sommatoria. La condensazione non è l’unificazione del molteplice.
E la metonimia non risponde alla necessità esclusiva, frammentaria.
La disseminazione non è la moltiplicazione dell’uno. La linguistica della parola procede dalla disperazione assoluta, dall’ironia della sorte. Non segue il principio di piacere. E la retorica senza più l’economia discorsiva esige la deduzione sintattica, la seduzione frastica e l’abduzione pragmatica. Lontano dalla dottrina della suggestione dell’Altro, della persuasione dell’Altro e del convincimento dell’Altro, dalla dottrina del potere comunicativo diretto.
Il sistema metaforico e metonimico è il sistema che, assorbendo la catacresi, espunge il silenzio dell’intervallo.
La catacresi: questione di occorrenza, questione del superfluo e non di necessità ontologica, questione di scrittura pragmatica, questione di scrittura della fabula.