Il malinteso, il contrattempo, il disguido
Questa è l’epoca della stanchezza e dei suoi rimedi. Ognuno è stanco: della società, del lavoro, della politica, del clima, della famiglia, della giornata. Da dove viene la forza? Con la nozione di pulsione, Freud ha introdotto l’inconscio: una forza di cui non si conosce l’origine, una tensione che non si vede, che non si comprende. Nei secoli, la forza che non sia stata attribuita al fisico ha sempre destato grande sospetto. Che alcune donne dessero testimonianza di una forza inspiegabile, perché non conferita dalla presenza di un marito o da qualche altra copertura sociale, ha giustificato la caccia alle streghe. La forza non giustificata non poteva che essere opera del demonio. Troviamo molti esempi anche nella storia degli ebrei, dove la tenacia, invece che essere accolta come elemento di valore, ha alimentato il sospetto e la demonizzazione fino a giustificarne la persecuzione.
Armando Verdiglione nei suoi scritti precisa che la forza è pulsione, virtù intellettuale, stress, spinta, domanda, rivoluzione e direzione.
Sottolinea che la forza non è del soggetto, ma è forza della parola, non ha un’origine e nemmeno spiegazione.
Ha la sua condizione nell’ostacolo.
Negare l’ostacolo, evitare la provocazione, cercare rimedi all’inconveniente, perché scomodo, comporta infiacchirsi e indebolirsi.
Rimaniamo sorpresi, infatti, dinanzi alla tenacia di un anziano o di un bambino, o di chi porta avanti una battaglia contro ogni speranza e oltre ogni pensiero contabile o previsione deterministica. Nessuno può vantare una forza propria, naturale e data per principio.
Ciascuno fa e vive in virtù di una pulsione inesauribile. Non certo grazie all’impiego o alla consumazione di forze e di energie che avrebbe in origine. Avremmo la stanchezza, o ciò che viene impropriamente definito stress. Verdiglione scrive: “Forzando riusciamo”. Questa forzatura sta a indicare che nulla è naturale o meccanicistico, circolare o automatico.
La forzatura, pertanto, non è una faccenda muscolare, è il processo di valorizzazione che investe ciascun elemento della nostra giornata. Il principio del minimo sforzo è il principio del risparmio, il principio della stanchezza e il principio della paura. A maggior ragione, il principio del risparmio vige anche nell’idea della performance. Il risparmio, che è sempre risparmio intellettuale, non sta solo nella fantasia di rinuncia, ma anche nella forsennata tendenza alla prestazione. Anzi, la società della stanchezza è tale perché insegue la performance ideale, dove tutto è consumistico, circolare e protocollato. Senza contrattempo.
Nel pensiero comune la performance ideale dovrebbe essere l’espressione di un funzionamento meccanico senza tempo, eternizzato e ideale. E inoltre, per essere ideale, dovrebbe essere affidata alla comunicazione diretta e trasparente.
Senza malinteso e senza disguido.
Nella staticità di questo stato immaginario, la valorizzazione è abolita: ogni cosa vale in quanto tale, fuori dalla parola. Valorizzare non significa guardare con occhi positivi. E nemmeno accorgersi delle tante cose belle che stanno intorno a noi. Anche questa fantasia risente di un principio purista e selettivo. Il benpensante è purista.
L’atto di valorizzazione non è un atto romantico, bensì rivoluzionario.
Non c’è elemento che possa essere considerato come assoluto, fuori dal flusso della vita. E la valorizzazione non significa convertire il negativo in positivo. E nemmeno individuare il positivo nel negativo. Tutto ciò che dal segno negativo prende un segno positivo, alla prima difficoltà torna alla presunta origine negativa.
La valorizzazione è un processo di trasformazione che sospende ogni purismo e radicalismo. È l’emergenza di qualcosa di nuovo che non c’era prima.
La lingua della valorizzazione è la diplomazia, la lingua per riuscire e far capitale dell’esperienza. Questa forzatura speciale e preziosa per la nostra vita necessita di ginnastica costante. Nella società della performance, la costanza, che è una virtù originaria sia del viaggio sia del dispositivo della conversazione, non va di moda. L’intervento dovrebbe essere immediato, salvifico e definitivo.
Senza resto. Ognuno dovrebbe essere salvato e risparmiato preventivamente: il coniuge, il figlio, il collaboratore, il socio, il familiare.
Nei dispositivi della giornata, invece, la ginnastica intellettuale nel racconto e nella valorizzazione è vincente e rivoluzionaria. Per esempio, molto spesso la fiducia sottende il fantasma della delega. Ovvero, delego te perché tu faccia come avrei fatto io. In un automaticismo, dunque senza responsabilità, senza differenza e senza malinteso. Questo tipo di analogia non può andare senza inghippi. Allora, il disguido è l’occasione di constatare che la fiducia è senza delega. Ovvero, non cancella la responsabilità, e necessita del dispositivo di narrazione. Con la narrazione, infatti, gli elementi hanno la chance della valorizzazione.
Solo allora il disguido, il malinteso e il contrattempo sono occasioni indispensabili all’invenzione e alla scrittura dell’esperienza.
È curioso che la diplomazia nel modo comune venga considerata la via del compromesso sociale. La diplomazia è la lingua della soddisfazione e della riuscita, ma la constatazione che la soddisfazione non è mai piena, non è mai totale, porta a temere la necessità della rinuncia.
Tra l’altro, per una lettura più precisa, il significante compromesso ha risvolti interessanti. Nella sua accezione giuridica, sta per preliminare, ovvero il patto con cui ci si obbliga insieme, a condizione che chi si ritira perda una certa somma, altrimenti detta caparra. Allude a un patto senza alternativa. Questo, in effetti, è il patto per la riuscita, dove la rinuncia non è contemplata.
L’idea del compromesso sociale si affaccia tutte le volte che in un contesto familiare o lavorativo ci troviamo dinanzi a qualcosa di vantaggioso che al tempo stesso ci sembra imporre altri risvolti onerosi.
Può accadere, per esempio, quando ci troviamo dinanzi a un collaboratore indispensabile per il suo contributo tecnico ma che al tempo stesso, e per altre ragioni, rende molto complicata la collaborazione. In questi casi è facile cedere alla fantasia che per non perdere ciò che c’è di positivo, si debba necessariamente tollerare anche gli elementi presunti negativi.
Questa è la bilancia: aspetti positivi su un piatto e aspetti negativi sull’altro, sperando in una mediazione che pareggi i conti. L’idea della bilancia illude di potere tenere sotto controllo la vita vigilando che i piatti siano pari. Questo è il modo principale di negare l’esperienza. Il processo di valorizzazione comporta che anche l’elemento più scomodo entri nella qualificazione, ma non per diventare positivo o accettabile. Per la qualificazione dell’esperienza. Infatti, persino nell’immaginario, i piatti non vanno mai in pari: il piatto del negativo, quand’anche fosse minimo, pesa sempre di più del positivo. È essenziale intendere il valore anche di ciò che inizialmente appare come sfavorevole. Finché il disguido o il contrattempo sono solamente occasioni di patimento o di sacrificio, l’esperienza non si scrive. Occorre lo sforzo, la ginnastica, il ritmo e la costanza per dissipare l’idea stessa di negativo e di sacrificio.
La diplomazia, quindi, non è la lingua felpata dove il disguido e il contrattempo vengono tollerati, ma è la lingua della battaglia. Senza buonismo.
Per questa via approdiamo ad acquisizioni inedite e inimmaginabili, a giochi, a invenzioni, a novelle, ad aneddoti, ad aforismi e all’allegria.
La diplomazia, che è la lingua della strategia, non ha come finalità chiarire il malinteso, o eliminare il contrattempo, ma concludere alla soddisfazione, mai piena. Ognuno ha in mente una strategia ideale, per avere un risultato ideale. L’eventualità del contrattempo consente di accorgerci che c’è un’altra piega rispetto a quella immaginata, una piega inedita, che non rispetta l’ideale e che porta a un arricchimento imprevisto.
In virtù del malinteso, del disguido e del contrattempo abitare la vita diviene impresa impossibile. E non c’è niente di più tragico dell’idea di abitare la vita.
Con fine ironia, Étienne de la Boétie, nel Discorso sulla servitù volontaria, scrive: “È difficile immaginare come il popolo, da quando è asservito, cada improvvisamente in uno stato di tale e profonda dimenticanza della libertà che non gli è possibile risvegliarsi per riprendersela e serve tanto spontaneamente e tanto volentieri che a vederlo non si direbbe che ha perso la libertà, ma che ha guadagnato la servitù”. E poi aggiunge: “Senza dubbio però è l’abitudine la responsabile di questa adesione alla servitù”. Eppure, non c’è modo di aderire completamente alla deriva distruttiva dell’abitudine, perché la vita non è standard.
Anche se tentiamo di fare come se lo fosse, abbiamo la chance di avvalerci di tutto ciò che interviene con il disturbo a mettere in discussione la circolarità e a promuovere la scrittura dell’esperienza.