La memoria come disturbo, anziché la ballata del mistero

Nei libri di Armando Verdiglione usciti nel 2017, trovate una straordinaria analisi delle dottrine misteriche, cui viene, da sempre, affidata la “gestione” della società, degli stati, delle istituzioni, la “cura” del corpo, dell’anima, della mente. I libri sono sette e li trovate in libreria o nei negozi on line. Costituiscono una traversata, che non può essere sintetizzata o riassunta: leggendoli, si avverte la spinta a restituire qualcosa di questa scrittura con un contributo, anche solo per un granello o per una goccia.
Verdiglione scrive che il “mistero” su cui si fondano queste dottrine è l’idea del nulla, l’idea di un luogo ideale senza la parola, senza il suo rinascimento e la sua industria.
Ma scrive anche che la gestione della vita che le dottrine misteriche promettono va in scacco, a oriente e a occidente, a nord e a sud. Anche quando i sistemi di gestione sembrano avere raggiunto il loro apogeo e le cose, apparentemente, funzionano e circolano. Se parliamo di dottrine misteriche non stiamo dibattendo soltanto di costruzioni relegabili a una setta di fedeli, a un’elite di studiosi o al folclore di antiche civiltà estinte, ma di teorie economiche, fisiche, astrofisiche, giuridiche, politiche, manageriali, ecologiche, di teorie della comunicazione.
Parliamo di filosofia, teologia, letteratura, religione, medicina, psicologia, psicoterapia, sociologia, antropologia, tecnologia, o di ciò che si formula come “personalità”, “sentimenti”, “emozioni”, “standard di qualità”. Ovvero di ciò che si offre come luogo di origine e di ritorno, di soluzione e di coagulazione, di distruzione e di creazione, di frantumazione e di riunificazione; luogo del purismo che azzera tutto e del radicalismo che ricostruisce idealmente, moralmente; luogo del nascondimento e della rivelazione, luogo dell’ottenebramento e dell’illuminazione, luogo della pena e della redenzione. Il viaggio dalle tenebre alla luce, con ritorno, è il viaggio promesso da ogni creazione del cosmo (per esempio, dalla cosmogonia vedica, greca, semitica, norrena), da ogni gnosi, che mette al centro della tenebra la sua origine, il suo nucleo di luce. E, quindi, il cosmo è il luogo circolare, il luogo che assicura il ritorno, la salvezza.
Salvarsi per vivere? Penare per vivere? Dannarsi per vivere? Accettare per vivere? Annullarsi nell’Altro, nel prossimo, nell’ultimo per vivere? Mangiare o mangiarsi per vivere? Morire per vivere? Finire, sfinirsi per acquistare la certezza di “essere” o di “avere”, la certezza soggettiva, la certezza di essere “soggetto”? Solo che, vivendo, tutto questo non funziona in modo automaticistico. I “sistemi per vivere” inciampano nella vita, nella parola, nell’atto di parola. Questo inciampo, questo disturbo, questo disguido, vivendo, si chiama memoria della parola, esperienza della parola, ricchezza della parola. La ricchezza: i lapsus, le sviste, i malintesi, ovvero le cose in viaggio, le cose che non restano fisse, uguali, prevedibili, probabili, le cose che dimorano nel racconto, nell’ospitalità del racconto, della narrazione. Questa ricchezza disturbante, spiazzante, non ha classi sociali, non ha catasto, non ha censo, non ha età cronologica, non ha scuole che l’insegnino, non s’impara, non ha rimedi che valgano a eliminarla, non ha muri che impediscano il suo ingresso, non ha porte o finestre sbarrate, non ha sacerdoti, esperti o spiriti guida che conoscano la strada, che l’abbiano già fatta prima (perché sarebbe la stessa, sempre la stessa, la strada della salvezza!). Non s’impara a vivere! Ma, imparando, calcolando, lo sbaglio, la cantonata, l’errore di calcolo! Il gerundio della vita s’instaura per una breccia della parola, che si chiama memoria in atto (non memoria del passato), disturbo in atto, ricchezza in atto.
La memoria è un disturbo rispetto alla nostalgia di un’età dell’oro, della salute, della felicità passate.
È un disturbo rispetto all’idea di un accesso alla vita ideale, alla vita perfetta, alla vita salva. La memoria è un disturbo rispetto alla vita come mistero, come incatenamento al ritorno all’origine, all’essere “se stessi”. Sii te stesso e sarai salvo, sii te stesso e farai la cosa giusta. Il “te stesso” è l’imperituro, l’immutabile, che vive dentro di te mutabile. Dentro di te tu sei eterno, sei te stesso, sei immortale, ti riveli immortale: homo mortalis/homo immortalis.
Questo è il cerchio misterico: mortale/ immortale. Penare, accettare, morire, per tornare all’immortale che eri. Morire per non morire. Il cerchio dell’iniziazione sta qui.
Sta qui il cerchio del mistero: l’imperativo del ritorno, l’imperativo cosmico, la legge cosmica. Alla frantumazione cosmica segue la riunificazione. È il sacrificio cosmico, il sacrificio delle stelle nel cosmo. Ogni stella, ogni particella stellare, si riunisce, torna al cosmo da cui viene.
E non occorre salire su un’astronave e imbarcarsi per quei viaggi prenotati dai miliardari del pianeta che vogliono eternizzarsi perdendosi nel cosmo. Non si sono prenotati per un viaggio senza ritorno! Il loro è il viaggio del ritorno, del ritorno al cosmo! Questa eternità, questa immortalità, l’ha sempre assicurata, in ogni epoca, e sotto ogni cielo, il trattamento funerario del corpo e della scena. Oggi questo viaggio di ritorno al cosmo trova la sua popolarità, la sua spettacolarità, nel successo della cremazione funeraria.
L’ordine funerario è l’ordine di ritorno al cosmo. E i parenti si trovano di fronte alla questione: e le ceneri? Dove vanno le ceneri? Spesso il defunto si è preoccupato d’indicare nel testamento da quale porta vuole fare il suo ritorno al cosmo: le ceneri sono da spargere al vento che spira sulla tale montagna, sull’acqua del tal fiume o del tal mare. Dov’è la porta d’ingresso nel luogo eterno, senza tempo, senza dolori, senza disturbi, senza sensazioni? Dov’è il luogo senza memoria? Il luogo dell’analgesia? Nel suo poema Sulla natura, Parmenide scrive che c’è una porta a due battenti (il Giorno e la Notte) che si spalanca sull’abisso cosmico da attraversare per giungere alla verità “ben rotonda”, la verità sferica, la verità non perturbata dalle opinioni degli umani, dalle sensazioni, dalle immagini, dalle apparenze, la verità immutabile, eterna. È la verità senza il fare, senza il brigare degli umani nelle loro botteghe, dove, invece, interviene il tempo imprevisto, sorprendente, pragmatico. La divinità (la daímon) che guida Parmenide nel viaggio di ritorno alla sfera della verità aborre la verità effettuale, rinascimentale, la verità di bottega.
Il ritorno al cosmo è la cerimonia sociale per antonomasia. Sulla cerimonia funeraria si fonda ogni intesa, ogni patto del diavolo o dell’angelo che dia origine a una comunità.
Lì, al funerale, tutto si appiana, tutto si concilia: la conciliazione è lo stratagemma, l’espediente, che segna l’inizio della guerra ereditaria, la guerra per l’ereditarietà. In quale discendente si reincarnerà, si riaffaccerà il destino ideale delle cose in quella famiglia? Le “cose di famiglia”: le case, i terreni, i mobili, i gioielli di famiglia. Ma una guerra ereditaria è in atto anche per dimostrare che si ereditano le caratteristiche di famiglia, le “malattie di famiglia”, cioè che si è degni/indegni discendenti di quella famiglia, se ne hanno i caratteri ereditari che la rendono comunità riconoscibile, apprezzata, o anche temuta, additata.
Le malattie di famiglia ereditarie dei discendenti sono ricercate e accentuate per conferma negli ascendenti (forse anche il bisnonno beveva o andava a donne, lo zio era violento, la nonna severissima, la cugina “donna leggera”, il fratello cleptomane): da qui il mimetismo dimostrativo nella dissipazione del patrimonio o nel tradimento del matrimonio; il mimetismo dell’abbandonarsi all’assunzione della sostanza, della droga, per dimenticare, per annullare la memoria in atto; il mimetismo del femminilizzarsi o del virilizzarsi; il mimetismo dell’essere soggetto autonomo (che fa da sé, in tutta “autonomia”: ecco il contrappasso del cancro, scacco di questa autonomia); il mimetismo dell’essere soggetto dipendente, debole, vittima in una circolarità, in una specularità con un carnefice, quindi vittima di se stesso e carnefice di se stesso (ecco il contrappasso delle cosiddette malattie immunitarie o autoimmunitarie, scacco di questa rappresentazione della forza debole e della debolezza forte). Se il soggetto si riconosce debole, più o meno debole, forte, più o meno forte, si divide in due e toglie il due (toglie l’apertura, toglie l’ironia della vita, toglie il dubbio): ecco che si è stretto il cerchio fra vittima e carnefice, fra debole e autoritario, il soggetto diviso in due è in lotta con se stesso, in un perenne giudizio su di sé. Se il due viene tolto, con la lotta fra sé e sé, con la lotta intestina, s’infiammano la pelle, lo stomaco, gli intestini, le mucose, le cartilagini.
Qual è la promessa che tiene incatenati al mistero, all’idea di un luogo ideale, gli assuntori di sostanze? La promessa di gestire, padroneggiare il viaggio di andata e ritorno dal luogo del nulla ideale: provare sensazioni da morire, e poi tornare! E rifare il viaggio: ancora nuove droghe per una morte sempre più sensazionale, sempre più stupefacente. E poi il ritorno, ovvero l’uguale. Il luogo dell’uguale è il luogo del nulla, senza la memoria con il suo disturbo, con la sua narrazione e i suoi effetti, senza le sensazioni, senza il lutto, senza il dolore. È il luogo dell’analgesia! E sempre più le droghe diffuse anche fra gli adolescenti valgono a ottenere l’analgesia.
Attorno al concetto di ritorno la fantasmagoria è enorme. Anche le cosiddette teorie economiche sono nella maggior parte dei casi teorie del ritorno. È appena trascorso un decennio dalla crisi finanziaria mondiale del 2008, e in questi anni gli economisti hanno contato quante “bolle” erano intervenute a partire dalla crisi del 1929, quali si erano ripetute ciclicamente, quante se ne potevano prevedere (il cerchio, la sfera, la bolla: la bolla edilizia, la bolla del petrolio, la bolla delle materie prime, la bolla finanziaria, la bolla di internet). Uno degli economisti utilizzati per giustificare l’aspettativa dei cicli economici, pur con alcune differenze, è Joseph Schumpeter (1883-1950) con la sua teoria della distruzione creatrice.
Secondo Schumpeter, lo sviluppo economico comporterebbe un certo grado di distruzione, per cui alcune aziende muoiono, mentre altre nascono, quindi dalla distruzione delle aziende sorgerebbe la creazione di nuove aziende. Ma questa dottrina misterica della distruzionecreazione, che regolerebbe lo sviluppo “naturale” dell’economia e della finanza, il modo naturale del progresso, è un’idea di padronanza della vita, un’idea che agisce per la finalizzazione, un’idea guida, uno spirito guida, quindi un’idea spirituale: gli economisti sono spiritualisti, sono mistici. Le scienze economiche sono scienze misteriche.
La parola in atto, la vita in atto, è parola scientifica, vita scientifica: non è parola misterica. La scienza della parola è senza mistero: è un taglio che non distrugge e non crea, è un’apertura che non inghiotte e non esalta come abisso. È senza necessità del cerchio schiavo-padrone, amico-nemico, farmaco-veleno, il cerchio cosmico. In questa parola senza mistero, il viaggio non ha ritorno, perché noi non apparteniamo a una genealogia familiare o cosmica in cui annullarsi in vista di una fine dei tempi che coincida con il suo inizio. Non stiamo viaggiando verso il big-bang. Il tempo non finisce e non dà origine, non è il genitore che divora i suoi figli o la Parca che dà la vita e la taglia, non è il cerchio cui siamo sottomessi.
Non è quel fato (l’Anánke) a cui i greci hanno assoggettato anche le loro divinità. Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Il tempo è cifrante nel viaggio per la valorizzazione della vita.