IL DISTURBO È LA MEMORIA
Nel saggio Psicopatologia della vita quotidiana (1901), accanto ai lapsus, alle sbadataggini e agli atti mancati, Freud analizza la dimenticanza di nomi propri. E narra un episodio accaduto in Dalmazia, mentre viaggiava in treno in compagnia di uno sconosciuto. Parlando delle visite in Italia, domandò all’uomo se fosse mai stato a Orvieto a vedere i celebri affreschi di… Al posto del nome cercato, Signorelli, gli venivano in mente Botticelli e Boltraffio. Che cosa aveva “disturbato” la memoria di quel nome? Riflettendo sull’argomento immediatamente precedente della loro conversazione, Freud si accorse che l’aveva lasciato in sospeso perché era troppo delicato per essere affrontato con un estraneo. Dopo avere narrato un aneddoto sulle usanze dei turchi che vivevano in Bosnia Herzegovina, “gente che soleva mostrarsi rassegnata al proprio destino”, Freud avrebbe voluto raccontare un secondo aneddoto, che si collegava al primo nella sua memoria: “Questi turchi pongono il godimento erotico al di sopra di tutto e, in caso di disturbi sessuali, si lasciano prendere da una disperazione che stranamente contrasta con la loro rassegnazione di fronte al pericolo di morte: ‘Tu lo sai, Herr – aveva detto un paziente al suo medico –, quando non si può più fare quello la vita non ha più valore’”.
Freud scrive che, oltre ad avere rinunciato a raccontare questo aneddoto, aveva distratto la sua attenzione dalle idee che potevano connettersi al tema “morte e sessualità”, perché si trovava ancora sotto l’effetto della notizia di un paziente per il quale egli si era tanto prodigato, ma che si era tolto la vita “a causa di un inguaribile disturbo sessuale”. Bosnia, Herzegovina e Herr si erano inseriti in una serie di associazioni tra Signorelli, Botticelli e Boltraffio, così, Freud, che qualcosa “voleva” dimenticare, qualcos’altro aveva dimenticato, contro la sua volontà.
Risultato: la sua intenzione di dimenticare non era né interamente riuscita né interamente fallita. O, meglio, era quella che chiamava rimozione a non essere riuscita né fallita interamente: pur attirando il nome Signorelli nella dimenticanza, ne aveva lasciato traccia nei due nomi sostitutivi, Botticelli e Boltraffio, che erano divenuti vere e proprie “formazioni di compromesso”.
Perché c’è chi crede che qualcosa possa mettere in discussione il valore della vita? Forse, era questa la domanda che si poneva Freud e, forse, si rammaricava di non essere riuscito a fornire al suo paziente nessun appiglio per lasciare che il disturbo (nel testo tedesco Störung) sessuale entrasse nel racconto e divenisse, tutt’al più, un semplice disturbo (Störung) linguistico, un nome che entra nella dimenticanza, anziché un segno della fine della virilità.
Chi si rappresenta la vita ideale trova sempre qualcosa che ne disturba la realizzazione. Ed è qualcosa ritenuto sostanziale, fondamentale e fondante.
Il disturbo è strutturale, non può essere eliminato a favore della padronanza sulla parola e sulla vita. Tuttavia, c’è chi crede nella perfomance e nella facoltà come mezzi per la riuscita, da cui si ritiene escluso, per ciò invidia il lusso, il piacere, la gioia, la vita stessa. E si fa vittima, soggetto della predestinazione, della scelta obbligata. “Se mia figlia non vuole più parlare con me da cinque anni, che cosa posso fare? Non mi resta che togliere il disturbo”, scrisse quel padre prima di puntarsi una pistola alla tempia. La figlia che si nega o la figlia negata? La figlia come bambolamamma è la ghigliottina, quella per cui perdere la testa (o la memoria?).
Questo può accadere nel realismo della soggettività, che sta in luogo della cosa, del narcisismo della parola.
Allora, aggrappandosi alla causalità e all’obiettività, ognuno si presta ai cerimoniali e ai precetti funzionali alla metamorfosi: deve colmare le proprie presunte mancanze, femminilizzarsi o virilizzarsi, per fare uno, per divenire androgino.
Ma la memoria originaria non può perdersi e ciascuno – nella parodia della guerra di famiglia, dei ricordi che pesano e del ghenos familiare – può trovare la linguistica dell’esperienza e la linguistica della riuscita.
Ciascuno, non ognuno, può divenire capitale, perché ciascuno non è soggetto ma statuto intellettuale. In che modo? Non vincolandosi a un luogo ideale, in cui rifugiarsi, nel tentativo di liberarsi dal disturbo, ma viaggiando: parlando, facendo, scrivendo e leggendo, ovvero, restituendo in qualità le acquisizioni della ricerca e dell’impresa. Leggendo, ciascuno diviene capitale, non facendosi soggetto del dialogo, non cercando la dimostrazione, il riconoscimento e la conferma dell’idea di sé e dell’Altro come padrone o schiavo, vittima o carnefice.
Il disturbo è la memoria stessa nel suo tramandarsi e nel suo tradirsi.
In virtù della tradizione e del tradimento della memoria, la rimozione non è mai né interamente riuscita né interamente fallita. E la dimenticanza non è un disturbo, ma la memoria che mostra la corda nel contingente.
In nessun caso il disturbo è il negativo da eliminare per vivere una vita tutta positiva. Impossibile togliere il disturbo perché il disturbo è libero, come la memoria, che sfocia nell’arte e nell’invenzione e si scrive. Soltanto così la scrittura risulta scrittura della memoria, scrittura dell’esperienza, anziché strumento a supporto della mnemomacchina e della mnemotecnica.