L’AZZARDO, L’INCONTRO, IL CASO

Secondo i recenti dati Istat sulla situazione industriale in Italia, il 90 per cento delle grandi imprese (quelle con oltre 250 addetti) e il 73 per cento delle imprese di dimensione media hanno introdotto o esteso lo smart working o il telelavoro durante la cosiddetta emergenza Covid-19.
Anche le imprese di dimensioni minori hanno fatto ricorso al lavoro agile, attuato nel 37,2 per cento delle piccole imprese e nel 18,3 per cento delle micro imprese. Se consideriamo che nel 2017 l’Italia con il 7 per cento di telelavoro era l’ultima in Europa, c’è chi si compiace di tale svolta, che sembra seguire un trend internazionale: come rileva nel suo intervento in questo numero Diego Zoboli, la società di gestione di investimenti londinese Schroders, aziende come Amazon e Dell Technologies, ma anche amministrazioni pubbliche come The US Department of Agriculture, stanno andando in questa direzione. Ma con il pretesto del coronavirus, sono anche state eliminate le assemblee societarie e associative, le fiere, i congressi scientifici e le conferenze, gli appuntamenti con rappresentanti di commercio, le lezioni universitarie e le mostre: queste occasioni d’incontro sono state sostituite da webinar, conference call, videoconferenze, teledidattica, file di presentazione merci, invii di preventivi.
I fautori di questa svolta ne lodano i presunti vantaggi: diminuzione dei costi, dell’inquinamento, del tempo per recarsi al lavoro. Sostengono che l’incontro possa essere virtuale, la comunicazione diretta, il tempo reale: basta un tasto, ci si vede e ci si sente, sempre connessi, sempre pronti a “scaricare”: mirabilia della tecnologia, che offre l’incontro puro, facile, immediato, in cui tutto si comunica senza spreco. Come se quel che non entra nella cornice di un computer o nel quadrato di un file, quella comunicazione che avviene con la stretta di mano o con un gesto, quel contrasto imprevisto di opinioni nella pausa pranzo di un convegno, quell’enfasi nel mostrare i pregi e i difetti di un prodotto – come nota in questo numero Brando Michelini –, quelle divagazioni superflue che sono il sale di una trattativa non fossero essenziali perché ci sia incontro, non fossero indispensabili perché quel che si dice giunga a tono, propiziando lo scambio.
Sono davvero smart, intelligenti, un lavoro, una produzione, una comunicazione privati di questa ricchezza narrativa? Non è proprio questo risparmio il vero spreco? Quanto è costata alle imprese, alle scuole, alla scienza la proibizione degli incontri, quanti danni irreparabili ha comportato e comporterà per i negozi, i bar, i ristoranti, gli alberghi, dunque per città come Milano, Londra, Parigi l’assenza di studenti, di impiegati e di altri lavoratori pendolari? Dichiarare che siano misure necessarie per contrastare il Covid-19 è una mistificazione. Si è trattato di decisioni prese da governi che, con il pretesto della salute pubblica – il pretesto di ogni tirannide – stanno attuando quella decrescita teorizzata dagli ideologi urkommunisti, in cui si intrecciano mistiche naturaliste (ambientalismo) e tecnocratiche (transumanesimo), per sferrare un attacco all’impresa, alla città, alla cultura e all’arte (cfr. la chiusura dei musei e delle librerie, ma anche la distruzione di statue e di libri perché ritenuti emblemi del razzismo), alla macchina e alla tecnica, alla scienza e alla finanza, allo scambio internazionale e intersettoriale. Un attacco all’occidente, all’Europa, all’ebraismo, al cattolicesimo, al capitalismo, alla globalizzazione, che si fondano su quelle istanze industriali e imprenditoriali, che, come nota Bruno Conti, poggiano sull’incontro pragmatico, intellettuale, narrativo.
Occorreva il rinascimento, con le sue corti e le sue botteghe, con Leonardo da Vinci, Niccolò Machiavelli e Ludovico Ariosto, perché l’incontro incominciasse a trovare un suo statuto. Nella Fisica, Aristotele, con l’esempio del creditore che incontra un suo debitore per caso, mentre va al mercato, faceva dipendere l’incontro dalla tyche, dal caso fortuito, ma causato dall’uomo, anziché dall’automaton, dalla causalità naturale. Ma questa dicotomia mantiene l’incontro nella fatalità, dunque nel fato, nella causalità, nella necessità, nell’Anánke, ponendo il caso prima dell’incontro. È un incontro fuori dalla parola, diretto, nel reale, come lo intenderà, nel 1964, lo psicanalista Jacques Lacan, che tradurrà tyche con “l’incontro del reale […] il reale che sta dietro l’automaton”, dunque “il reale come incontro” (J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Einaudi). Un incontro nel reale, non nel simbolico, incontro sempre mancato, “malvenu”: “la funzione della tyche, del reale come incontro […] – quella del trauma”.
Nonostante Aristotele e Lacan, l’incontro non è il caso fortuito, dunque non è fatale, necessario. Nulla avviene per caso? “Ce n’est pas par hazard”? (“non è per caso che…”?). Invece è proprio par hazard che qualcosa avviene e diviene. Par hazard, per azzardo: il caso non può escludere l’azzardo. L’incontro non è necessario, determinato, prestabilito: questo l’azzardo, nessuna necessità ontologica, nessuna Anánke. L’azzardo non è lo scherzo con la morte: l’azzardo, proprietà dell’incontro, è indispensabile per il calcolo. Il calcolo risalta dall’azzardo, che non si oppone al calcolo, ma impedisce che il calcolo sia probabilistico: introduce il gusto dell’improbabile, il gusto delle cose che riescono. L’azzardo inerisce al racconto: senza azzardo l’incontro è sottoposto al calcolabile, sospeso tra possibile e impossibile, è misurato dalla bilancia e dal bilancio, che negano l’incontro, il suo tono, la sua tensione. L’Anánke rileva del nulla ideale.
L’azzardo, l’incontro: qualcosa accade. Dove? Dove sta l’incontro? Proprio per l’azzardo, l’incontro non è ideale, l’idea dell’incontro è l’idea del luogo dell’incontro. Il luogo ideale dell’incontro è il luogo sociale, ecumenico, il luogo dell’apocalisse, della rivelazione. L’incontro sta nella pienezza delle cose? Sta dove tutto è preparato, quando siamo tutti collegati? Sarebbe l’incontro spiritico, l’incontro nell’unità, magari dei credenti. L’incontro esige la divisione, sta nell’intervallo, è tra, inter, è senza accesso diretto e condiviso. È proprietà del racconto, ovvero proprietà del sogno e della dimenticanza, non del reale.
Cum inter, contra: l’incontro. L’incontro non è ciò che si lascia vedere, ma ciò che si lascia udire. L’intervallo è indispensabile per l’ascolto, e il silenzio dell’intervallo è il silenzio dell’incontro. Togliere l’intervallo comporta la sordità, dunque lo scontro con l’Altro, mentre l’incontro esige l’Altro (anche se non è incontro con l’Altro personificato, che diventerebbe subito amico o nemico), avviene sul terreno non mio e non tuo, ma sul terreno dell’Altro, nella parola. La questione dell’incontro è la questione dell’intervallo, dell’adiacenza, dell’Altro irrappresentabile e insituabile.
Da qui un’altra accezione di solidarietà, senza l’alternativa tra amico e nemico, dunque senza altruismo: la solidarietà è il dispositivo del racconto e dell’accoglienza nella parola. L’incontro è solidale, dalla radice *ser- da cui servus, solus, olos: in solidum, per intero, da olos, intero, integro, da cui “integrazione”.
Le cose si integrano nel racconto, e solido è l’Altro. Ma questa integrazione e questa solidità non dipendono dal sistema delle relazioni, dall’interdipendenza, dall’incontro sotto l’egida dell’unificazione, della comunità sociale. La solidarietà è pragmatica, non ideale, e la via dell’incontro, in quanto via del racconto, è la via pragmatica perché via narrativa. “L’incontro: la soglia dell’industria”, scrive Armando Verdiglione, nel libro La grammatica dello spirito europeo (Spirali).
Nonostante l’epoca offra lo spettacolo del trionfo dei monopolisti, dei doganieri, dei burocrati, dei puristi, dei fondamentalisti, dei penalpopulisti, anche con il coronavirus il pianeta sta incontrando una trasformazione senza precedenti, con dispositivi nuovi, con uno scambio internazionale e intersettoriale tra nord e sud, tra oriente e occidente, che costituisce un secondo rinascimento in atto, il rinascimento della parola e la sua industria. Mai come ora, l’incontro nella parola, l’incontro secondo la funzione di Altro è l’incontro industriale, l’incontro nel fare, come notano gli imprenditori in questo numero. È l’incontro facendo secondo l’occorrenza, nel contingente, non con il reale. Se l’incontro fosse con il reale, sarebbe senza la parola, senza il tempo, sarebbe diretto, ovvero uno scherzo con la morte o uno scherzo con il nulla. Per questo avrebbe bisogno di cauzioni e di precauzioni: tolto il contingente, il tempo del fare, verrebbe meno la divisione, l’intervallo nella parola, base dell’immunità, e l’incontro, inteso come contatto, sarebbe esposto all’influenza e al contagio. Espunto, l’Altro rientrerebbe come nemico, o come virus, da cui il pericolo dell’incontro, e dunque la necessità di prendere le distanze, la necessità del distanziamento sociale. Pararsi contro il nemico, chiudersi, vietarsi la parola, vietarsi l’incontro: la formula “salvare le vite” è la formula che porta a morire di fame, di paura, d’incuria decine di milioni di persone nel pianeta. Qual è la condizione dell’incontro? L’appuntamento, il confronto, l’assoluto. L’incontro trova la sua condizione nel distacco, nella distanza intellettuale. L’esigenza di una presa di distanze, di un distanziamento spaziale, anche telematico (fino ai siti d’incontri, o ai casi di hikikomori) nasce dall’idea che l’incontro possa essere diretto, che sia la presa di contatto, dopo avere abolito l’assoluto e la divisione. Questo incontro senza la parola, per esempio senza il corpo, l’immagine, la materia, sarebbe l’incontro mistico, che realizza la fusione, magari con l’infinito che stia al posto dell’origine o della fine, come vorrebbe lo Zhuangzi, il Libro del maestro Zhuang (369-286 a. C.), il riformatore del taoismo: “risalendo all’origine del mondo io incontro l’infinito; cercandone la fine, incontro ugualmente l’infinito”. In questo caso l’infinito diventa il nome del nulla o della morte.
Non sappiamo quando o con chi ci sarà incontro: se lo sapessimo, lo impediremmo con i nostri pregiudizi, attribuiti all’Altro. L’incontro avviene nel terreno dell’Altro, insituabile e irrappresentabile. L’incontro non sta prima della parola, non posso incontrare per poi cominciare a parlare, per avere qualcosa da dire: sarebbe l’incontro atteso o temuto, l’incontro estatico, l’incontro traumatico, il colpo di fulmine o di grazia. Come scrive in questo numero Mariella Borraccino, l’incontro interviene in un processo narrativo pragmatico, dove le cose si fanno e si scrivono. L’accesso diretto, la comunicazione diretta, l’incontro diretto comporterebbero l’incontro fatale, l’incontro obbligato, incontro necessario, sotto l’idea di morte o l’idea del nulla. Le dottrine misteriche, religiose, sociali, le mitologie, gli apparati legali e morali, gli apparati sociali, le convenzioni, le psicoletterature, sotto il dettame del radicalismo e del purismo, sono imbastiti per evitare l’incontro: per questo sono contro la crescita, l’industria, lo scambio, il profitto, che trovano il loro terreno nell’incontro.
L’immunità esige la narrazione pragmatica, dunque l’industria e l’impresa, non il lockdown o il distanziamento, che economizzano l’incontro sotto l’egida della paura, trovando l’alibi della comodità, del risparmio, per non fare. Sarebbe l’incontro senza il tempo e senza il fare, tra corpi che allora potrebbero essere malati e contagiosi: un incontro mortale, l’incontro come scontro con il nemico, l’incontro con il reale. Così l’uomo, da vir, diviene virus, da isolare, da distanziare, da eliminare. Questi presupposti fantasmatici su cui poggiano l’home working e lo smart working ignorano la distanza nella parola, fomentando la paura, l’esorcismo della morte, che è incompatibile con l’incontro, che non ha nulla di mortifero o di mortale.
L’accesso diretto svuota l’atto e svuota l’incontro: questo lo spreco che teledidattica e banchi scolastici a rotelle, risparmi energetici e sussidi di stato non potranno evitare perché lo producono. L’ideologia dello smart working parte dal presupposto che il lavoro sia stupido, che debba ridursi, addomesticarsi, essere padroneggiato, che debba quanto prima finire, in un assistenzialismo totale e perenne. Secondo l’utopia prima comunista e ora solidarista.
L’incontro con il reale o con l’Anánke, l’incontro immaginato o creduto dalle ideologie occidentali e orientali, è l’incontro con la morte o con il nulla. Per questo il caso che interviene in questo incontro è caso di morte o il caso di nulla. Così i bollettini quotidiani devono contare i casi di morte (di droga, d’incidenti, di coronavirus), una conta secondo algoritmi geometrici o algebrici che dei casi annulla la specificità e la particolarità. E ognuno diviene caso morendo o annullandosi, misticamente, esotericamente. Pertanto, l’incontro avviene tra i superstiti.
Il caso, che non si misura dai contatti sui profili social, che non si tramuta in successo, che non rientra nella dicotomia vita-morte, è il caso di qualità. Non dipende dal fatalismo, che poggia sull’assenza di parola, dunque non è sottoposto alla divinazione, né quella dell’Yijing (Il libro dei mutamenti) né quella della statistica.
Con l’incontro pragmatico, il caso s’instaura perché, tra sogno e dimenticanza, ciò che si fa trova la piega e si scrive. In modo semplice, non facile. Il vero caso è il caso di qualità, il caso intellettuale, il caso di valore, il capitale che nessuna decrescita e nessun distanziamento può abolire. Il fare intelligente è il fare secondo occorrenza, il fare del secondo rinascimento.