COME APPRODARE ALLA QUALITÀ
Occuparsi, impegnarsi, affaccendarsi, affannarsi: quando? Per cosa? Per chi? Vale la pena? O la candela? “Ho raggiunto le mie mete, i miei obiettivi, non ho più finalità da perseguire: non è meglio fare un passo indietro, o andare in pensione, o cedere l’azienda, magari dopo aver programmato il passaggio generazionale, eletto il successore, venduto al fondo d’investimento?”. Sulle note del fantasma di fine del tempo, la ballata dell’arrivato, del vincitore vinto – di chi sapeva, voleva, poteva, doveva fare e ora non sa, non vuole, non può più nulla – propone la rassegnazione come abito di turno, come divisa del nulla per darsi la pena e la colpa del proprio destino segnato, il destino di morte: approdare alla fine, esaurire la vita è il compito del penitente.
Ulisse non è approdato a Itaca, sarebbe stato un ritorno. Ma il viaggio è senza ritorno: nel viaggio della vita le cose vengono e vanno, non vanno e tornano.
Anche i conti non tornano, non possono evitare lo sbaglio che, nella sintassi, dissipa l’ordine normativo e normale.
Nonostante i suoi conti, Colombo pensava di essere approdato alle Indie, invece si è imbattuto in un continente nuovo.
Siamo arrivati? Abbiamo raggiunto la meta? La meta non è l’approdo, è un pretesto per il viaggio, a volte un abbaglio.
Diversamente dalla meta, l’approdo non si rappresenta, non è un imperativo.
L’approdo è approdo nella narrazione.
Dove vogliamo approdare? L’approdo non è quel che si vuole o non si vuole, cioè il télos, il fine che giustifica il viaggio, che vale la pena.
Finalizzare la nostra ricerca e la nostra impresa comporta sottoporle all’ideale: potremmo toglierle dalla parola per immaginare un approdo ideale, potremmo raggiungerlo, ma non ne saremmo soddisfatti, proprio perché ideale. Questione di piacere l’approdo, dunque mai immaginabile e credibile. Il piacere, se è cercato, manca sempre di qualcosa. Ecco il pathos, la preoccupazione, l’affanno: la ricerca del piacere, che lascia irraggiungibile l’approdo perché lo idealizza nella meta, nel raggiungimento del fine.
Ma non c’è approdo alla riuscita. Le cose riescono quando giungono al compimento, per via di una sintassi non normativa, di una frase non regolamentare, di un fare senza bisogno di motivazione.
Un’altra legge, un’altra etica, un’altra piega della vita: questa la riuscita, in cui la gioia è incontenibile. La riuscita non dipende dalla positività dell’itinerario, non è il successo, il segno della buona performance, dell’economia del male: il successo è una virtù del volontarismo, è il successo della volontà dell’Altro, che sostituisce la predestinazione alla legge, all’etica e alla clinica. Quest’ultima non è la soluzione per la patologia, ma la strategia, la piega delle cose facendo (clinica deriva dal greco klìnein, piegare, tendere) in direzione della qualità. Con il volontarismo e il finalismo, l’approdo alla riuscita sarebbe il completamento, raggiunto da quella sufficienza per cui il fine giustificherebbe i mezzi. Così la legge, l’etica e la clinica diverrebbero canoni per l’azione risolutrice, definitiva, salvifica. Altra cosa l’efficacia, che è del fare in quanto si scrive, in modo narrativo, perché non prescinde dalla lingua di ciascuna esperienza, di ciascuna impresa: la scrittura del fare non può partire dalla clinica, dalla strategia che pretenda di pilotare il fare, ma s’instaura nel suo compimento. Come testimoniano gli imprenditori in questo numero, il viaggio dell’impresa sospende l’indifferenza in materia di riuscita tipica del burocrate e del funzionario, i quali, nel migliore dei casi, si accontentano del successo. La riuscita esige il processo di scrittura della ricerca e del fare, banditi dalla burocrazia, e indica che il processo di scrittura dell’esperienza è giunto al compimento, dunque alla legge, all’etica e alla clinica. Nella ricerca e nell’impresa, la legge, l’etica e la cinica, non naturali e non convenzionali, non divine e non statali, sono della parola, non sulla parola o contro la parola, e esigono che quel che si dice e si fa si scriva, fino al compimento. Le legge, l’etica e la clinica sono compimenti della scrittura dell’impresa, della città, della vita, non il suo completamento, la sua completezza, la sua realizzazione spirituale. Queste sono le finalità cui il viaggio dovrebbe attenersi per giungere alla fine, alla dissoluzione nel nulla.
“Con l’idea di fine nessun approdo, ma la circolarità. Il viaggio va in cerchio, senza direzione. Chi va a vuoto, gira in tondo e piomba nel cerchio”, scrive Armando Verdiglione nel libro La rivoluzione cifrematica. L’approdo è oltre la riuscita: vi è chi riesce, ma non approda da nessuna parte. Qual è la direzione del viaggio? Lungo la ricerca e lungo il fare, mai potremo trovare la direzione, se speriamo o ci ripromettiamo di raggiungere l’approdo, se l’approdo è immaginato o creduto il porto, o il luogo dell’arrivo, dove finalmente tutto sarebbe codificato, deciso, significato. Non c’è l’approdo al simbolo della padronanza (il codificabile), alla lettera dell’affrancamento (il decidibile), alla cifra della comprensione della vita (il significabile): sarebbe mortifero, il luogo dei contropiedi e dei contrappassi, dell’esaurimento e della dissoluzione.
L’approdo non si conosce e non si vuole, ma nessuna meta può evitarlo.
Nell’approdo il simbolo sancisce che la legge non trova codificazione, la lettera certifica che l’etica non consente l’identità e la cifra implica che la clinica giunga al caso di qualità, oltre la riuscita. Nessun Nirvana, nessun cupio dissolvi, nessun ritorno allo stato inanimato di cui parla Sigmund Freud in Oltre il principio di piacere. Divenire caso di qualità prescinde dal pathos, dall’affanno, dalla preoccupazione, altrimenti l’approdo diventa il riposo del guerriero, il placare gli affanni, la calma dopo la tempesta: “finalmente a casa”, “anche oggi ho finito”, così l’impazzimento, il fare quello che si vuole, è servito. E la vita è sospesa, in attesa di rituffarsi nell’infernale il giorno dopo. Altra cosa dalla calma la tranquillità, quando, per via d’audacia e di rischio, non c’è bisogno di pensarsi, dunque d’immaginarsi e di credersi, o di rincorrere un risultato ideale. Mentre il riposo trova il nulla come suo luogo ideale puro, con l’approdo il viaggio non finisce: in particolare, l’approdo alla cifra dissipa l’idea di fine, sancisce che quel che vale è quel che resta, che la battaglia in direzione del valore è infinita e eterna. L’approdo non è la fine, è oltre l’infinito, per questo l’approdo al valore è approdo al piacere e alla felicità, che non valgono mai la pena. E il piacere sperato è il piacere che mai si raggiunge.