L’EMILIA ROMAGNA E IL RILANCIO INDUSTRIALE DELL’ITALIA

In Emilia Romagna non è ancora possibile tracciare una mappa della rivoluzione annunciata con la digitalizzazione manifatturiera di Industria 4.0 – promossa in Europa nel 2011 dalla Germania per finanziare le aziende nazionali che necessitavano di un ammodernamento tecnologico – perché è un processo ancora in atto. L’Italia, che già nel rinascimento aveva inventato un nuovo modo di commerciare e di produrre (il termine “impresa” è rinascimentale), tramite Industria 4.0 può inventare un modo specifico, un altro modo di fare industria e un altro modo di fare impresa.
Si dice che l’Italia non riesca a “fare sistema”, ma questo per tanti versi è un vantaggio, perché ha comportato la proliferazione di una quantità di piccole e medie imprese, che viaggiano ciascun giorno in direzione di nuovi approdi, in un pullulare di scambi internazionali e invenzioni che non ha eguali altrove e costituisce la ricchezza peculiare del nostro paese.
Le imprese italiane non temono l’innovazione, sono altre le ragioni della loro cautela, che spesso risulta una dissidenza, una necessità di non uniformarsi agli standard. Qualche mese fa, un imprenditore che produce stampi rilevava che la stampa 3D non è in concorrenza con quella tradizionale, perché ha il vantaggio di produrre con la tecnologia additiva delle polveri particolari meccanici di dimensioni molto ridotte, mentre gli stampi che costruisce nella sua azienda sono il risultato di progetti e procedure che inventa di volta in volta su misura per il cliente. A proposito dell’Internet delle cose (IoT), si chiedeva invece con quali criteri e da chi siano raccolti e gestiti i dati, non escludendo l’eventualità che possa diventare un altro modo per controllare il lavoro delle imprese.
Questo imprenditore enunciava forse un pregiudizio contro le tecnologie? Oppure la questione è un’altra, e cioè come avere fiducia in strutture predisposte da apparati istituzionali, in un contesto in cui la politica è impegnata a costruire muri di burocrazia in ogni ambito che non segua lo standard, com’è necessariamente quello dell’impresa italiana, scelta come partner di progetti internazionali proprio perché offre una grande duttilità e proposte inventive? In Italia, poi, la durata media di poco più di un anno dei governi ha convinto gli imprenditori a non aspettare l’attuazione di una politica industriale da parte di istituzioni così restie all’innovazione.
La forza delle nostre imprese 4.0 è la forza di quel rinascimento italiano che vive ancora nelle nostre moderne botteghe industriali.
L’economia 4.0 corrisponderà all’attuazione di nuovi standard o avvierà la loro messa in questione? In entrambi i casi, costituirà l’opportunità per uno sforzo d’invenzione, ancora una volta, per produrre in un altro modo, un modo che esige il cervello dell’impresa. Occorre trarre il meglio dal progetto Industria 4.0, forzando la normativa laddove dispone procedure che bloccano l’azienda. Oggi, quando un’azienda chiede di produrre, per esempio, uno stampo su misura, non propone il suo progetto, ma la sua idea. Spetta all’imprenditore portare a scrittura quell’idea costruendo lo stampo, valutando, per esempio, se i materiali da impiegare possano modificare il progetto stesso dello stampo e, quindi, anche la domanda del cliente.
L’economia 4.0 metterà in questione sempre di più l’idea di luogo, annullando le distanze: il cervello delle imprese non è più localizzabile.
Questa economia potrà avviare la trasformazione anche di aree del paese tradizionalmente lontane dai grandi centri produttivi, se però non si chiuderà nella mera tecnologia. Che il cervello non sia più localizzabile implica che non possa più essere inteso come sistema. Ma, allora, perché continuare a credere che le tecnologie possano assicurare un nuovo sistema per unificare e uniformare? Il libro Europa 4.0. Il futuro è già qui (Livingston) avvia un dibattito e indaga come le tecnologie possano rilanciare la particolarità, l’invenzione, la parola, anziché negarle e standardizzarle.
Alcuni tecnologi annunciano che l’approccio inevitabile è il system engineering, l’ingegneria dei sistemi che s’integrano fra loro? Ma non è quello che già facciamo attraverso il nostro cervello, quel cervello che è nella logica della parola, quando integriamo informazioni differenti, durante la giornata? Allora, l’economia 4.0 è un’opportunità nella misura in cui non nega la logica della parola e il suo cervello. In questa logica anche il lavoratore non è più il dipendente, inteso come mero esecutore, perché l’economia 4.0 ha bisogno di lavoratori allenati al ragionamento e all’invenzione, caso per caso, così come di venditori che non vendano più soltanto il prodotto. Nei prossimi anni assisteremo quindi a un divario netto fra questi lavoratori e la massa di altri lavoratori che, invece, subiranno la trasformazione. Il cervello industriale metterà sempre più in crisi proprio gli apparati e le burocrazie, che da sempre hanno orrore del movimento e per questo impongono la localizzazione e la parcellizzazione in campi sempre più specifici. La nostra era, l’era intellettuale, è l’era industriale.
Lungo questa direzione, e nonostante la burocrazia, l’Emilia Romagna è candidata a diventare la Data Valley europea, con la costruzione del Tecnopolo di Bologna, che sarà il più grande di una rete di altri dieci e ospiterà il Data Center del Centro Europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine, oltre al nuovo super computer da 120 milioni di euro, Leonardo, che raccoglierà i Big Data del nostro paese, e non solo. Ma nel Tecnopolo avranno sede anche il Centro di competenze Industria 4.0 BIREX, le biobanche dell’Istituto Rizzoli, l’Agenzia nazionale Italia Meteo, ARPA Emilia-Romagna, ENEA e altre imprese. L’Emilia Romagna, e quindi l’Italia, costituirà il laboratorio europeo in cui avverrà questa trasformazione. Spetta a noi cogliere la nuova sfida per il rilancio industriale del nostro paese.