COME LA CITTÀ SI SCRIVE SULL’ACQUA

“L’acqua nella terra non ha loco”, scrive Leonardo da Vinci nel Codice Leicester (1506-1510).

L’acqua non ha luogo, non sta ferma.
Nemmeno l’acqua stagnante è acqua immobile. L’acqua si combina con la terra. Dal mare nascono le antiche montagne dell’Appennino bolognese.
Dalla terra sgorga l’acqua, che, lungo il viaggio, si arricchisce di nuovi elementi. Ecco le acque termali.
L’acqua è frutto della combinatoria degli elementi perché non riposa mai: gli elementi si integrano nel viaggio dell’acqua. “Nessuna cosa sanza lei si move” e “in essa forza è vita attiva”, scrive ancora Leonardo.
La forza dell’acqua è invisibile, è la tensione pragmatica dell’acqua.
Quando le cose si fanno entrano in un ritmo, nell’automazione propria dell’industria: l’acqua è indice dell’automazione.
Non è un caso che nell’area di Alto Reno Terme si sia sviluppata una fiorente attività metalmeccanica e siano nate le ferriere per la lavorazione del ferro: sfruttando la tensione propria dell’acqua, era possibile azionare un maglio che permetteva di forgiare il ferro, producendo utensili e attrezzi per l’agricoltura, in particolare per procurare il legno dei boschi necessario all’attività delle carbonaie.
Le ferriere, le carbonaie di Porretta, ma altrove, a Bologna, le filande e l’industria della seta. Quando Bologna era città di canali, avviarono la sua fortuna gli oltre cento mulini ad acqua per la lavorazione della seta, che nella città aveva l’industria più fiorente d’Europa, fra il XVI e il XVII secolo, com’è oggi l’attuale industria delle macchine automatiche. L’acqua produce energia elettrica attraverso le dighe, l’acqua macina il grano nei mulini, l’acqua diventava il vapore che alimentava il motore dei treni.
Dove c’è acqua c’è automazione, c’è industria, c’è il fare: c’è vita. Non a caso le città sono sorte lungo i fiumi, sulle loro foci, lungo il mare. L’acqua, l’automazione, l’industria, la città.
Come indice dell’automazione, l’acqua indica la direzione delle cose che si fanno. L’automazione non ha nulla di naturale. Con l’automazione anche la natura è artificiale, come provano i paesaggi, le montagne e le valli, le strade e i borghi delle città della nostra penisola: paesaggi d’arte e d’invenzione, frutto del ritmo del fare.
Tutto ciò che incontra il viandante, il navigante, il migrante non ha nulla di naturale, il viaggio è costruttivo.
La città del fare si scrive sull’acqua, che non ha loco e non ha posa, sfugge alla possessione e alla padronanza, puntando al compimento di quel che si fa e di quel che si scrive. L’artista, il poeta, il ricercatore, il viandante, l’imprenditore constatano che nulla è immobile. La casa e la città che sono idealizzate rovinano nell’immobilismo.
E trionfa la burocrazia, che sostituisce al governo, proprietà del tempo, la paralisi, negando il pubblico.
L’acqua indica la direzione. L’adagio secondo cui “l’acqua va dove ce n’è di più” indica la fluenza del fare senza fine, indica i flussi. L’acqua è finanziaria: non si tratta di “avere” tempo, ma, facendo, interviene il tempo per concludere. Il tempo del fare non è una linea, non è misurabile nella durata, secondo l’automatismo dell’orologio. Altro è il tempo pragmatico, tempo industriale. Tempo è taglio, temno, squarcio, divisione, partitura. Essenziale questa partitura alla musica. Lungo questa partitura, sette note si combinano all’infinito.
Non a caso Porretta si qualifica anche come città della musica. La divisione è essenziale alla metrica, alla struttura ritmica del componimento poetico.
Senza il fare nemmeno la poesia.
Poiésis si traduce con fare, inventare.
L’ingegno sta dove le cose si fanno: nella poesia.
Ma l’acqua dissipa anche la dicotomia tra il cosiddetto tempo del riposo, il tempo libero, e il tempo del lavoro, o del fare, fra l’otiume il negotium.
L’otium e il negotium sono il processo di valorizzazione fino all’approdo alla salute. I Romani avevano inteso qualcosa, quando introducevano la biblioteca, i giochi e la politica nell’incontro alle terme. Le terme indicano proprio questo: l’acqua è la vita nel suo ritmo incessante, in un moto continuo e in una combinazione di elementi che la qualifica. La città del fare è allora anche la città della salute, la città che si scrive sull’acqua. La città, l’industria, la natura viaggiano in una trasformazione incessante, come ciascuno che osa viaggiare lungo i sentieri e i bordi, il filo e la corda della parola, raccontando e facendo: questo il tessuto industriale che non conosce crisi. Questa la città del secondo rinascimento. Le città italiane nascono attorno al “centro storico”, dove sono la piazza e il mercato, la piazza della parola e le botteghe, dove si combinano arte e invenzione. Non a caso Porretta e Granaglione sono nate attorno al mercato. Nel mercato avviene lo scambio, scambio nella parola, scambio nell’equivoco costitutivo della merce, ma anche scambio pragmatico, scambio non sostanziale, bensì temporale, finanziario, scambio proprio al programma per la riuscita di quel che si fa. Questa è un’altra politica, è la politica con cui si scrive la città, è la politica che non è ideologica, perché non è politica della sostanza.
La politica dell’acqua spazza via la burocrazia, la possessione e la padronanza del nulla. La politica dell’acqua è politica del fare e del concludere, lungo la via diplomatica, quindi senza personalismi, puntando al risultato e alla qualità delle cose che si fanno.